Thomas S. Eliot
Roma, 22 aprile 2023
Più passa il tempo storico, oramai scandito da malsani scoppi di follia invece che da avvenimenti politici rigorosamente esaminati e classificati, e più pare d’essere precipitati agli estremi fotogrammi di una dittatura africana del dopoguerra. Pochi ricordano Amin Dada e Bokassa, i garzoni messi su dall’Europa per sfruttare quelle lande sradicate al loro tran tran neolitico. Li si chiamava dittatori; erano, invece, lo specchio deformante di un’Europa che si stava liberando da sé stessa. In quanto déracinées, e pertanto privi dei tradizionali ammortizzatori psicologici, i Bokassa solitamente erompevano in orge megalomani d’iperbolico sadismo kitsch; ove la leggenda, s’attenuava, forse, più casta della realtà: oppositori gettati in pozze lutulente ove diguazzavano coccodrilli antidiluviani, troni esornati da centinaia di migliaia di perle, ministri assassinati in pieno consiglio per escinderne ghiotte cervella, amanti depezzate, ceste di diamanti, unzioni messianiche, petti onusti da figliolanze di medaglie da pitocco.
Questi golem morirono quasi tutti nel proprio letto perché gli Europei, che ne hanno viste tante, li trattarono, alla fin fine, da figliuoli scavezzacollo. L’ansia da esecuzione sarà propria dei trogloditi yankee, da Gheddafi a Saddam al povero nefropatico rintanato nelle gole afgane.
Sono tempi d’infimo impero, tempi ultimi per questa nazione rabberciata, l’America, ormai a fine missione. A riguardare il postremo Bokassa della Pennsylvania, Joe Biden, sembra di assistere alla finis terrae della razionalità; discorsi sconnessi o da spacconi, gaffe istituzionali, ciangottamenti, vane gesticolazioni nel vuoto; soprattutto un’istintiva e feroce disistima per la delicata impalcatura democratica: a differenza dei predecessori che, almeno, fingevano uno scontro ed erano costretti a vellicare grossolanamente le pulsioni più elementari dell’elettorato di riferimento (tasse, comunismo, eccezionalismo americano).
Tale spettacolo da Barnum, che si ripercuote vertiginosamente giù per li rami istituzionali, dal transmarinaretto alla polimorfa compagine clitoridea che gli si struscia d’attorno, ci ammonisce variamente.
La prima cosa che salta all’occhio è che l’America ha esaurito il proprio ruolo, e non per sua scelta. La seconda, evidente, ma ancora ignota al miccus suffragans, è che la democrazia, nella sedicente culla democratica, non esiste più, nemmeno nella finzione scenica: percentuali, sondaggi, conteggi e riconteggi non hanno rilevanza; siamo alla pura pantomima. Il prescelto si insedia direttamente; la manfrina dei gagliardetti, delle convention, dei manichini televisivi, liberali o conservatori, repubblicani e democratici, elefante e asino, blu e rosso, viene mantenuta solo per non allarmare troppo il residuo corpo elettorale: mera questioncella di ordine pubblico. E chi è il prescelto? Un Bokassa qualunque, un prestanome; un subdominante cui si concede tutto, dalla repressione interna alle sanguinose minacce internazionali, poiché il voto, nella sua essenza contabile, più non serve: la manipolazione a posteriori fornirà l’innegabile sostanza (c’è poco da fare, ha vinto!), sancita, poi, dalle vacue e sbrigative formalità costituzionali. Anche governatori, sindaci metropolitani e amministratori locali, la flebile epifania della libera scelta democratica, paiono usciti da una sit-com farsesca; come quel senatore della Pennsylvania (ancora!), uno capace di accendere lampadine con la bocca, forse uscito dai provini de Le colline hanno gli occhi; l’irruzione delle minoranze, poi, gravide delle rivendicazioni più sciocche, ha donato quel tocco di delirante anarchia a tutto il caravanserraglio: perché, ricordiamolo, le apocalissi dei cretini richiamano irresistibili il tono grottesco.
No, il Potere non s’identifica più con l’America e il mondo che gli fu soggetto; essa non regge il suo ruolo, secolare, di pupazzo da ventriloquo. Si cambia, è davvero tempo di olocausto globale, l'ultimo possibile, privo di ritorno. La metastasi è troppo avanzata e corrode persino l’immaginario. Solo il ridicolo servilismo italiano rimane fermo ancora ai tempi di Kansas City e dell’americano a Roma Nando Mericoni. In cambio di tale filoatlantismo fuori moda, però, l’Italia non riceve prebende, ma, anzi, s’ammala. Basti vedere come alcune nostre città d’arte, ancora splendide sin a cinquant’anni fa, si siano tramutate in pattumiere antropologiche e urbanistiche rassomigliando, gradatamente, ai suburbi più lerci e psicopatici delle big city yankee, formicolanti di un demente sottoproletariato digitale: squatterschlein, pensionati più pulciosi dei loro sacchi di pulci, drogati, zingari stipati in caravan dalle gomme sgonfie, inabili, deformi, pazzi, obesi in canottiera, vecchi che strascinano sporte di plastica appesantite da junk food; i caseggiati popolari lordati dagli spray, le ringhiere divelte, si aprono su prati fulminati da piscia e merda di cane, gli angoli dei cortili spessi per i rifiuti di anni: carte da gelato, plateau da discount, cartoni di surgelati alla plastilina, ma da saltare gustosamente in padella, preservativi rinsecchiti.