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12 maggio 2017

Ho visto morire un poveraccio


Pubblicato su Pauperclass il 10 marzo 2015

Una strada del quartiere. Sono abbastanza vecchio da ricordare i prati che c'erano qui.
Poi, in due anni, una serie di palazzine si mangiarono tutto; edilizia anni Settanta: né brutte né belle. O meglio: appena fatte, rispetto alle nostre, dall'intonaco scialbato, sembravano residenze di pregio. Viste adesso mostrano tutta la meschinità di chi le progettò: segnate dallo scolo delle piogge, senza vita, anonime; d'uno squallore che non riesce a farsi malinconia.
La via che scorre fra di esse è quella di sempre. Solo, m'appare più piccola. Allora era uno stradone di campagna, poco frequentato. Ora è un mezzo budello, con l'asfalto sbrecciato in più punti, i due sensi resi faticosi da una doppia fila ininterrotta di macchine in sosta.
La percorrevo qualche tempo fa, con la mente in automatico, come spesso accade con certi atti della vita quotidiana che siamo costretti a eseguire.
Improvvisamente un automobile davanti a me, d'una qualche decina di metri, cominciò a sbandare: dopo un breve zig zag tamponò un'altro auto in sosta, alla sua destra, e infine si ribaltò, al centro della strada.
Nessun altro fu coinvolto nell'incidente.
Successe tutto in pochissimi attimi, quasi irreali.
Il guidatore riuscì a cavarsi fuori dall'abitacolo, da solo. Un tipo comune, sui sessanta, sessantacinque, un po' male in arnese. Si teneva una spalla. Lo sguardo era allucinato. Qualcuno si fece da presso per accertare le sue condizioni. Lui rispondeva meccanico: "Sì, sì ...", come a dire: "Sto bene", senza nemmeno guardarci. Poi: "Aiutatemi a rimetterla su ...". Alle rimostranze che no, si dovevano chiamare i vigili e, forse, un'ambulanza, sembrò scuotersi: "No, no ... dai .. rimettiamola su ..."; e ancora: "Rimettiamola su", con un tono fra implorante e stizzito; e si mise a spingere, con un solo braccio, la sua automobile, capovolta come uno scarafaggio morto, che si mise a dondolare inutilmente.
Faceva scuro. Ci si limitava ad aspettare l'arrivo della municipale.
Il tizio diede altri due scrolloni, uno più deciso dell'altro, ma non ottenne risultati. Si girò, pallidissimo, e disse qualcosa a mezza bocca che non si capì; poi, come affaticato da quella sconfitta, col cielo che gli pesava addosso, si diresse verso il marciapiedi: si chinò, appoggiandovi la mano buona, come a sostenere il corpo nell'atto di sedersi; la mano, tuttavia, scivolò ed egli cadde bocconi, la testa sul marciapiede, le gambe fuori, rattrappite fra lo spazio di due macchine in sosta.
Credemmo fosse svenuto. Non si sapeva cosa fare; eravamo come inebetiti da quella manifestazione sincera di dolore, dalla troppa umanità. L'ambulanza arrivò quindici minuti dopo, la sirena che lentamente aumentava d'intensità, avanzando con cautela nella carreggiata ristretta, occupata dai curiosi smontati dalle macchine.
Gli infermieri armeggiarono per un po' attorno al corpo, intralciati dal poco spazio. S'intuiva il peggio.
Lo adagiarono di peso sulla lettiga. Stretto fra le coperte, ne vidi solo la nuca, il volto rivolto altrove, immobile.
Era morto.
Arrivarono, con molto agio, anche le gendarmerie locali. Dopo due ore di attesa, il relitto fu portato via, la circolazione riprese. S'era fatta notte.