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27 marzo 2023

Il dovere di essere reazionari


Roma, 27 marzo 2023

I funerali … il dovere di andare ai funerali … e sia! Poi, sbiaditi i commenti, i saluti insinceri, le stupidaggini sullo scorrere del tempo, ci si divide con un sospiro di sollievo. Parenti, amici, sodali sono ben contenti d’essere ancora in vita … rispetto al salmone appena interrato, s’intende … in realtà, lo annuso, assolutamente disperati quali gli eviscerati omarini postmoderni sono. La loro ansia di sfuggirsi l’uno con l’altro non è che la testimonianza di una asocialità e psicopatia indotta dal Potere cui pochi riescono a contrastare. Finita l’esibizione di cravatte e tailleur, le insinuazioni sulla vita privata altrui mascherate da premurosa cortesia (voglio proprio vedere come se la passa ‘sto coglione!), lo sbattere delle portiere, estremo fuoco artificiale del me ne frego, annuncia la smobilitazione delle mascherine. Le auto ibride scivolano senza suono, come le automobiline da scontro negli anni Settanta; i volti, intuiti dietro le trasparenze dei parabrezza, già riacquistano la normalità scipita e disperante dei giorni, cucchiaini da caffè che consumano esistenze prive di significato. Per conto mio, me ne scappo a piedi (dov’è la tua macchina? ... non c’è, sono venuto col 19 ...t’accompagniamo a casa? ... no, no... Alla fermata? ... no). Sgombrato il capannello, deposte le corone, già indistinguibile ciarpame, il cimitero del Verano riprende la consueta anomia. Lunghi viali rettilinei, desolati, edifici deserti fitti di loculi abbandonati, le luci tremolanti o spente del tutto, la vegetazione incolta, i larghi prati malmessi o circondati da transenne presso tratti di architetture crollate. Mi immetto in un largo viale che reca all’uscita sulla via Tiburtina. Sulla destra è l’altopiano del reparto Israelitico, anch’esso privo di alcun visitatore.
A livello del terreno alcune tombe dei primi del Novecento. Marmi, memorie, cippi. Così dovevano apparire ai viaggiatori le antiche consolari romane, affiancate da epigrafi e ammonimenti. Le vie che si dipartivano da Roma, l’Eterna, così perfette nella manutenzione e nella posa dei basoli, e simbolo della potenza e dell’organizzazione imperiale, si costituivano come straordinari memento mori.

Una teoria di nomi, date, speranze, afflizioni. Immagini di volti, alcuni conservati perfettamente a distanza di secoli. A ridosso della collinetta che risale verso i campi meglio tenuti, una lapide: Nina Levi, 1878-1899.
Nina. Forse Antonina?
Non posso rimanere indifferente. Ecco, ella mi osserva, da due secoli addietro; è fra noi. L’acconciatura gozzaniana, il collettino d’antan … la pudica ritenutezza, e il liquido scuro degli occhi che annulla le distanze; con noi discorre, ancora, familiare come i ritratti romano-egizi del Fayyum. L’amore dei genitori per la figliola, il dolore per la perdita: “Riposa Nina, riposa, caro angelo nostro, nel grembo dell’Eterno, tu, gioia strappata ai nostri giorni sulla Terra, riposa, gentile e casta fanciulla”. Le lettere incise con maestria, debitamente simmetriche, con ragionevoli sbalzi di dimensione fra i caratteri, a esaltare virtù della giovane defunta e invocazioni celesti. E quell’inciso, CONCORDIA DISCORS, tratto dall’epistola oraziana a Iccio: onde ammonirlo a non abbandonare la filosofia per la scabbia del lucro e dimenticare “quae mare compescant causae, quid temperat annum/stellae sponte sua iussaene vagentur et errent,/quid premat oscurum lunae, quid proferat orbem,/quid velit et possit rerum concordia discors”: cosa e chi governi il mare, le forze regolatrici delle stagioni o degli astri, perché s’oscuri la luna, quale il fine o la natura dell’armonia discorde delle cose.
Una famiglia ebraica cita un Romano imperiale che allude a un greco di Sicilia che anticipa di due millenni i concetti del cristiano Eliot: “reconciled among the stars”: poiché unica è la lingua, e occorre amarla a fondo per non infangarla, per comprenderne la portata.

In questa immagine purissima è condensato tutto ciò che occorre sapere sulla resistenza, sulla nostra etica, semplice e inflessibile. Opporsi al transeunte, alla sciatteria, all'oblio canceroso, al livellamento, alla globalità che spiana le differenze e il patrimonio dei popoli; selezionare, selezionare; rendersi indipendenti dalla moda, dai tempi; rigettare la moda e i tempi, continuamente definire, scavare nel senso delle parole, infinitamente adeguarle a una realtà di ricchezza infinita.

Henry Gee è un genetista, un evoluzionista darwiniano. Questo non mi disturba. Se proprio dovessi trovare qualcosa di scostante in lui, lo rinverrei nell’adesione, adombrata più che dichiarata, all’antispecismo e nel tributo (inutile quanto goffo poiché non richiesto) a un vago ateismo. Sono peccatucci da poco, tuttavia, quasi delle tangenti che un autore scientifico deve pagare per non farsi squalificare alla partenza. La scienza attuale, infatti, è quanto di più intollerante sia mai apparso nella fugace storia del pensiero umano.

Ma torniamo a noi. Cosa dice Henry Gee nel libretto La specie imprevista. Fraintendimenti sull'evoluzione umana?

12 ottobre 2018

Farfalle e piccioni


Roma, 11 ottobre 2018
La Biston Betularia, una falena dalle ali chiare, punteggiate da minuscole macchie più scure, svolazzava indisturbata, nei primi dell’Ottocento, fra la selvaggia chiarità delle campagne inglesi. Si posava, con flemma britannica, sulle betulle indigene, ricche di licheni bianchi: lì, immobile, poteva mimetizzarsi perfettamente; e riposare. Si trovava, infatti, nel proprio elemento, con cui aveva ingaggiato un progressivo rapporto simbiotico: millenni di lotte, fughe, inganni e crudeltà venivano racchiusi in un insettino solo apparentemente insignificante. In esso, però, vivevano milioni di ascendenti e, soprattutto, ancor più, i nemici sconfitti. Si poteva ben dire che il complesso e ingannevole vestimento le era stato donato dalla lotta coi predatori più accaniti. Ora prosperava naturalmente, fra gli alti e i bassi di un’esistenza fugace, aleatoria e libera. Le guerre non mancavano; il gelo poteva uccidere; la farfallina era, tuttavia, perfetta: strutturata per la vasta eternità.
Poi venne la Rivoluzione Industriale. Gli aggregati metropolitani cominciarono a produrre tonnellate di fuliggine da carbone. Le betulle annerirono, assieme ai licheni della superficie. La bianca falena, ora, risaltava con evidenza accecante sui tronchi: i predatori procedettero lentamente allo sterminio. Una variante scura della betularia, una popolazione fin lì assolutamente minoritaria, vide lentamente e irresistibilmente crescere le probabilità di salvezza. Le proporzioni si invertirono: da 99% a 1%; da 1% contro 99%.
Le Carbonarie, sui tronchi anneriti dal progresso, si mimetizzavano con facilità; le altre non avevano, invece, alcuno scampo.
Intanto l'immaginario Oliver Twist, ignaro della strage, popola l'Inghilterra, terra di confusione, nelle pagine di uno scrittore di Portsmouth.

28 novembre 2017

L'estinzione dell'Italia. Una cronaca


Pubblicato il 13 settembre 2014 

Estinzione del passato, dell’Italia.
Una chiesa medioevale del centro Italia. 1200 circa.
Affreschi più tardi, di scuola umbra, fra Quattrocento e Cinquecento.
Nella figura in alto una foto degli anni Ottanta.
Cristo al Sepolcro fra S. Antonio, S. Leonardo e S. Benedetto da Norcia.
Dopo mezzo millennio, nonostante le incurie e il menefreghismo, erano ancora visibili.


Ecco gli stessi affreschi oggi.
Trafugati, svaniti, annientati.
Il tetto della chiesa ha ceduto, l'altare è in macerie, l'acquasantiera è stata estirpata dalla parete, i fregi rubati; l'entrata è ostacolata da un enorme fico selvatico, l'intero vano è invaso da cespi d’erba vetriola.
Il passato svanisce, svanisce il popolo che il passato teneva unito e in vita.