Roma, 20 luglio 2023
"Anche i migliori non sfuggivano talvolta alla tentazione di degradarsi volontariamente, di livellare le frontiere e le gerarchie, di tuffarsi in quella superficiale fanghiglia di comunanza, di intimità facile, di turpe promiscuità"
Bruno Schulz, Le botteghe color cannella
Sì, signor giudice … confesso ... lo faccio liberandomi finalmente l’anima da un peso insostenibile, e rimettendomi, al contempo, alla clemenza del Vostro giudizio … confesso: i trentacinque gradi delle mie estati da ragazzino erano assai più fresche se confrontate coi trentacinque gradi di oggi. Purtroppo, nato e cresciuto quale plebeo, vissi nell’ignoranza … ma ora, in attesa della condanna, severa quanto equa, perdonate una minuscola caduta nel ricordo. Si era a metà degli anni Settanta. Spensierato, come solo i bambini di allora potevano essere, senza nemmeno il sospetto della crudeltà, innocente come un uccellino, solevo sdraiarmi all’ombra, presso il balconcino della nostra cucina: in un palazzo popolare dell’infinito suburbio romano. La mattina, libero dagli impegni scolastici, che pur mi erano cari, io leggevo. Giulio Verne, non ancora Jules, fantascienza, Dracula, Frankenstein, Tex, saggi su Magellano e Cristoforo Colombo (rinvenuti nella sbrindellata e casuale biblioteca di casa), leggende cristiane, Dumas, Paperinik. Andava di moda, a quel tempo, il gioco del clik-clak, due palle di legno legate a un filo che si facevano cozzare violentemente e velocissimamente con un giuoco formidabile dei polsi. I lunghi pomeriggi, senza televisione, amavano riempirsi di tali ritmici rintocchi; dalle decine di balconi che davano sull’ampio cortile interno, sorta di salotto comune, ragazzini e adulti discorrevano amabilmente fra loro; poi, svaporate le ore più calde, ci si ritrovava fra noi, a inscenare farandole e scherzi infantili: allora, per qualche ora, tutto prendeva a risonare di schiamazzi e richiami; l’aria immobile si faceva gradatamente compassionevole; al tramonto s’avvertivano lieti i profumi della cucina: un fritto, della carne al tegame; si cenava, a volte, rinserrati come conigli, proprio su quei balconi; dopo, mentre mia madre risciacquava i piatti, amavo starmene da solo, coi gomiti appoggiati alla ringhiera scrostata. Aspettavo il consueto miracolo personale: le luci della sera. Quelle timide accensioni, una dopo l’altra, contro all’azzurrino del crepuscolo che, dolcissimamente, cedeva il campo alla notte, mi rapivano irresistibilmente, ogni volta. Soggiogato, riuscivo a dimenticare persino la fetta di melone, che mi rimaneva in mano, a mezzo sbocconcellata; l’umile spettacolo: flebili lampadine giallastre, abat-jour, soffusioni al neon, lampadari a goccia - tutto definiva le sagome di chi avevo pur visto, in pieno giorno. Ma quegli uomini e quelle donne, e i loro figli - Stefano Elisabetta Enrico Danila - mutavano, ora, in presenze nuove, fantasmatiche, seppur amiche. Un mondo sospeso, diverso; in cuor mio (ma lo compresi solo più tardi) speravo che rimanesse per sempre, gravido del dono dell’eternità. In sottofondo s’avvertiva il ronfare della città; e il pulviscolo dell’elettrico, lontano, verso il centro formicolante, da lì sfumato come un miraggio. Poi le tenebre infittivano; inaspettata, risaliva da terra una brezza fresca, a scuotere i rami dei pinastri del cortile; allora chiudevo gli occhi, a meglio goderla: il mondo era perfetto.