Striscia lentissimo nel traffico, come un bacarozzo malato. In curva la parte sinistra sprofonda, con gli ammortizzatori scoppiati; è gravato della solita carne da cannone.
Le tre porte si aprono simultanee; quella posteriore è presidiata dai soliti nordafricani (sempre gli stessi, sembrano comparse di una pellicola sulla disfatta dell'amministrazione capitolina); l'anteriore si apre a metà: un pensionato con carrello si inerpica lentamente e dolorosamente sulla pedana: pianta a fatica il piede destro, poi artiglia un sostegno, fa un mezzo giro panoramico esercitando un orgoglioso sguardo di disprezzo su uomini e cose, poi sale col sinistro; una volta sulla pedana, issa il carrello della spesa con entrambe le mani. L'operazione è complessa; non si muove nessuno; e neanch'io, per carità.
La folla si concentra perciò sulla porta centrale: le solite schermaglie fra chi scende e chi sale: infine si intravede uno spazio libero, l'area destinata ai non deambulanti; poiché la natura aborre il vuoto questo viene occupato con foga.
L'autista, scarpe da ginnastica, occhiale scuro, attende con menefreghismo nichilista. Poi, in rapida successione, sbatte i polpastrelli schifati sui tasti della chiusura; c'è un intoppo: riapre. La plebaglia si stringe ancora un poco; tutti riorganizzano la postura degli arti in combinazioni più favorevoli al guadagno di un minimo di cubatura. Si fa qualche passetto avanti: nuovo pigiar di tasti: stavolta le porte a tagliola si chiudono con uno scatto felice. Si riparte.