Disfasia allegorica (scrivere o esistere?) [Il Poliscriba]

Il Poliscriba

Ho meditato oblungo sul linguaggio come uomo di carne sottomesso al suo gemello di carta.
Ne ho fatto sogno, deriva lessicale in notti protese su creativi fil di spada sezionanti significati palindromi, preconizzanti mutazioni simboliche, affette da radiofonie cicliche, decadenti come reazioni alfabetiche discrete, quantizzate da alchimie indeterminate.
Potevo arrestarmi, quando ancora mi era concesso dal limite sopportabile dell’elettrobiochimica cerebrale.
E invece ho sbaragliato il nemico del demiurgo letterario infilatosi in tracce curvilinee nei miei lobi prefrontali.
Il mammifero impigliato tra carne e ossa grugniva destini contrari: io dovevo vivere, non scrivere!
I peli crescevano ed io li potavo radenti derma, spalmavo creme after-shave sulle riflessioni speculari di Mr. Bloom, sul passeggio a margine di gente di Dublino, sulla rotta di un Ulisse irlandese fedifrago ingannatore, trojan binario, software-horse.
A ritroso inventavo: cristallo… Cristo vs Fischer, stallo!, ardentemente… fuoco pensante, violenza… pesca di delicati fiori, polimorfi… titani monocoli storpiati dal loro stesso mito, solido… isolamento poliedrico, collimare… paesaggio allineato.
A tastoni abisso scaliforme scendevo per le trombe d’eustachio, attratto da una singolarità fonorifrangente, kundalini sonotraspirante e rileggendo lingue sconosciute presi la frusta nervosa che congiunge l’anima al mondo.
E domai indomabile bestia informe, premusicale, Gorgone che ingaggiò epici scontri con le dita di Beethoven e rinvenne, nel dolore acciaio della sua maglia sorda, canti profetici, mielismi dolci api ronzanti su polline sinfonico.
Decidere: scrivere o esistere?
Domanda teatrale, atto secondo, quinta sindrome, sipario bloccato insoluto a metà palco, applausi scadenti volgari turpiloqui fendenti.

Il primitivo primate è una desinenza quadrumane illetterata.
Lo scrittore: un bipede bibliopiteco.
Arrampicarsi sulle parole? E perché mai... è così riposante passeggiare.
Passeggiare in camere anecoiche …
Ricordo di Amélie, dottoressa plissettata senza scuse borghesi: “Oh, il mio astronomo très jolie”, ripetevi aggiustandoti le calze, tra la Sorbonne e Rue des Artistes.
L’amore all’ombra di una sfinge di pietra? Ce n’est pas possible!” ed eravamo già infilzati in un’orbita anestetica sotto un ipotetico ponte a nome Simone de Beauvoir.
Mani senza posa, edere variabili, arrampicate sui chiodi trafitti nel sangue per scalare reciproche labbra.
Le nostre gambe: perifrasi appoggiate alla materia, bagnate dalla Senna in brevi ondate marxiane, sopra sponde delirio affatto diverse da un rituale sinergico antropo-australe.
Amélie... libri caduti sul marmo... Sartre tatuato sulla coscia trattenuta dal mio braccio, ti ho posseduta in minuti discreti, in quanti differenziati, perché quadrasti il cerchio inquadrabile di un’eiaculazione rovente sotto il bolide prometeico inguainato in una missione esosferica.
E poi croissant e luglio scaldato da barricate molotov; ti scherzavo irriverente, sostenendo filosofie sbieche, indimostrabili, e unghiavi di graffio leggero la goccia caffè sul labbro, quando ridevo di quel Platone, iperuranico indagatore di poliedri regolari, di sfere romantiche e ideali.
Ho sempre pensato che la luna fosse il peggiore incubo di Lovecraft” ... deliravo per attrazione emozionale.
Amélie, divinità incredula, irrinunciabile, sazia di colazione, vincevi la mia gravità con una sensazionale e determinata velocità di fuga verso l’impegno politico e un irrisolvibile enigma da pizia isterica sulla combustione inesauribile della vecchia Europa, bacchettona e guerrafondaia.
Rocce mesomorfiche, basalti propiziatori, celluloidi evanescenze, fraseggio circense impresso in un geniale montaggio di George Méliès”.
Inventavo effetti vocali per stupirti in mani agganciate su una mattina bistrot, al di là del tempo delle mele.
Il 1969 a Parigi dove si contestò il mondo e mi donò Amélie ... ma vent’anni dopo.
E la luna non è deterrente poetico, è insistente orbita noiosa, ripetizione ellittica, sfera riflessa, grumi di silice incandescente, chirurgia di innesti luminosi, germinazione spenta in crateri necrotizzati da lave rapprese, caverna semioscura, luogo di punti equidistanti dalla marea terrena, presidiato da nervosi licantropi acquattati su xeleniti, guardiani di onici scolpite da antiche razze in prismi equivalenti, scrigni metamorfici per accogliere anime disincantate che non credono in paradisi silvestri.
Amélie, primo sesso, ultimo amore sulle gradinate dell’Eliseo, première femme de ma vie e Apollo incespica nel Mare della Tranquillità.
Nessun passo per l’uomo, nessun grande balzo per l’umanità.
Neil, Buzz, dovevate starvene a casa… birre fresche, barbecue, divano e play-off.
Houston … qui è kubrick che vi parla … nessuna novità dalla Nube di Oort …”.

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