Roma, 2 dicembre 2022
Ben
prima del pronunciamento della montagna sull’obbligo vaccinale, ho gustato la Silvana
Sciarra in una minuscola dichiarazione di riscaldamento. Viso magro, ma non
smagrito, candida messa in piega, talmente inappuntabile da apparire scolpita,
un taglio cesareo per labbra, la Nostra recitava un cibreo burocratico in
quell’anti-italiano (di cui si lagnò a suo tempo Italo Calvino, pace all’anima
sua) cui la giustizia ricorre quando deve sentenziare senza far capire nulla
di ciò che accadrà.
La commedia all'italiana ha ricavato varie scene comiche da tali sgranate di rosario; come quando l'imputato si rivolge
all’avvocato chiedendo lumi: “Ma quanti
anni mi hanno dato, dottò’?”, “Ma
quali anni, Mericoni! Lei è assolto!”; oppure: “Allora l’abbiamo sfangata, dottò’!” “Ma che sfangata, sono cinque anni, Mericoni!”: perché il sentenziese è a doppio taglio significando tutto e il contrario di tutto all'orecchio volgare.
Solo che qui la
Silvana ci ha sorpresi. A dir la verità non mi son reso conto, a causa della
mia struttura inconfutabilmente plebea, se fossi ancora in me oppure sprofondato
in un fugace deliquio cui spesso soggiaccio a fronte di autorità così autorevoli.
Già raccontai di quando fui ghermito da un soporoso stato psichedelico durante
un discorso di fine anno del Presidente della Repubblica. Probabile
che sia stato così anche stavolta. Le fattezze della Sciarra, già di per sé
aristocraticamente riconducibili al fenotipo mattarelliano, presero a
circonfondersi d’un aura indefinita, da suffumigio rituale; quella
robotica tefillah in una lingua insensata, priva di toni e cesure, un pocolino incespicata e appena sommossa da bollicine tecniche (“a quo”), m’indusse, perciò, da
subito alla rivelazione. Sembrò, insomma, e parlo per me, che la nostra
Presidente, ogni tanto, interrompendo fugacemente la litania, si microaccendesse d'un sorrisino dolcemente estrogeno, labbra serrate e commessure lievemente increspate: da amica d’infanzia; e che, al contempo,
promuovesse tale empatia, quasi inavvertibile, mercé alcune birichine alzatine di
spalla, come a render ancor più complice l’uditorio. “Sebbene nulla comprenda e voglia comprendere ... da questa donna non potrà
venire nulla di male …”, avrò pensato, già assuefatto alla pipa da crack che il
potere mi concedeva: "Questa non è una mia superiore, è la Marina Morgan dei
costituzionalisti, ci vuol bene, tanto … tanto bene … sono gli altri a sbagliare ... io in particolare ...".
Qualche ora dopo mi svegliai allucinato, con qualche linea di febbre
nelle ossa.
Ero pronto a rigettarmi nei vicoli plumbei della città.
Se, nell’inferno più sudicio della postmodernità, esistesse un girone riservato a chi cercò di imitare vanamente l’intelligenza, questo verrebbe comunque negato ai giornalisti italiani, troppo in basso per qualsiasi idea di nequizia. Il modo in cui, tronfi, essi citano questa locuzione latina (“a quo”), cicalando di “via incidentale”, merita il nostro disprezzo più lutulento. D’altra parte, ma questo vale per tutti, il giornalismo germinò di pari passo all’Illuminismo ideologico e tecnico. “The Tatler” e “The Spectator” di Addison & Steele nacquero ai primi del Settecento, in Inghilterra, dove dell’ideologia non sapevano che farsene. Rimase la tecnica, l’efficacia, che, proprio per esser al massimo operativa, aveva da far regredire nella dimenticanza lo stile, la cautela, l’evocazione poetica. Germinava l’informazione, moriva la verità. In tre secoli questo rogo ha consumato tutto. Non restano nemmeno i tizzoni esausti. Solo una fine calcina postatomica, a coprire ogni cosa, ogni granello fungibile all’altro, all’infinito.
Sulla punta della lingua del parassita vi è sempre questo disprezzo antropologico per chi produce la ricchezza; che il parassita a sé annette, per diritto di casta, come se questa fosse prodotta da una cornucopia di folletti; nella casetta di marzapane.