27 settembre 2018

La Cina è vicina


Roma, 27 settembre 2018 

Una conoscente, di sicura affidabilità, mi rende edotto d'un aneddoto altamente istruttivo. Circa dieci anni fa il figliuolo, allora diciottenne, e in odore di maturità classica, fu spedito in Cina con tutta la classe nell’ambito di un’operazione di “scambio culturale” (ordita non si sa da chi: sicuramente non dai nostri provveditorati o ministeri, troppo impegnati nel sorbire cappuccini; forse dai ministeri cinesi, come sospetta anche la sommenzionata conoscente).
I nostri zucconi, appena arrivati a Pechino, furono sistemati con tutte le cure presso una sorta di residence: pulito, organizzato e popolato di personale gentilissimo e in grado di affabulare, con lodevole proprietà, almeno nella rappresentanza preposta alla comunicazione, la nostra lingua materna. Gli sdraiati italici stettero un pochino sulle loro, poi cominciarono a prendere confidenza con i limoncini: sino a rivelarsi: come perfetti idioti. Erano in vacanza; di studio, certo, ma lo studio, in Italia, serve a prepararsi agli esami, non alla vita. I pecoroni, il giorno appresso, vennero portati a pascolare per la Capitale del Catai: ne ricevettero un’impressione devastante. La Cina era vicina, assai vicina: e priva di quei luoghi comuni che, chissà perché, sedimentano nell’animo dei peninsulari: il levantino con il laccio da strangolatore, il riso e il tè, la lingua indecifrabile, i salamelecchi orientali. Pechino, infatti, era una città sterminata, ampiamente infiltrata dall’Occidente e dall’inglese, moderna, insonne, paradossalmente febbrile e composta: i cinesi, poi, quegli ominicchi, secondo loro, risolvevano problemi: l’inquinamento, i cessi, il traffico ... ogni aspetto metropolitano, ancor caotico, veniva sottoposto alle cure lungimiranti di un cervello da “centralismo democratico”  in cui, pochi, decidevano: e gli altri, di conseguenza, obbedivano. Soffiava, insomma, una brezza travolgente e vitale dove le conquiste generavano problemi e questi ultimi, risolti, generavano progresso: e il progresso era interamente cinese, ovvero mai slegato dalla tradizione: i cinesi, almeno gli abitanti della Capitale, erano artefici del proprio destino (o del proprio disastro; un disastro, tuttavia, gestito intra moenia).

25 settembre 2018

La misantropia vietata dalla democrazia


Il Poliscriba

Andarmene, dunque, senza lasciare traccia. Questo mi è parso essenziale. La gente, se ne fosse poi occupata, doveva concludere a una definitiva irreperibilità. Meglio, a un misterioso annichilamento, un dissolvimento nel nulla.

da Dissipatio Humani Generis di Guido Morselli

Mi è sempre parso intelligente colui che rigetta il mondo o la mondanità, non per scopi dichiaratamente superiori, metafisici, iperuranici sentieri, ma per asilo coatto nel ventre abominevole del Leviatano sociale.
Ho sempre sentito un lieve disgusto, poi tramutato in nausea col passare degli anni, in mal di mare o mal d’essere, all’ascolto di sproloqui sulle proprie magagne: quello sciorinare microanalisi autolesioniste per il piacere narcisista di essere al centro di qualcosa, che non è scena, ribalta, palco, ma profluvio di inconsistenza spirituale dinanzi a un pubblico di ombre.
In questi giorni infausti, scopro tra le macerie di quella che fu la letteratura italiana, la luminosa essenza suicida di Guido Morselli, un uomo autore della sua esistenza ai margini della contabilità degli atti che si possono affastellare nel magazzino della coscienza, ad uso della toponomastica, per abuso di concretezza e di ricordi di ipotetici posteri che non si conosceranno mai.

21 settembre 2018

Non enim vivere bonum est, sed bene vivere


Roma, 21 settembre 2018

Novanta (90) suicidi all’ora. Nel mondo. Circa 800.000 all’anno, quindi. 800.000/8.000.000.000: il conto fatelo voi. Ancora pochi. La crisi, la paranoia, l’austerità, le guerre, la disoccupazione, la distruzione dei ruoli sociali, la folle competizione postmoderna, il narcisismo eretto a sistema. Ci si aspetterebbero dati più alti: alienazione, claustrofobia metropolitana, sovraffollamento, stress post-traumatici. E invece … e invece il suicidio appare, come già scrissi, più una soluzione razionale che una soluzione effettivamente praticata … Il suicidio, per chi abbia a cuore sé stesso e l’Italia e l’uomo, per chi sia umanista integrale, è una risposta naturale. Di fronte al deserto i disperati non possono che togliersi la vita. Eppure … eppure non è così, per il fatto, semplicissimo, che l’umanità ha trovato una parvenza di felicità, la distrazione.

[Qui dobbiamo intenderci. Il suicidio, diretto, senechiano, morselliano, da fine dell’epoca, il suicidio per troppa sapienza, è questione che attiene agli aristocratici: “non enim vivere bonum est, sed bene vivere”. Il resto dell’umanità ha scelto - o è stata scelta - per la dissoluzione suicida, che è altra cosa. Terrificante nella sua ineluttabile vastità.]

18 settembre 2018

Merde, alors!


Roma, 18 settembre 2018

In tale blog la merda è stata evocata più volte. Benché sia refrattario al turpiloquio nonché alla coprolalia discorsiva, trovo assolutamente deliziosa la risposta di tale Jean Asselborn a Matteo Salvini. Un apprezzamento insidiato dal rimpianto: avrebbe dovrebbe essere Salvini a rivolgerla ad Asselborn. E perché avrebbe dovuto? Con tale parola, se davvero fosse un conducator, egli avrebbe affossato simbolicamente il concetto stesso di democrazia europea. Un taglio netto. Ma Salvini è grasso. L’ho sempre detto. È l’attor giovane di destra. Quello di sinistra è, oggi, Luigi Di Maio, abile a sostituirsi, grazie alle intuizioni del maggior stratega d’Italia, Beppe Grillo, la Bocca della Verità, ai teneri esserini di sinistra, fatui e corrotti, colati fuori dei cessi del Sessantotto e dintorni. Entrambi, Salvini e Di Maio, a modo loro, sono grassi. Pasciuti. Non soffrono. Credono, fermamente, irrefutabilmente, alla democrazia. Al funzionamento democratico delle istituzioni: italiane, europee, internazionali. Ogni tanto sbottano, come certi mariti nei riguardi delle mogli: mai, però, si augurerebbero una separazione o un divorzio. Divorziare, in pieno 2018, equivale a dormire in auto lungo i marciapiedi della vita. E allora si dà in escandescenze, di tanto in tanto; si bofonchia; si lanciano dichiarazioni da wrestling.

Lo so, ho deluso taluni. Ma cosa posso farci? Sulla lunga distanza si delude sempre qualcuno, a parte la mamma.

15 settembre 2018

Una versione non ufficiale del golpe antisovranista del 2011 [Il Poliscriba]


 Il Poliscriba 

Il mercato crede in noi, è già tornato ad investire nei Titoli di Stato italiani"
Mario Monti, annus horribilis 2011

Vi racconto una storia di ordinaria lucida follia finanziaria, una novella che potrebbe essere inserita in un Decameron postkeynesiano, una sceneggiatura dietrologica per un film che non si girerà mai, che di certo, un regista del calibro di Veltroni, non potrà fare a meno di rivoltarsi tra le mani in un azzurro giorno di fine estate, presso il Country Club la Macchia di Capalbio.
Una storia che si avvia quando l’ineletto Mario Monti, che d’ora in poi nominerò lo Psicopompo,  planò  nella sede di Bloomberg a New York, in quel lontano 2011, per placare l’avidità dei mercati (così inchiostravano i giornaletti nostrani) dichiarando, per i duri d’orecchio e di cervice: "A giudicare dall'andamento del mercato qualcuno deve aver già investito  e penso che l'opinione che i mercati, così come le autorità degli altri governi, si stanno formando sulla serietà con cui l'Italia sta affrontando i suoi problemi, non possa che far aumentare l'atteggiamento positivo verso tutto ciò che è italiano, compresi i titoli di Stato".
E sappiamo tutti come è andata a finire: il popolo ha scelto con regolari elezioni, dopo un settennato di totale blocco della democrazia, ad opera dell’unico partito che ancora si fregia del titolo di democratico (sic!), il duo Salvini-Di Maio.
 

11 settembre 2018

Un serraglio di disperati (Biathanatos)


Roma, 11 settembre 2018

Queste frammentarie bagatelle per un massacro non vanno prese troppo sul serio.
Non le ho nemmeno rilette. 
Sono convinto di esse, però.

La Natura Universale vuole espandersi e riprodursi; una infinitesima parte di sé stessa si plasma come DNA ancestrale in una pozza primordiale; epoche di inconcepibile durata generano, per miracolo, l’uomo.
Anche l’uomo partecipa a tale moto immane di riproduzione: per assecondarlo dimentica l'origine dell'indifferenziato e crea la società.

L’essere umano cerca di sfuggire all'orrore dell'origine; per far ciò egli sublima continuamente in tribù, comunità, polis, popolo. In fondo la favola umana non è che il tentativo, uno fra i miliardi di tentativi, per cui la vita umana, accidente della Natura, cerca di affrancarsi da essa, cioè dal Nulla.

L’esistenza umana è un caso particolare della Natura; il Nulla è assoluto.
Esistenza umana e Nulla non sono, quindi, poli di eguale dignità.
L’esistenza umana, riflessa negli innumerevoli esempi di civiltà, è il miracolo: un’eccezione al Nulla.
Tutto venne detto in quelle righe di Anassimandro: “Principio degli esseri è l’infinito [άπειρον]. Da dove infatti gli esseri hanno origine ivi hanno anche la distruzione secondo Necessità poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”.

07 settembre 2018

Il popolo è un'espressione nazista? [Il Poliscriba]


Il Poliscriba

Molto più spesso era l’opinione pubblica a reclamare con accanimento il supplizio degli eretici e non la Chiesa. Non di rado la furia popolare esplodeva sostituendosi alla giustizia dei principi e dei governi, i quali erano costretti a prendere le più minuziose precauzioni per evitare i linciaggi. Verso il 1040 l’arcivescovo di Milano, Ariberto, scoprì un focolaio di eresia a Monforte, in Lombardia [l’attuale Monforte d’Alba nella provincia piemontese di Cuneo]. Gerardo aveva «convertito» la maggior parte degli abitanti di quel borgo e li induceva a rinnegare il matrimonio, i sacramenti e l’autorità della Chiesa. Si venne alle armi e l’arcivescovo, battuti i monfortesi, portò a Milano Gerardo e molti dei suoi accoliti. L’arcivescovo voleva lasciarli in vita, ma il popolo di Milano eresse una pira con una croce davanti, poi costrinse gli eretici a scegliere: la morte col fuoco o l’abiura. Quelli si rifiutarono dì ritrattare e vennero bruciati malgrado l’opposizione dell’arcivescovo. Il cronista Landolfo mostra da una parte l’arcivescovo Ariberto desideroso di salvare gli eretici per convertirli, dall’altra i magistrati civili di Milano, civitatis hujus maiores laici, che innalzano un imponente rogo per bruciarli vivi.

Da Elogio dell’Inquisizione di Jean-Baptiste Guiraud)

In questa cronaca ci sono le budella della gente, il fiuto dei segugi, il sangue delle prede, il senso atavico della protezione dei propri usi e costumi, del proprio territorio, il selvaggio mondo della sopravvivenza del più forte.
Il popolo di Milano, che nel 1040 travalicò le istituzioni temporali e religiose, e si fece barricata omicida contro i manichei di Monforte, non fu altro che una miccia esplosiva, come altre ce ne furono nel Medioevo, che obbligò i nobili a erigere la prima Inquisizione Civile, primigenia rispetto a quella ecclesiastica, che trascinò al rogo tredici manichei d’Orléans per ordine del re di Francia Roberto Pio, nel 1017.
Riferisce il cronachista dell’epoca, tale Rodolfo il Glabro, che quel che spaventava il re (e il popolo francese) erano le dottrine non solo anticristiane, ma anche antisociali di questi eretici. Essi negavano la necessità delle attività umane (soprattutto il lavoro a beneficio della collettività), rigettavano le opere della carità e della giustizia, condannavano il matrimonio e la famiglia (che nella prospettiva cristiana erano e dovrebbero ancora essere le basi dell’ordine sociale... tranne che per Famiglia Cristiana); non credevano infine che le cattive azioni commesse in questa vita venissero punite nell’altra. 
Però… niente male.

03 settembre 2018

Come sono buoni i bianchi


Roma, 3 settembre 2018 

Non ci rimangono molti attimi per gioire di questi tempi.
L’unica possibilità di evadere consiste nell’incappare, per puro caso, in qualcosa che confermi in modo implacabile tutti i nostri più neri pensieri; qualcosa di talmente scoraggiante da rinvigorire, paradossalmente, il corpo estenuato dalla gragnuola di conferme al peggio che arrivano dalla Monarchia Universalis.
A vedere certi spettacoli si rimane dapprima increduli e poi a bocca aperta, progressivamente scossi da una risatina a bassa tensione: prima un ah! ah!, inaudibile, (come a dire: ecco qua!), poi un tremolìo malsano, da febbricciola quartana, che non può che culminare in un ghigno sussultante; non sonoro, tuttavia: assomiglia più a una serie di brevi espirazioni in cui smiagola la nostra rassegnazione e la residua speranza: in modo da concretare (l’assoluta mancanza di speranza) e rinascere avvolti dalla consapevolezza di uno sbarazzino “tutto è perduto”; da finis terrae briccona.
In tali momenti sono posseduto, infatti, da un demone burlone.
Mi vengono sempre in mente le parole d’una poesia di Enoch Soames, il tragico e memorabile personaggio del racconto omonimo di Max Beerbohm che vende l’anima a Lucifero per viaggiare nel futuro e scoprire, nelle enciclopedie del secolo a venire, che sarà un letterato insignificante:

Torno torno alla piazza buia e silenziosa
passeggiai sotto braccio col Diavolo.
Nessun suono s’udiva
se non lo scalpitare degli zoccoli
e lo scroscio del suo riso, e del mio.
Avevamo bevuto vino nero.

Gridai :"Voglio correre con te, Maestro!"
"Che importa", gridò lui,"stanotte
chi di noi due corre più rapido?
Non c’è nulla stanotte da temere
nella luce sporca della luna!"