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18 novembre 2020

I nostri carnefici

Unreal City, 18 novembre 2020

Io non ho nulla di cui dire: è mio
lontani e morti sono i miei cari
più nessuna voce
il mio compito sulla terra è finito
oscuramente
solo
vago per la mia patria che mi sta come sepolta intorno
ma tu risplendi ancora .. sole! .. del cielo!

Friedrich Hölderlin


Non ho nulla da aggiungere alla frase dell’11 marzo: “Il coronavirus serve a modellare la società del futuro. Meglio: è un esperimento sociale che inizia a modellare, definitivamente, la società del futuro”.

L'epoca che stiamo vivendo non merita commento. L'esistenza e la stessa intelligenza dei fenomeni viene frantumata in minuscole e irrilevanti questioncelle. Il Potere inventa alcuni nomi (Gimbe, lockdown) e una manciata di burattini: si passa il tempo, si spreca quel poco di razionalità residua per contrastarli, discriminarli, dissezionarli ... il risultato, vano, è sotto gli occhi di tutti.

Ciò che sta più a cuore al Potere è il chiacchiericcio insulso. Per questo viene saturato l'etere di formidabili provocazioni e sesquipedali scemenze: la malia di tali esche cattura subito l'attenzione, per l'illogica enormità ivi posta, e induce a scannarsi per ore e giorni, sfinendosi, a ricercare quell'appunto, quel link, quella versione della favola, quel ricordo.

Le elezioni americane? Sono false da quel dì, esattamente come in Italia, ma si deve passare il tempo libero a elaborare tabulati, a scremare dichiarazioni, a tarare opinioni, in una ridda scomposta in cui ognuno accusa l'altro, o trae a sé stesso l'alleato più improbabile a seconda delle convenienze meschine del momento. Alla fine il nucleo incandescente dell'inganno (la democrazia elettiva quale falsa auctorictas popolare su decisioni già precedentemente ratificate sine populo) rimane fuori da ogni considerazione.

Lo stesso dicasi per la geopolitica, questo Risiko che mai ha spiegato qualcosa.

12 marzo 2019

L’impero delle luci


Roma, 12 marzo 2019

Essi ci guardano dalle torri. Agli ultimi piani delle torri del mondo i Prescelti si devon fare, tra una festa e l’altra, parecchi risolini. Osservare, da quelle altezze, che rendono con chiarezza cristallina l’ampiezza del panorama, il disfacimento di un’intera civiltà, dell’unica civiltà motore, il crollo dell’Occidente, in un ridicolo rovinio pulviscolare ove si aggirano pagliacci da film horror e pupazzi rigonfi di stoffe sdrucite, dev’essere uno spettacolo impagabile. La storia degli ultimi tremila anni, le delicate architetture erette per resistere alla Notte, si trovano, d’improvviso, senza più fondamenta; la catastrofe si propaga per via esponenziale, dalla suburra al centro dei commerci, dai templi ai lupanari. Mai vista una cosa del genere; mai fu preannunciata. Uomini e donne spaesati, torpidi, disorientati, impolverati dalla farina disastrosa da ciò che credevano eterno, i volti grigi rigati da sangue e lacrime, chiedono aiuto, si suicidano, impazziscono, vanno dietro al primo imbecille che afferma di avere una via d’uscita. Per chi ha vivida in mente ciò che fu la nostra civiltà, squadernantesi nell’immediatezza davanti allo sguardo dell’anima, nei suoi modi multicolori e nelle epifanie brucianti, corrusca di carneficine e celesti asperità, tutto questo non può che gettarlo nella disperazione più totale. E quale sollievo trovare in tali giorni colmi d’angoscia?

Ariani. La trattatistica di destra si è lungamente interrogata sugli ariani, sugli indoeuropei, sulla civiltà bianca. Le risultanze sono state, a volte, interessanti, altre deliranti; spesso confuse in un misticismo d’accatto. Veda, Vedanta, Iperborei, le mistiche tre Roma. Ma l’elemento comune al genio dell’Occidente fu sempre uno e lo si ritrova, inevitabile e purissimo, nel popolo più fatale: i Greci.