Lubriano, 12 maggio 2019
Un
conoscente della Tuscia mi accompagna per borghi e città.
Borghi
e città apparentemente ordinati, ma che patiscono, impercettibili, un avanzato
stato di disgregazione.
La
metafora stringente è sempre quella.
Il
mobile.
Il
mobile di famiglia. Solido. Avito. Lucido per tante mani, eminente nella casa,
nobile, dopo aver provveduto a tante generazioni. Uomini, donne, bambini
costituivano l'amabile folla dei padroni e, nello stesso tempo, la ragione
insondabile della sua stessa esistenza. Esso, infatti, serviva, e in tale gesto
d'altruismo trovava la causa efficiente del proprio insistere nell'essere. Il mobile, infatti, era stato costruito dalle stesse mani dei
padroni; intarsi e cerniere studiate con la calma di chi sa, da secoli, e non di
chi apprende sbrigativamente; il materiale, poi, veniva da alberi dei dintorni,
alberi che già costituivano, da tempi remoti, il paesaggio e lo sfondo naturale
di ogni attore di tale simbiosi emotivamente inestricabile.
Un
giorno le cose cambiano. Uomini e donne e bambini più non si rivolgono a esso
quale compagno di vita. Senza che nulla trapeli alla vista, avanza, a passi
inavvertiti, il demone della dimenticanza. Nessuno ripara una scheggiatura o un
battente; vengono trascurate le lucidature; altri utensili o elettrodomestici
usurpano funzioni ancestrali.
Il mobile, come un bimbo non amato, si ammala.
Il mobile, come un bimbo non amato, si ammala.