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12 marzo 2019

L’impero delle luci


Roma, 12 marzo 2019

Essi ci guardano dalle torri. Agli ultimi piani delle torri del mondo i Prescelti si devon fare, tra una festa e l’altra, parecchi risolini. Osservare, da quelle altezze, che rendono con chiarezza cristallina l’ampiezza del panorama, il disfacimento di un’intera civiltà, dell’unica civiltà motore, il crollo dell’Occidente, in un ridicolo rovinio pulviscolare ove si aggirano pagliacci da film horror e pupazzi rigonfi di stoffe sdrucite, dev’essere uno spettacolo impagabile. La storia degli ultimi tremila anni, le delicate architetture erette per resistere alla Notte, si trovano, d’improvviso, senza più fondamenta; la catastrofe si propaga per via esponenziale, dalla suburra al centro dei commerci, dai templi ai lupanari. Mai vista una cosa del genere; mai fu preannunciata. Uomini e donne spaesati, torpidi, disorientati, impolverati dalla farina disastrosa da ciò che credevano eterno, i volti grigi rigati da sangue e lacrime, chiedono aiuto, si suicidano, impazziscono, vanno dietro al primo imbecille che afferma di avere una via d’uscita. Per chi ha vivida in mente ciò che fu la nostra civiltà, squadernantesi nell’immediatezza davanti allo sguardo dell’anima, nei suoi modi multicolori e nelle epifanie brucianti, corrusca di carneficine e celesti asperità, tutto questo non può che gettarlo nella disperazione più totale. E quale sollievo trovare in tali giorni colmi d’angoscia?

Ariani. La trattatistica di destra si è lungamente interrogata sugli ariani, sugli indoeuropei, sulla civiltà bianca. Le risultanze sono state, a volte, interessanti, altre deliranti; spesso confuse in un misticismo d’accatto. Veda, Vedanta, Iperborei, le mistiche tre Roma. Ma l’elemento comune al genio dell’Occidente fu sempre uno e lo si ritrova, inevitabile e purissimo, nel popolo più fatale: i Greci.
 


27 settembre 2018

La Cina è vicina


Roma, 27 settembre 2018 

Una conoscente, di sicura affidabilità, mi rende edotto d'un aneddoto altamente istruttivo. Circa dieci anni fa il figliuolo, allora diciottenne, e in odore di maturità classica, fu spedito in Cina con tutta la classe nell’ambito di un’operazione di “scambio culturale” (ordita non si sa da chi: sicuramente non dai nostri provveditorati o ministeri, troppo impegnati nel sorbire cappuccini; forse dai ministeri cinesi, come sospetta anche la sommenzionata conoscente).
I nostri zucconi, appena arrivati a Pechino, furono sistemati con tutte le cure presso una sorta di residence: pulito, organizzato e popolato di personale gentilissimo e in grado di affabulare, con lodevole proprietà, almeno nella rappresentanza preposta alla comunicazione, la nostra lingua materna. Gli sdraiati italici stettero un pochino sulle loro, poi cominciarono a prendere confidenza con i limoncini: sino a rivelarsi: come perfetti idioti. Erano in vacanza; di studio, certo, ma lo studio, in Italia, serve a prepararsi agli esami, non alla vita. I pecoroni, il giorno appresso, vennero portati a pascolare per la Capitale del Catai: ne ricevettero un’impressione devastante. La Cina era vicina, assai vicina: e priva di quei luoghi comuni che, chissà perché, sedimentano nell’animo dei peninsulari: il levantino con il laccio da strangolatore, il riso e il tè, la lingua indecifrabile, i salamelecchi orientali. Pechino, infatti, era una città sterminata, ampiamente infiltrata dall’Occidente e dall’inglese, moderna, insonne, paradossalmente febbrile e composta: i cinesi, poi, quegli ominicchi, secondo loro, risolvevano problemi: l’inquinamento, i cessi, il traffico ... ogni aspetto metropolitano, ancor caotico, veniva sottoposto alle cure lungimiranti di un cervello da “centralismo democratico”  in cui, pochi, decidevano: e gli altri, di conseguenza, obbedivano. Soffiava, insomma, una brezza travolgente e vitale dove le conquiste generavano problemi e questi ultimi, risolti, generavano progresso: e il progresso era interamente cinese, ovvero mai slegato dalla tradizione: i cinesi, almeno gli abitanti della Capitale, erano artefici del proprio destino (o del proprio disastro; un disastro, tuttavia, gestito intra moenia).