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19 marzo 2020

Pol-tronisti cercansi (e una buona notizia, seguita da una cattiva notizia)


Roma, 18 marzo 2020

Dall’Enciclopedia Treccani: “glïòmmero s. m. [lat. glŏmus -mĕris «gomitolo»]. - Voce del dialetto napoletano («gomitolo»), usata anche per indicare un componimento poetico dei secoli 15° e 16°, formato di una serie di endecasillabi con rima al mezzo, in cui si affastellano gli argomenti più varî, allusioni a fatti del giorno, ricordi di vecchie storie, proverbî, ecc”. Equivale alla frottola.


* * * * *

20-20. Prendo, a casaccio, dal sito Il giardino degli Illuminati, tale perlina: “Dal punto di vista esoterico il numero Venti rappresenta l’agire in modo irrazionale. Una irrazionalità che può essere punita nel caso in cui si sia compiuta una deviazione dalla via maestra”. Benché sia alieno da tali fumisterie mi sembrava dilettevole proporvi questa versione esoterica di #IoRestoaCasa.

Una buona notizia. Ma qual è la buona notizia? Che tutto il gliòmmero del coronavirus infligge un colpo mortale all’Illuminismo. Siamo al cambio di passo: si mutano, finalmente, abitudini consolidate: viaggi, incontri, mega-aperitivi.
Giova, a tal fine, ricordare l’incipit del primo, memorabile, capitolo de La ragione aveva torto?, effort d’un giovane Massimo Fini.
Cosa insinua Fini, in questo deprecabile e fastidioso librino, naturalmente bollato come anti-scientifico? Che la maggiore vittoria dei Lumi consiste nel far credere come il progresso stia sconfiggendo la Morte. Ciò, infatti, è attestato, secondo i Luministi, da tutte le statistiche (sempre loro) sulla vita media pre e post Ancien Régime: si vive di più e meglio!
Fini non è d’accordo e replica: “Il pregiudizio più profondamente radicato nei confronti della società preindustriale è che la vita fosse cortissima. Gli storici parlano di un'età media di trentaquattro anni per le donne e di ventotto anni per gli uomini del Seìcento. Se si considera che oggi la vita media si aggira intorno ai settantadue-settantatre anni, l'ancien régime esce polverizzato dal confronto ed il nostro libro potrebbe chiudersi qui. Solo che, come sempre, le statistiche, nude e crude, ingannano. La media della vita dell'uomo della società preindustriale ha infatti po­ co a che vedere con la durata reale della sua esistenza. Ciò che c'è di vero in quelle statistiche è l'altissima percentuale della mortalità infantile nell'Europa del tempo: si ritiene che, su mille nati, da centocinquanta a trecento morissero prima di raggiungere l'anno di età e altri cento o duecento prima dei dieci anni. Era questa la durissima selezione iniziale che lasciava in vita solo i più robustii. Ma se uno riusciva a farla franca le cose si mettevano meglio. Innanzi tutto la durata massima della vita non era diversa da oggi”.
Forse oggi si vive dieci anni di più. Ma, ecco la domanda capitale, a quale prezzo? I figli, a prezzo di ciò che illustrai in Mortacci 2 (paralipomeni a Il respiro dei nostri padri). I padri e le madri a prezzo dei figli; e di sofferenze indicibili: escissioni, incisioni, flebo, cateteri, apparati respiratori recati a spasso come appendici d'una tortura sadica. E i figli al prezzo dell'amore filiale; i figli, stremati, perduti o menefreghisti, che vedono mutare l’antico amore in novello risentimento. L’industria della pillola e della puntura incassa proventi sardanapaleschi; lo Stato, questa puttana della Patria, fa da mezzano, impoverendo i figli e disgregando la comunità e la famiglia, una volta welfare epocali.
Ma ritorniamo al punto principale. In tale disfatta, di letti mancanti, vecchi che esalano il respiro lontani da tutti, si comincia a intravedere la resipiscenza del Potere: vi abbiamo mentito, non è questa la Bengodi, si continuerà a morire come prima. Il sogno illuminista è servito, quindi, solo a distruggere la comunità in cambio di un illusorio Eden tecnico-scientifico che, oggi, dimostra la propria inconsistenza. A furia di salire i pioli della scala, il Progresso batte ripetutamente la testa sul tetto di piombo dell’inevitabilità. E, però, il danno è fatto: in cambio del miraggio abbiamo sacrificato il meglio di noi stessi, la famiglia, la Patria, la “social catena”. Aveva ragione Giacomo Leopardi, non ne ho mai dubitato:

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e proceder il chiami


Li avete mai letti? Lo dico perché su Giacomino si è asperso il sale dell’insulsaggine scolastica. Leggeteli ora, leggeteli meglio, a strofinar via gli strati delle interpretazioni più sciocche. Come dissi a suo tempo, indovinare il futuro è difficile, ma ancor più arduo è vaticinare il passato. Gli interpreti del passato scremano l'inessenziale per leggere la verità dagli antichi palinsesti.
Leopardi, comunque, è sempre chiaro: "del  ritornar ti vanti/e proceder il chiami".

Una cattiva notizia. Potevo mai darvi una buona notizia? Non sia mai, dobbiamo annullarla subito. Se uno dei capisaldi dell’Illuminismo pare crollare miseramente, soprattutto a livello di suggestione, ciò è dovuto a ciò che oggi si ama definire “cambio di paradigma”. Un nuovo progetto, project for the new mankind century. La trasmutazione da una società occidentale che mira incessantemente al futuro a un sistema mondiale stazionario connotato dalla pace (sub specie pecuniae) e da un feudalesimo che si serve delle spoglie del capitalismo per meglio dominare.

Poltronista. Sost. neutro di livello 1, ex m. [d’origine incerta, prob. derivazione digitale. Composto dall’antico pidgin italico “pol-cor”, acronimo di politicamente corretto, e tronista, individuo che elegge la dimora o divano a esclusivo spazio sociale]. Il termine designava, dapprima spregiativamente, la nuova classe instauratasi dopo le grandi epidemie del primo ventennio del secolo scorso. I poltronisti rifiutavano l’andare pel mondo, ritenuto infetto, concentrando l’intera attività esistenziale, ludica e lavorativa, nella magione ad alta interattività. Riconosciuti dal Blocco Sino-Europeo quale corrente spirituale ed eletti, poi, a religione ecumenica di Rango Centrale, ebbero breve vita. A partire dalla seconda metà del Ventunesimo Secolo, infatti, diluirono lentamente quanto irresistibilmente nel più vasto movimento b-luddista d’ispirazione trascendentale.

Il dottor Semmelweis. Dalla presentazione dell’omonimo libro di Louis-Ferdinand Céline: “Nell'Ottocento, anche nella civile Vienna, molte donne incinte morivano a causa di una febbre di origine infettiva. I medici che visitavano le donne, all'epoca, non ritenevano necessario lavarsi le mani dopo aver sezionato cadaveri. Ciò causava l'infezione, che portava poi al decesso delle partorienti. Dopo attente osservazioni, la causa venne identificata dal dottor Ignatz Semmelweis, passato in virtù di ciò alla storia della medicina come lo scienziato che, scoprendo l'origine della febbre puerperale, mise a punto la tecnica dell'asepsi, così importante per lo sviluppo della medicina e soprattutto della chirurgia contemporanee. Ma questo benefattore dell'umanità non fu onorato in vita, bensì deriso, emarginato perseguitato. Fino a sprofondare nella follia. Questo libro, che ne narra la storia, fu la tesi di laurea in medicina di quello scrittore irregolare e ricco di talento che fu Céline”.
Céline, il Terribile, l’Esecrabile, procede alla beatificazione di un uomo che distrugge ideologicamente l’Antico Ordine. Contraddizioni della storia. Dalle scoperte di Semmelweis, che annientano lentamente la mortalità materna e infantile, trae forza, infatti, l'autentica età postmoderna e il fascino progressivo ch’essa ha esercitato sulle menti più semplici. Come resistere a tali numeri: un miliardo nell’Ottocento, due miliardi negli anni Venti, poi tre quattro cinque sei sino a sette (sette!) dal dopoguerra a noi. Sembrerebbe una crescita quasi esponenziale, per usare un termine caro ai micchi del marzo 20-20. Céline, insomma, forse a causa delle temperie giovanile (il saggio è la sua tesi di laurea), loda inconsapevolmente il nemico. Si passa da un mondo pieno di vedovi e uno fitto di vedove. Il capitalismo moderno, peraltro, assieme all’esproprio della terra, fu anche reso possibile dai Semmelweis: tanta carne al fuoco, produzione, consumo, oltreconsumo, consumo di tutto; finché il gioco rompe la corda; gli Illuminati, esistano e meno, hanno un problema: come governare otto miliardi di micchi infuriati poiché a corto di lavatrici? Occorre frenare l’orgia. Inventiamo i diritti civili! Pauperismo, straccionismo, ecologismo, omosessualismo, antirazzismo, panopticon da controllo totale. Evgenij Zamjatin avverte tutti, nel 1921, dalla propria parte; Jack London, nel 1907, dalla sua. Niente, e chi li sta a sentire? Capitalismo e socialismo si danno la mano, incontrandosi, poi, negli anni Settanta; sino a perfezionarsi, oggi, quando Soros sembra John Lennon e gli ex comunisti si vendono alle multinazionali capeggiate da teste di legno che sembrano cantare Imagine dal balcone di casa.
PS. E due: la socialista Anna Kuliscioff, chiamata da Camillo Golgi, s’interessò vivamente a Semmelweis.

Body bag. Finalmente abbiamo anche noi le body bag. Quanto le si è invidiate! Lo shock americano per i militari avvolti in quei sudari asettici, l’odio, lo sdegno. Dapprima i tremila morti, ora questo: i nostri figli!
Un atteggiamento diverso da quelle delle madri Spartane che guardavano di mal occhio color che tornavano senza un graffio, ma la Morte, nel Nuovo Ordine, non è più parte del ciclo cosmico, ma una ripugnante megera.
E intanto quei sacchi di carne agiscono nell’anima collettiva; si insinua non la paura per il nemico, ma un terrore indefinito e abietto che recherà, inevitabilmente, la rotta della ragione. A tali uomini si potrà far credere e accettare di tutto.

Helicopter money. Tale barbara usanza, che vanta un antecedente comico nell’Italiano che ha fatto fortuna in America e torna al paesello d’origine buttando dollari dalla Cadillac rosa, consiste in un'appendice pervertita (o derivazione d'alta politica strategica) d’una precisa benché defunta dottrina economica: il capitalismo. Essa fa da apripista al Brave New World che vedrà pochi attori: multinazionali, tecnici, leccapiedi o pubblicitari, poltronisti. Quest’ultima categoria, la più larga, non vanterà un lavoro, né un lavoricchio né tantomeno una occupazione. Il progresso lo relegherà dove avranno da essere le sue chiappe: a ceccia, per usare una locuzione da bimbi (Leopardi direbbe: pargoleggiante). Onde plasmare tale paradiso si avrà, però, bisogno di chetare le ansie del pol-tronista tramite la creazione progressiva di un reddito di sudditanza. C’è ancora baruffa nell’aria poiché ognuno lo vorrebbe definire in base ai propri (fasulli) riferimenti ideologici: un accordo, tuttavia, si troverà.

Micchi, compari, pali e saltimbanchi. Da ragazzino mio padre amava recarmi a Porta Portese, una sorta di suk nel cuore di Roma. A casa ci si spogliava di tutto, dagli orologi alle catenine agli anelli, tenendo addosso solo qualche spiccio per caffè e pastarelle. Il gruzzolo andava portato alla cinta, fra pantalone e trippe, ed era meglio tenerci sopra la mano disegnata anatomicamente a pinza. A Porta Portese si facevano begli affari, specie la mattina. Pulotti e carabinieri sapevano e tacevano; d’altronde, al pari dell'origine dei miei giorni che m'accompagnava, essi erano fra i maggiori clienti, piccolo borghesi con la smania dell’acquisto di straforo. Durante il Natale c’era la sagra dei botti: decine di figuri buttavano un fagotto sull’asfalto sciorinando la merce abusiva: petardi, rauti, bombe, tricche tracche e mortaretti. Un di questi, sfigurato da un’esplosione, mostrava le proprie mirabilie issandole sulle braccia mozze: e gliele compravano. Si era in una sorta di benigna zona franca, un bazar lurido, fitto di marpioni, ladri, giocolieri e bottegai che lì, in perfetta letizia, facevano più affari che in tutta la settimana. Libri, vinili e pezzi d’antiquariato: il colpo stava a portata di mano, se si possedeva un minimo d’occhio.
Ogni tanto, a rallentare ancor più il passo (una fiumana compatta saliva e scendeva dalla Porta Portese a piazza della Radio; e viceversa), un minuscolo assembramento. Il gioco delle tre carte o delle tre campanelle. Mio padre conosceva ogni attore della sequenza, piccoli truffatori, ladruncoli, scansafatiche di borgata. I pali delimitavano la zona d’azione, agendo da segnalatori estremi (non si temeva il gendarme locale, ma qualche colpo di testa improvvisato di prefetti e questori); i Compari, uno o due, a volte di più se la sceneggiata sembrava lucrosa, fingevano di scommettere e perdere e vincere; il Saltimbanco (detto anche "il padrone del cane") fungeva da prestidigitatore: miscelava le carte o le campanelle col cece; i Micchi si lasciavano travolgere psicologicamente dai frenetici tramestii dei Compari credendo nella loro genuinità. I Compari perdevano e bestemmiavano, litigavano fra di loro, si insultavano, si deridevano arrivando, con cautela, a prendersela, con cautela, con lo stesso Saltimbanco: dando causa, in tal modo, a una farsa credibile dacché la patina del realismo posticcio rende accettabile ogni garbuglio. E il Micco, allora, scommetteva.
L'America ha modificato geneticamente l'influenza; no, è stata la Cina; no, sono Germania e Francia che vogliono espropriare l'Italia; macché, è Conte a essere un imbecille, la Lagarde è una zoccola, l'Europa ci ama, ci odia, il mondo vede in noi un modello, no facciamo schifo. A vedere i Compari (nazioni) che si rilanciano accuse  - col sorriso sotto i baffi - mentre i Pali (leggi: media) sorvegliano che nessuno abbia a turbare la fregatura mondiale, il Micco controinformativo, ipnotizzato dalle mille mosse fulminee del Saltimbanco, scommette. Sulla prima campanella, no, sull'ultima a destra, no, su quella in mezzo. Ma non c'è nessun cece sotto nessuna campanella. L'unica soluzione consisterebbe nel rovesciare il tavolo, cioè nell'andare alla macchia senza votare. Tanto per cominciare, poi si vedrà.

A latere: avrei voluto scommettere anch’io, almeno cento o cinquecento lire; e il sant’uomo, taciturno, ma, nell’intimo, blando goliarda, me l’avrebbe pure consentito se non fosse stato paralizzato dal timore delle scenate di mia madre che, in casa, comandava su tutto. Si era, infatti, in piena era patriarcale.

Angeli. “Atene a’ suoi migliori promettea monumenti, Roma le corone, Odìno le belle Valkerie che nei lucenti palazzi aspettano i prodi, Maometto gli amplessi delle Uri: Sparta nulla. Trecento cadono alle Termopile; essa vi colloca una pietra scolpendovi: HANNO FATTO IL LORO DOVERE”.

Il gliòmmero di don Ciccio. “Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. ‘già!’ riconosceva l’interessato: ‘il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto’. Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo”.

05 dicembre 2017

La ricerca della felicità (e la fine della libertà)


Pubblicato il 7 novembre 2013


"Insomma" disse Mustafà Mond "voi reclamate il diritto d’essere infelice".
Aldous Huxley, Il mondo nuovo

Noi di Zamjatin è una distopia, ovvero una visione negativa del futuro. Più o meno prossimo.
Le distopie valgono, quasi sempre, per la loro portata metaforica, da riferirsi a un attuale e specifico ambito politico e sociale che diviene così oggetto di riprovazione o satira o denuncia civile. L'Utopia di Tommaso Moro sembra parlare d’altro, ma, probabilmente, si riferisce alle condizioni dell'Inghilterra contemporanea all'autore; anche Swift opera in tal senso ne I viaggi di Gulliver; Rabelais allude alla Francia cinquecentesca; Sinclair Lewis alle degenerazioni fasciste in terra americana; Jack London, ne Il tallone di ferro, alle distorsioni dello sviluppo capitalista; Zamjatin e Orwell (suo discepolo) mettono, invece, in guardia dalla devoluzione dell’ideologia socialista, nata per liberare i cuori e le menti e le braccia del proletariato, e finita per indurirsi in uno stato assassino e occhiuto, che esige il consenso totale al fine della propria pura autoconservazione.
Zamjatin partecipò degli ideali della Rivoluzione Russa del 1917, ma, nel 1921, appena quattro anni dopo l'assalto al Palazzo d'Inverno, già concretizzava il proprio disinganno e la propria delusione in Noi.
La chiave di lettura anticomunista (contro uno Stato assolutista che reprime ogni moto personale dello spirito) del romanzo di Zamjatin è non solo legittima, ma quasi doverosa.
E qual è la società descritta da Zamjatin?
Un mondo perfettamente matematizzato, dove vige l’uguaglianza altrettanto perfetta e il singolo (a cominciare dal protagonista, D-503) ha rinunciato al proprio libero arbitrio e alla scelta per inscriversi in un quotidiano dove tutto è pianificato e senza ombre: il lavoro, la sessualità, il sonno e la veglia, i pensieri, la festa, gli svaghi sono programmati dallo Stato Unico sotto lo sguardo implacabile del Benefattore ed esposti, senza mistero, alla visione di tutti (“Tutto era di una chiarezza che atterriva”). Le case sono di vetro, le celebrazioni pubbliche, le passioni uniformate come gli abiti, la Natura irreggimentata dalla tecnica. Persino i tratti somatici dei singoli tendono a farsi simili in un anelito spaventoso di uguaglianza coatta: la liberazione consiste nell’assenza di libertà e, quindi, di iniziativa e responsabilità. Risolversi in una struttura superiore che diriga e pensi in nostra vece: un sollievo che chiunque abbia militato in una organizzazione (para)militare ha provato, almeno una volta, nella vita.
Tuttavia questa interpretazione (legittima, come detto) non esaurisce la complessità del testo.
Si intravedono, per noi lettori scaltriti da novant’anni di storia ulteriore, due inciampi.

Il primo non è ascrivibile all'autore, ma, appunto, alle mutate condizioni sociali e politiche intervenute dal 1921 in poi.
Il secondo, invece, nasce dalle considerazioni finali di Zamjatin stesso: è una nuova chiave di lettura, da lui stesso autorizzata.

Veniamo al primo inciampo. 
È semplice: la società temuta da Zamjatin non è più, oggi, anno Domini 2013, la Russia dei Soviet, ma l'Occidente stesso. Anzi, a dirla tutta, leggendo il diario del protagonista D-503, ci rendiamo conto di come le pagine d’esso si prestino sorprendentemente a descrivere proprio l'Occidente attuale e postmoderno. Come i personaggi di Noi viviamo ormai in case di vetro: i social network che squadernano al mondo intero le nostre ansie private; le invasive pratiche di catalogazione del cittadino ad opera dei servizi segreti; l'autismo di massa che ha derubricato l'amore e le manifestazioni più accese del sentimento a rapporti formalistici definiti dai bisogni pubblicitari; l'odio che nutriamo verso le società tradizionali, ancora vive e umane, e di cui temiamo la spontaneità; la guerra spietata al passato, portatore di quelle istanze; la volontà di distruzione portata contro le terre del passato (Iraq, Afghanistan, Iran, Siria, Grecia, Italia) che, proprio in virtù della profondità della tradizione, stentano a conformarsi al livellamento democratico. Non è forse l’attuale democrazia che ciancia di libertà, e usa questa parola, Libertà, per spazzare via il diverso, l’ottuso resistente, una visione nichilista e conformista pari allo Stato Unico e Totalitario di Zamjatin e Orwell? Non è l’Occidente, oramai, asociale, spersonalizzato, e psicopatico? Basti osservare il modo di portare le guerre degli ultimi decenni: in modo micidiale e impersonale, tramite droni, intercettazioni satellitari, cecchini che dispensano morte da lontano, bombardieri che bruciano la vita da diecimila metri di quota, inafferrabili come demoni del deserto; la morte da lontano, dall'alto, la strage asettica, insetticida, vengono da chi si ritiene superiore profeta d’una virtù universale e valida per tutti. Kubrick l'aveva intuito plasticamente: la sala da guerra de Il dottor Stranamore, coi suoi tavoli levigati, le tracce silenziose dei velivoli che portano le atomiche, i pacati discorsi sulle possibilità di minimizzare a poche decine di milioni di morti le conseguenze d’un conflitto mondiale, sono lo specchio della società psicopatica di Zamjatin.

E veniamo al secondo inciampo. 
Il problema della felicità. Per tutto il romanzo accettiamo pacificamente, in ossequio alla concezione di distopia (che ci induce a parteggiare per Winston Smith di 1984, ad esempio), che i ribelli di Noi siano dalla parte giusta. La società così concepita - perfetta, liscia, conformista, aperta sino alla negazione della singola personalità - è necessariamente infelice; solo la differenza, l'imperfezione, il riguadagno di una certa animalità naturale, coi suoi sbalzi umorali, le sue ire, i suoi afrori, permette all'uomo la gioia. Questo pensiamo, abbastanza naturalmente, e crediamo che Zamjatin, altrettanto naturalmente, la pensi come noi.
Negli ultimi capitoli, però, i resistenti si avviano alla sconfitta. Il protagonista, D-503, quello che aveva messo a repentaglio la vita per amore della ribelle I-330, non solo abiura i comportamenti passati, ma sradica da sé, con una operazione chirurgica, ogni sentimento umano. Diviene un vegetale emozionale, senza impulsi, immemore della stessa I-330, un essere finalmente privo dell'anima vegetativa e irrazionale e disposto solo all'amore, puro ed eterno, per il Benefattore (“Sono guarito, completamente, assolutamente guarito … mi hanno estratto dalla testa una specie di spina; ho la testa leggera, sgombra”). Tutti noi (noi, e Noi) reagiamo orripilati a tale sviluppo narrativo. Ma chiediamoci: in cosa differisce la gioia dell'uomo a cui sono stati estirpati i sentimenti e le emozioni dalla gioia che nasce dall'esplosione di una passione o d'un amore, ovvero dai folli saliscendi e dagli andirivieni insensati di quella passione e di quell'amore?
Perché la felicità di un traboccante e scarmigliato canto poetico dovrebbe differire dal sorriso di D-503 ormai deprivato da ogni fluido vitale e emozionale? Biologicamente differiscono in nulla. Anzi mentre il primo tipo di felicità è fugace e sottoposto agli sbalzi della fortuna e può spegnersi per la volubilità e le bizze degli amanti, il secondo rimane fedele, costante e docile come un orgasmo continuo a bassa intensità. È dunque superiore.
Nel discorso finale del Benefattore si intravede la verità, terribile proprio perché vera: “Per che cosa gli esseri umani – fin da quando erano in fasce – hanno pregato, sognato, si sono tormentati? Perché qualcuno dicesse loro una volta per tutte cos’è la felicità e a quella felicità, poi, li allucchettasse come a una catena. Oggi come oggi, noi, cosa stiamo facendo, se non questo? Il sogno antico del Paradiso … Ripensi al Paradiso: là non si conoscono i desideri, non si conosce la compassione, non si conosce l’amore; la ci sono i beati a cui è stata rimossa la fantasia (ed è per questo che sono beati), gli angeli, i servi del Signore …
Non parla Zamjatin la stessa lingua di Dante quando nel Paradiso (XXXI, 28-29) verga i due versi, altrettanto terribili, che il Benefattore troverebbe giusti e mirabili:
 
O trina luce, che 'n unica stella
scintillando a lor vista, sì li appaga!
 
Dante, che configura una pletora di spiriti beati (la candida Rosa) che si appagano esclusivamente di un dio assolutamente immateriale e composto di pura luce, non pensa come il Benefattore? Non concepisce una moltitudine beata di innumerevoli D-503?
E quella legione di spiriti eccelsi, dai Greci ai filosofi morali, dai grandi pensatori orientali ai poeti d’ogni latitudine, in fondo cosa deploravano se non l'anima che desidera, che vuole, che ama – l’anima fonte di mali, infelicità, tristezza, umori atrabiliari? Non desideravano tutti un Benefattore? E Guido Cavalcanti, il primo amico di Dante, non elaborò una metafisica d’amore per cui la passione era necessariamente infelicità? E cosa hanno mai vagheggiato tutte le religioni se non l’estrema liberazione dal desiderio, dal corpo, dalla carne?
Come ho già scritto (Angelina Jolie e i destini dell'umanità):

Disciolti in una parodia di liquido amniotico, una serie puri pensieri sognano eternamente ciò che li rende eternamente felici. Non è forse questo il paradiso?
 
Sotto le spoglie di una utopia negativa che satireggia la breve e irrilevante esperienza politica e sociale del comunismo (sessant'anni!), Zamjatin profetizza il decorso inevitabile dell’Occidente democratico e universale: innaturale, psicopatico, asettico, ragionevole, libero dalle ansie della carne, finalmente inumano, finalmente felice. Ecco le ultime parole di D-503:
"E io spero che vinceremo! Anzi, ne sono certo: vinceremo! Perché la ragione deve vincere!
Da tale punto di vista la distopia del russo sublima in profezia e, poi, irresistibile, in soave utopia.

18 giugno 2017

La dittatura delle minoranze


Pubblicato su Pauperclass il 21 marzo 2016

Il potere (uso ancora tale inadeguata parola per pura convenienza letteraria) aveva un bel problema con l’Occidente. Come disinnescare un’etica e una morale millenari? Come fiaccare il senso del sacro? E codici di comportamento che vantavano le sembianze dell’eternità?
La risposta fu la stessa di sempre. Esaltare la debolezza, la minorità, la perversione; i lati repressi e laidi d’ogni essere umano; financo  le sue attitudini al bislacco, al barocco, all’insano; la voglia dell’outré, del sudiciume, della sporcizia; della singolarità, dell’eccezione.
La pulsione per la malattia e l’assurdo è sempre in alternativa alla normalità, alla tradizione; e soprattutto contrasta in ogni modo l’azione, ricacciando nel solipsismo e nella rinuncia.
La bizzarria, già minoranza, è ora buona; la normalità, invece, è stupida e rappresenta il male.
L’outrè è buono, ciò che vi si oppone è malignità, cattiveria, scorrettezza.
Se prima tale esaltazione aveva bisogno di decenni e secoli per avere effetto (un lavoro da sorci), ora, con un immane apparato tecnologico a disposizione, è questione di pochi decenni.
Dobbiamo, però, puntualizzare alcuni punti; a scanso di equivoci.