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10 ottobre 2021

Il ficus di Landini

 

Unreal City, 10 ottobre 2021

Osservo le immagini delle devastazioni nella sede della CGIL: uno scatolone gettato a terra, la consueta scrivania arrovesciata con largo e teatrale sparnazzamento di candidi e inutili brogliacci sindacalesi, un paio di piante d'appartamento brutalmente stuprate; e, last but not least, la prevedibile ricomparsa, muta e consueta in tali scenografie apocalittiche, e pregna d'una inevitabilità inevitabile, dell'icona telegiornalizia: il pugno al vetro, ovviamente; il vetro - traumatizzato ancora una volta da un colpo ferino (eccolo lì, se ne annusa la violenza anche attraverso la mediazione digitale) attorno a cui irrora l'aureola d'una terribile craquelure: a testimoniare la bestialità dell'assalto.
Da quando si è dismessa la lotta e lo scontro e il confronto aspro, e l'odio inumano, e ci si è riconvertiti alla pace, o alla stasi eterna, ogni minimo sussulto di animosità più o meno genuina è accompagnato da quel fotogramma seriale: ad ammonire il cercopiteco italiano che il ricorso alla violenza è male, anzi: il male ... a volte mi son sorpreso a pensare che ci fosse un nucleo speciale della DIGOS preposto a rompere vetri ... a schiantarli, si badi, in quel modo e non in nessun altro ... ché la scenografia ha da essere compresa immediatamente dall'Italiano allocco ... sia mai che stenti a ricollegare quella frantumaglia al male predetto ... quando osservate quella ragnatela di crudeltà, insomma, vi voglion significare: vedete, cari, cosa succede a rompere le tasche alla pace e alla serenità ... la violenza non reca frutti, la violenza è male ... il confronto, invece, quello è bene ... non il confronto cui voi partecipate direttamente, ovvio, ma il confronto delegato ... delegato, mediato, intermediato, arruffianato ... da opportuni paraninfi dell'accordo ... come quelli sindacali, a esempio, i sensali del patto leonino ...
Le gazzette, in verità, ci informano d'un altro caduto gravissimo: un quadro del 1973, opera del pittore sociale Ennio Calabria, e raffigurante "un gruppo di lavoratori che reggono dietro un enorme paracadute rosso", ora arricchito da un bel buco; pare che le Muse non se ne siano adontate, visto il loro generale e millenario me ne frego verso le arti visive; personalmente me ne dispiace e offro, nel mio piccolo,
il gratuito ristoro dell'operina (da ex artista in bolletta) nonché l'affettuoso risarcimento morale a tale trogloditica manifestazione della cancel culture.

23 luglio 2021

San Carlo Giuliani

 

Unreal City, 23 luglio 2021

In questi giorni si celebra la morte, il sacrificio, l’assassinio, di Carlo Giuliani. Giuliani, a sentire le campane, protestava contro la globalizzazione. A Genova, infatti, sfilavano i No-global. C’è chi è d’accordo, chi non è d’accordo; piccole zuffe digitali si accendono, a distanza di vent’anni, nei pollai sociali della nazione. Un fatto di cronaca nera, nemmeno eclatante, ancora brilla di luce propria, agli occhi di tanti: dissenzienti, nostalgici, destrorsi, sinistrati.
E perché?
Siamo un’epoca ormai catalettica, amorfa, spenta. Quel colpo di pistola risuona, quindi, nella interminata vastità dei nostri cuori cavi, incapaci di pompare il sangue della passione, come l’ultimo colpo di artiglieria mai sparato. Riconosco agli anni del terrorismo, ma anche a quelli delle stragi di Stato e della Guerra Fredda, una inarrivabile altezza di sentimenti. Errori e crudeltà inutili erano dettati da una volontà di sopraffazione, segno indiscusso di vitalità. Negli ultimi quarant’anni invece? Nulla. Solo qualche omicidio politico mirato, a ricordare chi comanda, scosse la putredine delle mozioni dell’animo. La morte di Giuliani, quindi, il corpo esanime a terra, il sangue, il carabiniere, la camionetta; i pestaggi susseguenti; tutto ha risvegliato in noi un mondo perduto e, oggi, inattingibile. Ci siamo attaccati a questa morte come assetati nel deserto: finalmente la vita! Il sangue! L’orrore, la paura! Il pericolo, la minaccia! La guerra! L’uomo è violenza, cioè vita, eppure nega a sé stesso la violenza e, quindi, la vita. Reprimere la propria essenza lo porta a costruire sopra questi episodi un mito fondativo: la sinistra, ma anche la destra che lo rinnega! D’altra parte, riflettiamo: in tutto ciò che si scrive come si etichetta l’interlocutore? O col termine comunista o col termine fascista o nazista et cetera. Ciò cosa dice, segretamente? Che il senso pieno della vita risiedeva nella violenza, nella disputa, nel confronto duro delle opinioni. Oggi, rammolliti in una pappa uniforme, esitanti (perché scientificamente impauriti dal Potere: è un Programma ben preciso) persino nel dare del trippone a un trippone, o del frocio a un frocio, o della racchia a un manico di scopa con le verruche, al massimo ci sfoghiamo a parole, anzi a fonemi digitali: e dove attacchiamo questi ansimi di violenza onde donargli una qualche credibilità vitalistica? A ciò che ricordiamo: il comunismo, il razzismo, il fascismo, il nazismo. Fra una o due generazioni non avremo nemmeno questi ricordi. I dialoghi nemmeno fioriranno più. Perché dialogare se tutto nasce e muore in una palude mefitica? Dove l’orgoglio, la lealtà, la forza delle idee senza un confronto con l’Altro? Il sangue di Carlo Giuliani riesce ancora a vivificare i nostri motteggi inconcludenti. Il suo corpo possiede il labile lucore d’una reliquia salvifica.