Roma, 25 ottobre 2019
Fà ddiesci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com’un ojjo,
che ssi strilli nun c’è cchi tt’arisponna!
Dove te vorti una campaggna rasa
Come sce sii passata la pianozza,
senza manco l’impronta d’una casa!
G. G. Belli, Er deserto
La mia
generazione, e qualche suo sparuto dintorno, vomitate, senza troppi affanni,
fra i Sessanta e i Settanta, sarà l’ultima a conservare, intimamente,
immediatamente, naturalmente, brandelli dell’Antico Ordine.
Una mia vecchia insegnante fu, in tal senso, una delle prime a segnalare la dissoluzione. Si sta muovendo qualcosa, mi disse. Qualcosa. La smobilitazione, il riflusso definitivo. Lei, che aveva votato per decenni al Centro (Partito Repubblicano o Liberale: La Malfa e Malagodi, se tali nomi riescono ancora a dire qualcosa a qualcuno), annusava lo sbraco. Era il 1993. Le pagliacciate romene, cecoslovacche, ungheresi, eltsianiane volgevano al termine: la disfatta rilevava su ciascuna tavolata, a destra, a sinistra, nel mezzo; e sottosopra. Non c’erano strade, solo una. L’unica strada possibile di lì a mezzo secolo, a oggi: e oltre, oltre Giove e l'infinito.
Il comunismo quale estremo katechon si insinuò nella mia coscienza intellettuale; mi convinsi che, al di là dei caporioni, un mondo di due secoli svaniva per lasciar posto a niente.
Perché di questo sono sicuro: col comunismo scomparve anche il capitalismo. E ogni ideologia concorrente al Nulla. Non è capitalismo, il nostro, bensì una dittatura. E le dittature, pur se originano da luoghi diversissimi, e da premesse inconciliabili, remote le une alle altre, finiscono per assomigliarsi tutte. L’ansia del controllo le uniforma straordinariamente.
Il capitalismo americano (la casalinga con la lavatrice, le opportunità date all’immigrato inteso come cittadino del globo, la guerra alla burocrazia - it’s easy! -, il self made man, il pragmatismo come antidoto al bizantinismo europeo) ovvero il ciarpame ideologico che ci hanno costretti a digerire dal 1945 in poi, risultò così vittorioso, splendido nell’affermazione totale, inoppugnabile, che dovette gettare la maschera e, in assenza di deuteragonista, mostrarsi per quel che era in nuce: una dittatura. Una dittatura che, mercé lo sbalorditivo progresso delle tecniche di controllo, si appresta al volgere risolutivo delle premesse ovvero a ciò che nella tragedia è detta: catastrofe.
So già cosa penserà qualche lettore. Il lettore medio del web, intendo, quello che usa un vocabolario di trecento parole e salta quattro righe su cinque lasciandosi guidare da alcune parole chiave che occhieggia qua e là lasciandole poi filtrare dal proprio pregiudizio: questo rimpiange il comunismo!
Il comunismo! I gulag! I bambini bolliti! I passeri di Mao! Il grigiore dei condomini funzionali! Li rimpiange! CCCP! SSSR! Il piano quinquennale! A ja ljublju SSSR!
Ma qui non si rimpiange alcunché, solo la mancanza di alternative, di vita alternativa. Il socialismo, comunque inveratosi, fu una scelta alternativa, maturata in due secoli. Il socialismo. Oliver Twist. La vita media delle operaie inglesi: ventisette anni. Rimpiango la mancanza di queste parole precise: il mondo è questo, ma io sono altro, credo in altro, voglio altro. Rimpiango, poi, uomini e donne, che, pur non sapendo nulla di Lenin e Marx, divennero gli araldi di quell’alternativa: compagni, morti con le scarpe rotte, la schiena rotta, le budella straziate dai reagenti; e però rimpiango anche certi preti, morti di fatica, per le responsabilità gravose, consunti dal dubbio e dalla consapevolezza dell’ingiustizia; rimpiango i borghesi timidi di Giustizia e Libertà, sempre minoranza, i fascisti poveracci, pure loro in minoranza, minoranza nella minoranza, incancreniti dalla sconfitta o persi nella nostalgia o traditi dagli idioti coi soldi che giocavano a fare i fascisti.
Le idee, che erano tali perché recavano senso alla vita, non potevano essere oggetto di compromesso, compravendita o transazione. Le idee immortali plasmavano persino il fisico degli uomini e delle donne; si riconosceva subito una famiglia democristiana; o quella fascista o comunista o sottoproletaria. Le giacche, le gonne, la quieta eleganza, la sfacciataggine di un taglio di capelli, la volgare trasandatezza – ogni particolare denotava una stazione antropologica dell’Italiano.
E questo la mia generazione l’ha vissuto, e respirato. C’era l’Italia, da tre millenni; la si calpestava ogni giorno; ma si era diversi, ognuno irriducibile all’altro; la gerarchia sfaccettava ulteriormente i tipi sociali sino a una ricca congerie umana altrimenti detta: popolo.
Scendevo
le scale di casa, mi incamminavo a piedi, a sei anni, lungo una strada del
suburbio romano, la via Boccea. Ma la Boccea si chiamava così dall’Ottocento,
almeno nella toponomastica; prima era la medioevale Buccea, prima ancora la
romana Cornelia e prima ancora una via etrusca, forse riadattata dal 1000 a.
C., per gli indigeni e gli aborigeni laziali che sacrificavano animali e
bambole del grano nei solchi conquistati da Enea.
Wikipedia: “Gli Aborigeni (in greco: Ἀβοριγῖνες, in latino: Aborigĭnes) sono indicati dalle antiche fonti storico letterarie come tra i più antichi abitanti dell'Italia Centrale”.
“Non sopporto i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz funk inglese e neanche la nera americana”, così canta il maestro Franco Battiato; personalmente, poiché amo detenere un centro di gravità permanente, non sopporto chi, in luogo di 1000 a.C., usa scrivere 1000 p.E.V. Lo trovo stupido, anzitutto, e poi vile. Solo un poveraccio può inorgoglirsi per queste trovate da saltimbanco illuminista.
Scendevo le scale del condominio; ogni piano riservava, già nel primissimo mattino, un vago odore di cucina: brodo, soprattutto, carni lesse, minestre vegetali, messe a bollire per il pranzo; l’ascensore non lo si poteva usare poiché ogni discesa e risalita costava dieci lire: da imbucare nell’apposito macchinario. Dieci lire erano poca cosa: una partita a flipper o una ciambella ne costavano cento! Eppure le regole in casa queste erano: il troppo stroppia; una sapienza piccolo borghese che i miei condividevano con Apollo: nulla di troppo. L’etica consisteva in questo: nel mai recedere ai principi pur di fronte a piccinerie come i dieci soldi per l’ascensore, nonostante i cinque piani. A pioggia venivo investito da altri divieti: la pizza, a esempio. All’uscita da scuola, giusto per fare un po’ di rumore con gli altri compagni e allungare la bisboccia sino a casa, ci piaceva comprare la pizza. Ma la pizza, nel mio caso, aveva da essere bianca: cento lire (ancora!) di pizza bianca. O anche cinquanta! La pizza rossa, o con le patate oppure con la mozzarella (una prelibatezza sardanapalesca), costituiva un oltraggio al pudore dell’economia familiare. Perché? Nessuno, in famiglia, avrebbe mai potuto concettualizzare e nemmeno giustificare questo sentimento; la pizza dopo scuola, insomma, era già un lusso (si cenava dopo quattro ore, potevo aspettare!); la pizza con la mozzarella, poi, era uno schiaffo alla povertà, al decoro, a Dio e, pertanto, avrebbe calamitato su di noi la ritorsione del Dio della ritenutezza e della mediocrità, del risparmio silente, del nulla di troppo.
In questa ricerca della frugalità, spinta sino all’avarizia, si ritrova la fame ancestrale e gl’istinti di sopravvivenza, concresciuti nei secoli. La “scarpetta” ne è una manifestazione: ripulire il piatto. L’avanzo era indizio di peccato; mortale; l’unica redenzione consisteva, quindi, nel mangiarlo, il giorno dopo, unticcio e riscaldato in padella, il calore a sciogliere le salse cagliate, o a bagnomaria, col piatto sulla pentola d’acqua che, lentamente, si preparava ad accogliere il maccherone eterno.
Ma qui, in tale renitenza feroce a una pur minima ostentazione di benessere, alla ripulsa religiosa verso l’esibizionismo, rintracciamo la qualità migliore dell’Italiano antico - attitudine atavica, sbeffeggiata, infatti, dai nuovissimi intellettuali di sinistra (i progressisti si ritenevano inevitabilmente superiori alla fanga provinciale) e di destra (che vellicavano lo strapaese solo per moda: poi andavano a cena nei ristoranti di lusso).
Una qualità, la modestia, che i nostri pensatori hanno ridicolizzato, mentre, altri, più furbi o più accorti, invece, decantarono. Gli Inglesi di nuovo conio (postscespiriani), a esempio, e gli Americani, loro figliocci degenerati, questi pezzenti del pensiero, ne fecero un punto filosofico centrale: etiche protestanti, animal spirits, Adam Smith, calvinismo come motore del capitalismo virtuoso; sì, ne inventarono parecchie, gli Angloamericani; e gli intellettualini italici riportarono servilmente tali magri bastoncini, da botoli della cultura quali furono (e sono), poiché una locuzione inglese, la locuzione dei padroni, vanta una autorevolezza inevitabile (il mondo pare nascere con loro, alla fine del Settecento) e arricchisce sempre il curriculum degli accademici coi piedi sulla scrivania; per tacere, è evidente, dei giochi di parole crucchi, i giochi di parole col trattino (esser-ci, Dasein), inesplicabili come un rebus di Orofilo, l’eccezionale enigmista, e, per tal motivo, resistenti a ogni interpretazione sensata: tanto da generarne, infondate, altre mille, e conferire al rospo filosofico una ricchezza polisemica inesistente.
Nell’Italia trimillenaria si ritrova tutto, nulla si inventa fuori di lei. Ecco il nuovo patriottismo. L’Italia è un libro in cui ogni evento confluisce, prima o poi, o è presagito da altre parole e con altre parole, o si è già compiuto ed è stato dimenticato. E chi è vissuto in Lei certe scienze le recava nel sangue.
Wikipedia: “Gli Aborigeni (in greco: Ἀβοριγῖνες, in latino: Aborigĭnes) sono indicati dalle antiche fonti storico letterarie come tra i più antichi abitanti dell'Italia Centrale”.
“Non sopporto i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz funk inglese e neanche la nera americana”, così canta il maestro Franco Battiato; personalmente, poiché amo detenere un centro di gravità permanente, non sopporto chi, in luogo di 1000 a.C., usa scrivere 1000 p.E.V. Lo trovo stupido, anzitutto, e poi vile. Solo un poveraccio può inorgoglirsi per queste trovate da saltimbanco illuminista.
Scendevo le scale del condominio; ogni piano riservava, già nel primissimo mattino, un vago odore di cucina: brodo, soprattutto, carni lesse, minestre vegetali, messe a bollire per il pranzo; l’ascensore non lo si poteva usare poiché ogni discesa e risalita costava dieci lire: da imbucare nell’apposito macchinario. Dieci lire erano poca cosa: una partita a flipper o una ciambella ne costavano cento! Eppure le regole in casa queste erano: il troppo stroppia; una sapienza piccolo borghese che i miei condividevano con Apollo: nulla di troppo. L’etica consisteva in questo: nel mai recedere ai principi pur di fronte a piccinerie come i dieci soldi per l’ascensore, nonostante i cinque piani. A pioggia venivo investito da altri divieti: la pizza, a esempio. All’uscita da scuola, giusto per fare un po’ di rumore con gli altri compagni e allungare la bisboccia sino a casa, ci piaceva comprare la pizza. Ma la pizza, nel mio caso, aveva da essere bianca: cento lire (ancora!) di pizza bianca. O anche cinquanta! La pizza rossa, o con le patate oppure con la mozzarella (una prelibatezza sardanapalesca), costituiva un oltraggio al pudore dell’economia familiare. Perché? Nessuno, in famiglia, avrebbe mai potuto concettualizzare e nemmeno giustificare questo sentimento; la pizza dopo scuola, insomma, era già un lusso (si cenava dopo quattro ore, potevo aspettare!); la pizza con la mozzarella, poi, era uno schiaffo alla povertà, al decoro, a Dio e, pertanto, avrebbe calamitato su di noi la ritorsione del Dio della ritenutezza e della mediocrità, del risparmio silente, del nulla di troppo.
In questa ricerca della frugalità, spinta sino all’avarizia, si ritrova la fame ancestrale e gl’istinti di sopravvivenza, concresciuti nei secoli. La “scarpetta” ne è una manifestazione: ripulire il piatto. L’avanzo era indizio di peccato; mortale; l’unica redenzione consisteva, quindi, nel mangiarlo, il giorno dopo, unticcio e riscaldato in padella, il calore a sciogliere le salse cagliate, o a bagnomaria, col piatto sulla pentola d’acqua che, lentamente, si preparava ad accogliere il maccherone eterno.
Ma qui, in tale renitenza feroce a una pur minima ostentazione di benessere, alla ripulsa religiosa verso l’esibizionismo, rintracciamo la qualità migliore dell’Italiano antico - attitudine atavica, sbeffeggiata, infatti, dai nuovissimi intellettuali di sinistra (i progressisti si ritenevano inevitabilmente superiori alla fanga provinciale) e di destra (che vellicavano lo strapaese solo per moda: poi andavano a cena nei ristoranti di lusso).
Una qualità, la modestia, che i nostri pensatori hanno ridicolizzato, mentre, altri, più furbi o più accorti, invece, decantarono. Gli Inglesi di nuovo conio (postscespiriani), a esempio, e gli Americani, loro figliocci degenerati, questi pezzenti del pensiero, ne fecero un punto filosofico centrale: etiche protestanti, animal spirits, Adam Smith, calvinismo come motore del capitalismo virtuoso; sì, ne inventarono parecchie, gli Angloamericani; e gli intellettualini italici riportarono servilmente tali magri bastoncini, da botoli della cultura quali furono (e sono), poiché una locuzione inglese, la locuzione dei padroni, vanta una autorevolezza inevitabile (il mondo pare nascere con loro, alla fine del Settecento) e arricchisce sempre il curriculum degli accademici coi piedi sulla scrivania; per tacere, è evidente, dei giochi di parole crucchi, i giochi di parole col trattino (esser-ci, Dasein), inesplicabili come un rebus di Orofilo, l’eccezionale enigmista, e, per tal motivo, resistenti a ogni interpretazione sensata: tanto da generarne, infondate, altre mille, e conferire al rospo filosofico una ricchezza polisemica inesistente.
Nell’Italia trimillenaria si ritrova tutto, nulla si inventa fuori di lei. Ecco il nuovo patriottismo. L’Italia è un libro in cui ogni evento confluisce, prima o poi, o è presagito da altre parole e con altre parole, o si è già compiuto ed è stato dimenticato. E chi è vissuto in Lei certe scienze le recava nel sangue.
Solo ora, in tempi di tradimenti, i traditori hanno negletto
quel sapere per omaggiare il Nulla e la superficialità.
L’etica del lavoro, cristiana e provinciale, italianissima, l’avevamo in noi, formata, dura e imperiosa; solo dei mestatori di professione o degli sciocchi ci hanno trasformato in un popolo di sfaccendati e fatalisti. L’Inglese e l’Americano producono; l’Italiano aspetta lo Stellone col sombrero da pennichella: così ragiona il filosofo, l’economista, il politico di nuovo conio, assoldato col nuovo conio per dileggiare la grandezza.
E così ci convertirono all’efficienza. Ma, come ognuno di voi può vedere, giorno dopo giorno, da quando si è divenuti efficienti, di un'efficienza nordica o americana o crucca, la voglia di lavorare, inventare e creare, da sempre nel genotipo morale dell’Italiano, è via via svaporata: sino al disastro attuale, in cui possiamo constatare, de visu, la totale, irrefrenabile, voglia di ponte o vacanza, a qualsiasi livello, in ossequio, ovvio, all’etica protestante del lavoro. Al contrario.
E il flipper? Amavo quel gioco, sul serio. Una sera mio padre, assai distratto, mi concesse settecento lire per alcune partite. Lo scopo occulto di tanta prodigalità consisteva nell’allontanarmi dai tavoli in cui si gustava una partita dell’Italia. E così giocai sette partite di seguito, lunghissime, poiché costituite da cinque palline cadauna. Quando mia madre lo venne a sapere, per un bofonchiamento di troppo, si scatenò l’inferno. Settecento lire? Sai quante fettine ci prendo con settecento lire? Le fettine, le ambite fettine di vitella, chez le boucher, sotto casa, che lei aveva da indicare, col dito contadino, le parti migliori, e il grasso da scartare: per non farsi fregare sul peso. La fettina, da panare magari, e schiacciare, condita di limone, tra due spesse tavole di pane ternano: pranzo ambito, o subìto, da moltissimi.
Dei pantaloni dismessi, dei maglioni languidi per troppi lavaggi e indossi, maglioni di cugini già cresciuti, delle toppe al culo e delle avitaminosi biafrane, già parlai in altra occasione. Di noi ragazzetti, bassi, tozzi, pelosi, sgraziati e storti, anche. Non ambisco a rendere quel periodo un feticcio da adorare. Si era così, umani, Italiani, diversi l’uno dall’altro; l’ingiustizia sociale serpeggiava anche allora, ma numerosi scogli d’approdo affioravano nel mare tempestoso dell’esistenza: i parenti, il welfare e la campagna, cornucopia ubertosa e prodiga: la campagna viterbese, ovvero gli antenati non ancora inurbati, che elargivano olio, vino, uova, ortaggi e frutta, generosi coi figli e, soprattutto, coi nipoti, grazie a quel cordone ombelicale che non s’era certo reciso col nostro esodo. Le scarpe erano alla buona, sformate da subito, la lingerie da moccioso solcata da cicatrici da rammendo formidabili; si studiava, si giocava; io amavo, soprattutto, le luci della sera.
L’autunno morente regalava i primi refoli freschi, al tramonto, quando si usciva per andare in chiesa, al catechismo, catechismo cristiano, d’una dolce persuasione gozzaniana; il fulgore quieto dei bulbi di lampadina, d’un giallino pallido e pievano, umile, a rischiarare i corridoi, modesti e consueti, di aule e stanzette parrocchiali; i quadernetti, le litanie; il piacere di avere una seconda classe da condividere, altri amici, altri incroci di genti: abruzzesi, campani, molisani; la ragazzetta malvestita all’ultimo banco, già afflitta da una leggera peluria che aureolava i contorni delle labbra; il ritorno a casa, quando piovigginava, la via lustra come uno specchio, a riflettere gli ansimi dei lampioni, il cik ciak delle suole, le vetrine offuscate, il gusto nello sbirciare decine di vite: a indovinarle oltre le finestre.
Nell’adolescenza ci si innamorava vanamente, per accensioni improvvise e brutali. L’eccitazione per una caviglia infiammava le notti. Si era dei monellacci disposti a tutto, per quella caviglia. E spesso ci si contentava: non è forse bello rimuginare su quelle linee celestiali, così, senza avere nulla in cambio? Anzi, avrei riflettuto dopo, non fu amore purissimo quello che non ebbe nulla in cambio, nemmeno un bacio?
Così andavano le cose nel millennio scorso. Ma a noi piaceva così. I fumetti, i giornalini, le figurine, certo, e poi le biciclette, i motorini; meccanici provetti, sempre con qualche ferrovecchio fra le dita: un freno, un cuscinetto a sfera, una vite, un pedale, uno spinterogeno, una marmitta. Arrivai all’esame di scuola guida con la sapienza d’un apprendista di bottega. Motorette, bici e primi catorci da maggiorenni ce li riparavamo e miglioravamo da soli. L’arte d’arrangiarsi ancora sobbolliva in ognuno. Si andava a caccia, a pesca. Parecchi riconoscevano alberi, erbe e funghi. Si intratteneva un rapporto leale con gli animali, da veri animali, pari a pari, cani cavalli gatti corvi, poiché tale mozione dell’animo faceva parte di un circolo mitico che tutto ricomprendeva.
Puzzavamo? Me lo chiedo spesso, in epoca di igienismo nichilista. In campagna non si aveva acqua calda, né bidet; il trastullo di un bagno lo si viveva una volta al mese; il risciacquo delle pudenda la sera, in una conchetta usata da tutti, dopo la giornata passate nella polvere. I miei nonni si lavavano? E chi lo sa. Si mangiavano animali immondi, lumache, gamberacci di fiume, cervella fritte, fegati sommersi dalle cipolle selvatiche. A ripensarci, qualcuno è preso dai brividi: trogloditi, si era, altro che uomini! Bifolchi. I campagnoli entravano a contatto con la civiltà solo durante il servizio militare: antibiotici e pasti regolari trasformavano quei fasci di nervi in individui quasi prestanti, appena insidiati dalle mollezze del benessere. Circolavano aneddoti sugli Aborigeni della Tuscia di stanza nel Nord, a marciare e bestemmiare col fucile in spalla: avidi della pasta al ragù servita alla mensa, tanto da divorarne più porzioni, cinghiali capaci di addentare, famelici, spezzatini e patate arrosto, sotto gli occhi sbalorditi delle Terese e delle Emilie nordiche, scandalizzate e divertite da tali rustici migranti. Migranti che ci provavano pure, con le Emilie e le Terese, con minuetti bestiali d’accoppiamento che riuscivano a far sembrare la monta degli stalloni un rituale di corteggiamento stilnovista. Ineducati, rozzi, ottusi, i miei campagnoli attraversarono l’Italia sempre derisi, ma ferocemente vitali, di una vitalità insopprimibile, compressa da millenni di servaggio e furberie da Bertoldo.
La voglia di vivere, ovvero: di sopravvivere, formò Italiani ignoranti e decisi a tutto, dai tratti ruvidi e repellenti, ma forti di una volontà tetragona distillata negli andirivieni terribili della vera Storia. Vitalismo.
L’etica del lavoro, cristiana e provinciale, italianissima, l’avevamo in noi, formata, dura e imperiosa; solo dei mestatori di professione o degli sciocchi ci hanno trasformato in un popolo di sfaccendati e fatalisti. L’Inglese e l’Americano producono; l’Italiano aspetta lo Stellone col sombrero da pennichella: così ragiona il filosofo, l’economista, il politico di nuovo conio, assoldato col nuovo conio per dileggiare la grandezza.
E così ci convertirono all’efficienza. Ma, come ognuno di voi può vedere, giorno dopo giorno, da quando si è divenuti efficienti, di un'efficienza nordica o americana o crucca, la voglia di lavorare, inventare e creare, da sempre nel genotipo morale dell’Italiano, è via via svaporata: sino al disastro attuale, in cui possiamo constatare, de visu, la totale, irrefrenabile, voglia di ponte o vacanza, a qualsiasi livello, in ossequio, ovvio, all’etica protestante del lavoro. Al contrario.
E il flipper? Amavo quel gioco, sul serio. Una sera mio padre, assai distratto, mi concesse settecento lire per alcune partite. Lo scopo occulto di tanta prodigalità consisteva nell’allontanarmi dai tavoli in cui si gustava una partita dell’Italia. E così giocai sette partite di seguito, lunghissime, poiché costituite da cinque palline cadauna. Quando mia madre lo venne a sapere, per un bofonchiamento di troppo, si scatenò l’inferno. Settecento lire? Sai quante fettine ci prendo con settecento lire? Le fettine, le ambite fettine di vitella, chez le boucher, sotto casa, che lei aveva da indicare, col dito contadino, le parti migliori, e il grasso da scartare: per non farsi fregare sul peso. La fettina, da panare magari, e schiacciare, condita di limone, tra due spesse tavole di pane ternano: pranzo ambito, o subìto, da moltissimi.
Dei pantaloni dismessi, dei maglioni languidi per troppi lavaggi e indossi, maglioni di cugini già cresciuti, delle toppe al culo e delle avitaminosi biafrane, già parlai in altra occasione. Di noi ragazzetti, bassi, tozzi, pelosi, sgraziati e storti, anche. Non ambisco a rendere quel periodo un feticcio da adorare. Si era così, umani, Italiani, diversi l’uno dall’altro; l’ingiustizia sociale serpeggiava anche allora, ma numerosi scogli d’approdo affioravano nel mare tempestoso dell’esistenza: i parenti, il welfare e la campagna, cornucopia ubertosa e prodiga: la campagna viterbese, ovvero gli antenati non ancora inurbati, che elargivano olio, vino, uova, ortaggi e frutta, generosi coi figli e, soprattutto, coi nipoti, grazie a quel cordone ombelicale che non s’era certo reciso col nostro esodo. Le scarpe erano alla buona, sformate da subito, la lingerie da moccioso solcata da cicatrici da rammendo formidabili; si studiava, si giocava; io amavo, soprattutto, le luci della sera.
L’autunno morente regalava i primi refoli freschi, al tramonto, quando si usciva per andare in chiesa, al catechismo, catechismo cristiano, d’una dolce persuasione gozzaniana; il fulgore quieto dei bulbi di lampadina, d’un giallino pallido e pievano, umile, a rischiarare i corridoi, modesti e consueti, di aule e stanzette parrocchiali; i quadernetti, le litanie; il piacere di avere una seconda classe da condividere, altri amici, altri incroci di genti: abruzzesi, campani, molisani; la ragazzetta malvestita all’ultimo banco, già afflitta da una leggera peluria che aureolava i contorni delle labbra; il ritorno a casa, quando piovigginava, la via lustra come uno specchio, a riflettere gli ansimi dei lampioni, il cik ciak delle suole, le vetrine offuscate, il gusto nello sbirciare decine di vite: a indovinarle oltre le finestre.
Nell’adolescenza ci si innamorava vanamente, per accensioni improvvise e brutali. L’eccitazione per una caviglia infiammava le notti. Si era dei monellacci disposti a tutto, per quella caviglia. E spesso ci si contentava: non è forse bello rimuginare su quelle linee celestiali, così, senza avere nulla in cambio? Anzi, avrei riflettuto dopo, non fu amore purissimo quello che non ebbe nulla in cambio, nemmeno un bacio?
Così andavano le cose nel millennio scorso. Ma a noi piaceva così. I fumetti, i giornalini, le figurine, certo, e poi le biciclette, i motorini; meccanici provetti, sempre con qualche ferrovecchio fra le dita: un freno, un cuscinetto a sfera, una vite, un pedale, uno spinterogeno, una marmitta. Arrivai all’esame di scuola guida con la sapienza d’un apprendista di bottega. Motorette, bici e primi catorci da maggiorenni ce li riparavamo e miglioravamo da soli. L’arte d’arrangiarsi ancora sobbolliva in ognuno. Si andava a caccia, a pesca. Parecchi riconoscevano alberi, erbe e funghi. Si intratteneva un rapporto leale con gli animali, da veri animali, pari a pari, cani cavalli gatti corvi, poiché tale mozione dell’animo faceva parte di un circolo mitico che tutto ricomprendeva.
Puzzavamo? Me lo chiedo spesso, in epoca di igienismo nichilista. In campagna non si aveva acqua calda, né bidet; il trastullo di un bagno lo si viveva una volta al mese; il risciacquo delle pudenda la sera, in una conchetta usata da tutti, dopo la giornata passate nella polvere. I miei nonni si lavavano? E chi lo sa. Si mangiavano animali immondi, lumache, gamberacci di fiume, cervella fritte, fegati sommersi dalle cipolle selvatiche. A ripensarci, qualcuno è preso dai brividi: trogloditi, si era, altro che uomini! Bifolchi. I campagnoli entravano a contatto con la civiltà solo durante il servizio militare: antibiotici e pasti regolari trasformavano quei fasci di nervi in individui quasi prestanti, appena insidiati dalle mollezze del benessere. Circolavano aneddoti sugli Aborigeni della Tuscia di stanza nel Nord, a marciare e bestemmiare col fucile in spalla: avidi della pasta al ragù servita alla mensa, tanto da divorarne più porzioni, cinghiali capaci di addentare, famelici, spezzatini e patate arrosto, sotto gli occhi sbalorditi delle Terese e delle Emilie nordiche, scandalizzate e divertite da tali rustici migranti. Migranti che ci provavano pure, con le Emilie e le Terese, con minuetti bestiali d’accoppiamento che riuscivano a far sembrare la monta degli stalloni un rituale di corteggiamento stilnovista. Ineducati, rozzi, ottusi, i miei campagnoli attraversarono l’Italia sempre derisi, ma ferocemente vitali, di una vitalità insopprimibile, compressa da millenni di servaggio e furberie da Bertoldo.
La voglia di vivere, ovvero: di sopravvivere, formò Italiani ignoranti e decisi a tutto, dai tratti ruvidi e repellenti, ma forti di una volontà tetragona distillata negli andirivieni terribili della vera Storia. Vitalismo.
Italiani. Gli Italiani che conobbi io, uno degli ultimi
dell’ultima generazione.
Le ragazze, dai tredici in su, andavano a servire presso i
nobili o gli arricchiti di Roma e Viterbo; fameliche anch’esse, con varie
sfumature, tornavano benestanti o incinte di figli bastardi; ladre, virginee,
maliziose a un tempo, lasciarono sul limitare della vita o fregnoni retrogradi,
pelosi e ostici, oppure il figlio del peccato, diverso nel fenotipo, poiché da
ascrivere a lombi più raffinati. Anche i preti, allora non tocchi
dall’omosessualismo, anzi, decisi a infilarsi in ogni pertugio dell’anima e
della mutanda, lasciarono elementi di spicco nel bestiario paesano: ancor oggi,
gli occhi languidi di qualche Don risplendono nei volti di cinquantenni o sessantenni,
frutti dell'incontinenza concepiti fra una confessione e un Salve, o Regina.
I campagnoli che invasero le città nel dopoguerra se la passarono bene. Tra questi fregnoni, cooptati dallo Stato e dal parastato come infermieri, guardie, carabinieri e quant’altro, vanno contate le origini dei miei giorni. Il babbo e la mamma d’Alceste, scesi dai monti della brutalità a metà anni Sessanta, ignari di tutto, del diaframma e dei Beatles, della televisione e dei termosifoni, ebbero il vago piacere di ritrovare il parentame già insediato: riconosciuto forse all’odore, contribuì, secoloro, a costituire piccole enclavi di terroni della Tuscia. La domenica, a qualche rimpatriata, tali armenti, rumorosi, pletorici e ridanciani, separati doverosamente i generi sessuali - i maschi a scolare da una parte le residue fiaschette, fra le molliche e le ossa degli animali morti, divorati brano a brano, le femmine a rigovernare dall’altra, pettegole e livorose contro qualche elemento del proprio genere, di solito una ragazza madre o una cornificatrice, e i figlioli, che non avevano sesso, ma erano bestioline irrazionali, fortunate a vivere l’ultima epoca da bazza della nazione - tali greggi si raccontavano, divertite e con una punta d'imbarazzo, episodi da novelletta trecentesca, la più trascurabile e grassoccia.
Quella sullo zio, a esempio, appena arrivato a Roma, che, trovatosi a passeggiare lungo la popolosa via Tuscolana, salutava ossequiosamente i manichini delle vetrine, scappellandosi cerimoniosamente, intimorito dalla loro aristocratica fissità in gabardine; o sull’altro, Piero, recato per la prima in vita sua, a settant’anni suonati, in un ristorante: lo zio Piero, ombroso e scostante, che, per non incomodare il cameriere (lo credeva un mezzo sergente), e vergognandosi dell’osso della bistecca residua nel piatto, ebbe a gettarlo dalla finestra, credendosi alla chetichella, sotto gli occhi atterriti della borghesia indigena di Prati, ormai convinta del ritorno dei Goti; o su Nina, sorella minore d’una parente stretta che, già al servizio d’un importante generale dell’Esercito, cercava di raccomandarla per un posticino da sguattera; indotta, la Nina ovviamente, verginella e quindicenne, a vivamente ossequiare il Grand’Uomo appena l’avesse intraveduto, ebbe, purtroppo, a seguire il consiglio con troppo zelo: lasciata nelle frescure delle ombre all’ingresso, prese timidamente ad avanzare, per pochi metri; fin quando, nel ritaglio della larga porta d’ingresso al salotto, se lo trovò davanti, El General in persona, con vestaglia inappuntabile, possente e arcigno, assiso presso la scrivania, massiccia a autoritaria al suo pari, a disbrigar qualche faccenduola da caserma. E lei, da lontano, timidona ed esitante: “Buongiorno, buongiorno signor generale!”. Egli, alzati gli occhi dagli scartafacci ministeriali, borbugliò un distratto “Buongiorno!”, evasivo e tagliente, chiedendosi, forse, sovrappensiero, chi diavolo fosse quell’ennesima derelitta denutrita che la moglie gli metteva in casa. E la sventurata, ingobbita dalla deferenza e dallo shock della rivelazione generalizia, a rientrare lentamente nell’ombra; per recederne, ahi!, qualche minuto dopo e inglobare nuovamente alla vista, lei malgrado (non ci si poteva sottrarre!), quella figura severissima: “Buongiorno, buongiorno signor generale!”. E lui, dopo uno sbarracamento totale degli occhi da gufo: “Buongiorno!”, sospeso tra scocciatura e incredulità, il foglio candido e leggero - seppur onusto di responsabilità - ripiegato fra le dita nocchiute. E la Nina ritornava, ne era costretta, povera anima, fra le oscurità dell’ingresso patrizio: dove, però, tra portaombrelli, guardaroba, comò e larghe specchiere di gusto liberty, paurose a guardarle, povera bimba!, c’era poco spazio anche solo per girarsi, nella lunghissima attesa. E così la Nostra si sottopose al ferro rovente d’una terza scappatina alla luce, cosa poteva fare?, quando, ancora!, El General la sorprese: e lei, fedele alla consegna: “Buongiorno, buongiorno signor generale!”, per poi ritornare, come un cagnolino bastonato, nell’atra indifferenza dei penetrali. E la cosa sarebbe andata avanti per una mezz’ora o più, se, al quinto “Buongiorno!”, dalla formulazione sempre più flebile e incespicante, a dir la verità, il condottiero di fanti senza più guerre non avesse sbottato, rivolto alla moglie, alla figlia racchia e al resto della servitù, sperduta fra le dieci ampie stanze della casa e compresa dalle incombenze mattutine, uno stentoreo e inequivocabile: “Ma si può sapere chi è questa stronza?”. E il parentame raccontava la scenetta divertendosi un mondo, ah ah ah, oh oh oh, con un retrogusto amaro, certo, poiché anch’essi, a diversi livelli, avevano subito umiliazioni di tal genere. Ma nessuno aveva a ridire su quello, era gente fatalista, e, perciò, reazionaria, che accettava di buon grado la discriminazione di classe, generatrice di stipendi sicuri e obliatrice di campi, zappe e merda di cavallo. Sì, il Generale lo amavano, con sincero servilismo, come il bisnonno mezzadro adorava il marchese latifondista - e lo si amava, il Generale, assieme all’industrialotto, al caposervizio, al maresciallo scelto, al vescovo: fosse stato per loro, fascisti, monarchici e democristiani d’acciaio, li avrebbero fabbricati in serie, i generali e gli altri prevaricatori, a sancire una piramide sociale inalterabile e perfetta, che dava da mangiare a tutti, e sarebbe stata tramandata a figli e nipoti rachitici, maledetti i comunisti che vogliono la parità, e ancor più maledetti i giovani che vogliono il progresso; perché il progresso, e avevano ragione da vendere, non si mangia la domenica.
La domenica, passata l’oretta buona per santificare le feste, ci si inoltrava nella campagna romana, distante pochi chilometri. La cicoria, gli asparagi, persino more e lamponi. Nessuno pareva reclamare nulla; prati e campi non possedevano staccionate; era sconosciuto l’uso di cartelli di divieto. Vigeva, insomma, una sorta di ius secolare per cui proprietari e latifondisti permettevano la raccolta dei frutti spontanei della terra, senza pretendere alcunché, così come, sin dall’Alto Medioevo, il signore o il vescovo concedevano ramaglie, ghiande e piccola selvaggina per la sussistenza di contadini e poveri cristi vagabondi.
I campagnoli che invasero le città nel dopoguerra se la passarono bene. Tra questi fregnoni, cooptati dallo Stato e dal parastato come infermieri, guardie, carabinieri e quant’altro, vanno contate le origini dei miei giorni. Il babbo e la mamma d’Alceste, scesi dai monti della brutalità a metà anni Sessanta, ignari di tutto, del diaframma e dei Beatles, della televisione e dei termosifoni, ebbero il vago piacere di ritrovare il parentame già insediato: riconosciuto forse all’odore, contribuì, secoloro, a costituire piccole enclavi di terroni della Tuscia. La domenica, a qualche rimpatriata, tali armenti, rumorosi, pletorici e ridanciani, separati doverosamente i generi sessuali - i maschi a scolare da una parte le residue fiaschette, fra le molliche e le ossa degli animali morti, divorati brano a brano, le femmine a rigovernare dall’altra, pettegole e livorose contro qualche elemento del proprio genere, di solito una ragazza madre o una cornificatrice, e i figlioli, che non avevano sesso, ma erano bestioline irrazionali, fortunate a vivere l’ultima epoca da bazza della nazione - tali greggi si raccontavano, divertite e con una punta d'imbarazzo, episodi da novelletta trecentesca, la più trascurabile e grassoccia.
Quella sullo zio, a esempio, appena arrivato a Roma, che, trovatosi a passeggiare lungo la popolosa via Tuscolana, salutava ossequiosamente i manichini delle vetrine, scappellandosi cerimoniosamente, intimorito dalla loro aristocratica fissità in gabardine; o sull’altro, Piero, recato per la prima in vita sua, a settant’anni suonati, in un ristorante: lo zio Piero, ombroso e scostante, che, per non incomodare il cameriere (lo credeva un mezzo sergente), e vergognandosi dell’osso della bistecca residua nel piatto, ebbe a gettarlo dalla finestra, credendosi alla chetichella, sotto gli occhi atterriti della borghesia indigena di Prati, ormai convinta del ritorno dei Goti; o su Nina, sorella minore d’una parente stretta che, già al servizio d’un importante generale dell’Esercito, cercava di raccomandarla per un posticino da sguattera; indotta, la Nina ovviamente, verginella e quindicenne, a vivamente ossequiare il Grand’Uomo appena l’avesse intraveduto, ebbe, purtroppo, a seguire il consiglio con troppo zelo: lasciata nelle frescure delle ombre all’ingresso, prese timidamente ad avanzare, per pochi metri; fin quando, nel ritaglio della larga porta d’ingresso al salotto, se lo trovò davanti, El General in persona, con vestaglia inappuntabile, possente e arcigno, assiso presso la scrivania, massiccia a autoritaria al suo pari, a disbrigar qualche faccenduola da caserma. E lei, da lontano, timidona ed esitante: “Buongiorno, buongiorno signor generale!”. Egli, alzati gli occhi dagli scartafacci ministeriali, borbugliò un distratto “Buongiorno!”, evasivo e tagliente, chiedendosi, forse, sovrappensiero, chi diavolo fosse quell’ennesima derelitta denutrita che la moglie gli metteva in casa. E la sventurata, ingobbita dalla deferenza e dallo shock della rivelazione generalizia, a rientrare lentamente nell’ombra; per recederne, ahi!, qualche minuto dopo e inglobare nuovamente alla vista, lei malgrado (non ci si poteva sottrarre!), quella figura severissima: “Buongiorno, buongiorno signor generale!”. E lui, dopo uno sbarracamento totale degli occhi da gufo: “Buongiorno!”, sospeso tra scocciatura e incredulità, il foglio candido e leggero - seppur onusto di responsabilità - ripiegato fra le dita nocchiute. E la Nina ritornava, ne era costretta, povera anima, fra le oscurità dell’ingresso patrizio: dove, però, tra portaombrelli, guardaroba, comò e larghe specchiere di gusto liberty, paurose a guardarle, povera bimba!, c’era poco spazio anche solo per girarsi, nella lunghissima attesa. E così la Nostra si sottopose al ferro rovente d’una terza scappatina alla luce, cosa poteva fare?, quando, ancora!, El General la sorprese: e lei, fedele alla consegna: “Buongiorno, buongiorno signor generale!”, per poi ritornare, come un cagnolino bastonato, nell’atra indifferenza dei penetrali. E la cosa sarebbe andata avanti per una mezz’ora o più, se, al quinto “Buongiorno!”, dalla formulazione sempre più flebile e incespicante, a dir la verità, il condottiero di fanti senza più guerre non avesse sbottato, rivolto alla moglie, alla figlia racchia e al resto della servitù, sperduta fra le dieci ampie stanze della casa e compresa dalle incombenze mattutine, uno stentoreo e inequivocabile: “Ma si può sapere chi è questa stronza?”. E il parentame raccontava la scenetta divertendosi un mondo, ah ah ah, oh oh oh, con un retrogusto amaro, certo, poiché anch’essi, a diversi livelli, avevano subito umiliazioni di tal genere. Ma nessuno aveva a ridire su quello, era gente fatalista, e, perciò, reazionaria, che accettava di buon grado la discriminazione di classe, generatrice di stipendi sicuri e obliatrice di campi, zappe e merda di cavallo. Sì, il Generale lo amavano, con sincero servilismo, come il bisnonno mezzadro adorava il marchese latifondista - e lo si amava, il Generale, assieme all’industrialotto, al caposervizio, al maresciallo scelto, al vescovo: fosse stato per loro, fascisti, monarchici e democristiani d’acciaio, li avrebbero fabbricati in serie, i generali e gli altri prevaricatori, a sancire una piramide sociale inalterabile e perfetta, che dava da mangiare a tutti, e sarebbe stata tramandata a figli e nipoti rachitici, maledetti i comunisti che vogliono la parità, e ancor più maledetti i giovani che vogliono il progresso; perché il progresso, e avevano ragione da vendere, non si mangia la domenica.
La domenica, passata l’oretta buona per santificare le feste, ci si inoltrava nella campagna romana, distante pochi chilometri. La cicoria, gli asparagi, persino more e lamponi. Nessuno pareva reclamare nulla; prati e campi non possedevano staccionate; era sconosciuto l’uso di cartelli di divieto. Vigeva, insomma, una sorta di ius secolare per cui proprietari e latifondisti permettevano la raccolta dei frutti spontanei della terra, senza pretendere alcunché, così come, sin dall’Alto Medioevo, il signore o il vescovo concedevano ramaglie, ghiande e piccola selvaggina per la sussistenza di contadini e poveri cristi vagabondi.
Si camminava
per ore, a scendere e risalire minuscole forre; pranzi e merende improvvisati
prolungavano tali diporti sino al tramonto quando l’azzurro si insinuava lento
nelle pieghe delle cose: di ogni cosa. L’azzurro che fece gioire Dante nel
primo canto del Purgatorio e ispirò parte della teoria dei colori degli
Impressionisti; azzurro, lapislazzulo, tessere apparentemente trascurabili, ma
decisive, d’una mirabile immagine musiva.
Spesso, su qualche collinetta, dopo il taglio del fieno o le arature, il profondo della terra, umido e ricco di ciò che fummo, ridonava alcune pietruzze: azzurre, rosse, grigie, ocra. Una villa suburbana era, forse, nei pressi, sbriciolata dall’imperio del tempo: frantumaglie di marmo, mosaici, particole di capitelli e stele funerarie. Si viveva, noi ignoranti, ancora a contatto con un passato che donava senso. D’altra parte i Fabius, i Valerius, le Cornelia o i Basilide eravamo noi.
Si tornava, al tramonto, con ciuffi d’asparagi selvatici, riuniti in fascette: asparagi selvatici, dai lunghi gambi e le teste dolcemente reclini. Il sole allagava l’orizzonte, senza calore, eppure vivo e compagno. Il moto degli astri sanciva azioni e sentimenti riconosciuti eterni poiché all’eternità d’essi ci si affidava, inconsapevoli: il cuore batteva all’unisono con tale battere e levare - una pulsione talmente naturale da non essere mai interrogata. La musica delle sfere celesti agiva presso di noi.
In quei momenti nacque in me il fascino schiacciante del passato. Dapprima insondabile, poi chiarissimo nel suo svolgersi interiore. Ogni viaggiatore, italiano o straniero, sorpreso nelle campagne brulle del suburbio romano, ebbe ad avvertire tale Stimmung; un molcere del cuore, una lusinga inspiegabile dei sensi, e un grato e soave balsamo agli affanni del vivere. John Ruskin annotò: “Forse sulla terra non c’è spettacolo più solenne della solitaria vastità della campagna di Roma alle prime luci della sera”. Lo struggimento dell’uomo nell’infinito, in quei momenti, coincideva con l’ansia di dissolvimento nella divinità simbolizzata dalla grandiosità dell’astro che cadeva a occidente, terra dell’oscurità. E questa commozione fortissima veniva raddoppiata dalla solitudine della campagna, in cui vivevano i ruderi degli imperi passati: a esacerbare ancor più quel senso di finitezza, assieme dolce e tragico, dell’uomo, solo di fronte a Dio, alla Natura imperiosa, al trascorrere del tempo inclemente e al cospetto della Morte, onnipotente, ancella della Divinità. E la tragedia era dolce, poiché faceva giustizia di tutto, con gesto equanime, a livellare poveri e potenti, a riconciliare sé stessi con le cose della gloria, imprigionando felicemente ognuno in una pantomima senza fine, inscalfibile, mitica. La durata e la giustizia di nascite e morti, santificate da Dio, risarciva della brevità e del dolore. Si accettava tutto questo, a capo chino, senza arroganza.
La luce della sera rischiarava i rivi, lacerti di casali, ruderi, cippi funerari. Allora non capivo questo stringersi commosso dell’animo. Ora, invece, so, con certezza, l’origine di tale perturbante malia: quella dell‘assenza.
Spesso, su qualche collinetta, dopo il taglio del fieno o le arature, il profondo della terra, umido e ricco di ciò che fummo, ridonava alcune pietruzze: azzurre, rosse, grigie, ocra. Una villa suburbana era, forse, nei pressi, sbriciolata dall’imperio del tempo: frantumaglie di marmo, mosaici, particole di capitelli e stele funerarie. Si viveva, noi ignoranti, ancora a contatto con un passato che donava senso. D’altra parte i Fabius, i Valerius, le Cornelia o i Basilide eravamo noi.
Si tornava, al tramonto, con ciuffi d’asparagi selvatici, riuniti in fascette: asparagi selvatici, dai lunghi gambi e le teste dolcemente reclini. Il sole allagava l’orizzonte, senza calore, eppure vivo e compagno. Il moto degli astri sanciva azioni e sentimenti riconosciuti eterni poiché all’eternità d’essi ci si affidava, inconsapevoli: il cuore batteva all’unisono con tale battere e levare - una pulsione talmente naturale da non essere mai interrogata. La musica delle sfere celesti agiva presso di noi.
In quei momenti nacque in me il fascino schiacciante del passato. Dapprima insondabile, poi chiarissimo nel suo svolgersi interiore. Ogni viaggiatore, italiano o straniero, sorpreso nelle campagne brulle del suburbio romano, ebbe ad avvertire tale Stimmung; un molcere del cuore, una lusinga inspiegabile dei sensi, e un grato e soave balsamo agli affanni del vivere. John Ruskin annotò: “Forse sulla terra non c’è spettacolo più solenne della solitaria vastità della campagna di Roma alle prime luci della sera”. Lo struggimento dell’uomo nell’infinito, in quei momenti, coincideva con l’ansia di dissolvimento nella divinità simbolizzata dalla grandiosità dell’astro che cadeva a occidente, terra dell’oscurità. E questa commozione fortissima veniva raddoppiata dalla solitudine della campagna, in cui vivevano i ruderi degli imperi passati: a esacerbare ancor più quel senso di finitezza, assieme dolce e tragico, dell’uomo, solo di fronte a Dio, alla Natura imperiosa, al trascorrere del tempo inclemente e al cospetto della Morte, onnipotente, ancella della Divinità. E la tragedia era dolce, poiché faceva giustizia di tutto, con gesto equanime, a livellare poveri e potenti, a riconciliare sé stessi con le cose della gloria, imprigionando felicemente ognuno in una pantomima senza fine, inscalfibile, mitica. La durata e la giustizia di nascite e morti, santificate da Dio, risarciva della brevità e del dolore. Si accettava tutto questo, a capo chino, senza arroganza.
La luce della sera rischiarava i rivi, lacerti di casali, ruderi, cippi funerari. Allora non capivo questo stringersi commosso dell’animo. Ora, invece, so, con certezza, l’origine di tale perturbante malia: quella dell‘assenza.
San Pietro,
Sant'Ivo alla Sapienza, l'Eur fascista, Coppedé, l'apparizione del Colosseo dal
Colle Oppio o dai Fori Imperiali sono presenze totali, irrefutabili, che
muovono all'ammirazione incontrovertibile.
Le Terme di Caracalla, il Palatino, Ostia antica, con le rovine imponenti e mute, inducono già a un rispettoso silenzio, a un disagio spirituale che si fa lentamente metafisica.
Le Terme di Caracalla, il Palatino, Ostia antica, con le rovine imponenti e mute, inducono già a un rispettoso silenzio, a un disagio spirituale che si fa lentamente metafisica.
E però, ancora più
profondo, v'è il fascino dell'assenza.
La campagna romana, quella vasta e inesauribile nei dintorni della città, la riassume potentemente. Le piane apparentemente deserte, brevemente interrotte da muriccioli sbriciolati di antiche villae; ponticelli nascosti fra la vegetazione; improvvise, stagliate contro l'inalterabile azzuro del cielo, le residue e immani arcuazioni di un acquedotto: l'assenza, allora, testimonia d‘una grandiosa presenza, quasi del tutto dileguata. Qui la bellezza è solo intuita e, perciò, rimpianta.
Questi reperti, queste strazianti rovine del passato, che io amo profondamente, invitano perciò alla riflessione più alta ovvero all’irruzione senza sconti della tragedia umana. Una singola pietra, pur reietta, è parte del lascito d’un mandala sacro che il tempo, o un dio sapiente, s’incarica di devastare definitivamente per ricordarci la totale vanità dell’esistenza.
Le tessere dei mosaici le ho ancora qui con me. Quando ancora avevo voglia di vivere, e qualche speranza, volevo farne collane o braccialetti da regalare alle pargole, pensate un po'.
La campagna romana, quella vasta e inesauribile nei dintorni della città, la riassume potentemente. Le piane apparentemente deserte, brevemente interrotte da muriccioli sbriciolati di antiche villae; ponticelli nascosti fra la vegetazione; improvvise, stagliate contro l'inalterabile azzuro del cielo, le residue e immani arcuazioni di un acquedotto: l'assenza, allora, testimonia d‘una grandiosa presenza, quasi del tutto dileguata. Qui la bellezza è solo intuita e, perciò, rimpianta.
Questi reperti, queste strazianti rovine del passato, che io amo profondamente, invitano perciò alla riflessione più alta ovvero all’irruzione senza sconti della tragedia umana. Una singola pietra, pur reietta, è parte del lascito d’un mandala sacro che il tempo, o un dio sapiente, s’incarica di devastare definitivamente per ricordarci la totale vanità dell’esistenza.
Le tessere dei mosaici le ho ancora qui con me. Quando ancora avevo voglia di vivere, e qualche speranza, volevo farne collane o braccialetti da regalare alle pargole, pensate un po'.
Ero pazzo, con
tutta evidenza - pazzo di speranza.
Si è soli,
definitivamente.
Stanco di vivere nel paese nativo
RispondiEliminanella nostalgia dei campi di grano,
abbandonerò la capanna mia
e vivrò vagabondando, ladro.
Andrò per i riccioli bianchi del giorno
a cercare un misero asilo
e l’amico più caro sul suo sperone
affilerà il pugnale contro di me
Sergej Esenin, Stanco di vivere
Se l'Italia non fosse ora ridotta all'odierno liquame amorfo, la forte emozione provata nella lettura di questo racconto non sarebbe stata possibile.
RispondiEliminaIo sono di classe '67, penso di essere un suo coetaneo, in ogni caso mi sento anch'io "uno degli ultimi nell'ultima generazione", giacché , nonostante sia a mio agio nell'utilizzo di calcolatori elettronici e chincaglierie digitali varie, provengo dal mondo di prima: "l'analogico". Ho ricordi che nessuno dei nati dopo di me ha, per esempio a tavola nel 1973 quasi a fine cena mio padre che dice "Federico vai in sala ad accendere la televisione, così si scalda, che oggi è lunedì e c'è il film (sempre Jerry Lewis e Dean Martin) sul primo".
Musicassette, dischi in vinile, gettoni telefonici, forare marmitte e truccare ciclomotori....un flipper alla "Casa del Popolo" (PCI), un ping pong al "Circolo dei Repubblicani (PRI), un calcino dai Salesiani (DC),un mondo felice con forti identità: ecco i ricordi dell'Italia povera ma fiera e tutto sommato unità nelle diversità, appunto: un POPOLO.
Poi l'inizio della fine con l'avvento del digitale nei primi anni 80, il CD e mia nonna spaventata perché aveva visto, per la prima volta, un negro mentre andava a fare la spesa al mercato.
cordialmente
un fedele lettore
Purtroppo è così.
EliminaIl rischio di queste opinioni, le mie e le tue, è di apparire dei poveri coglioni. Non per questo sono meno vero, però.
Beh io sono del 78 e abitando allora come ora nella campagna romana di cui si parla questo "mondo antico" lo ricordo benissimo e la digitalizzazione è arrivata ben dopo i primi anni 80, forse si cominciava ad intravedere qualcosa nei primi 90 ma era ancora una tecnologia buona, di quella che arrivava ancora dopo i sogni e i desideri non li anticipava
EliminaVa beh Alceste, cosa si può dire, leggere questo scritto è come guardare un tramonto nelle tue campagne romane...bellissimo...potente...definitivo.
RispondiEliminaScritto meraviglioso.
RispondiEliminaAdriano.
Caro Alceste son nato il 1958, è mi riconosco assai nel quadro da te dipinto. Il declino dell'Italia è nato quando alcuni connazionali l'hanno venduta allo straniero, ricavandoci soldi e carriere. Purtroppo è pure colpa nostra, distratti da altro.
RispondiEliminaA parte la poesia, i meno avveduti potrebbero darti semplicemente del "nostalgico", però anche loro devono arrendersi all'evidenza: in quella vita c'era meno menzogna.
RispondiElimina"apparire dei poveri coglioni" ma a chi?
RispondiEliminaA dei sub-umani?
E allora?
E' da tanto tempo che non mi importa affatto il giudizio degli altri.
Viviamo tempi oscuri, per me è meglio viverli come "l'ultimo dei mohicani" che da tifoso di calcio e\o sub-umano qualsiasi.
E' una questione di dignità.
C'è chi ce l'ha e chi no. I no sono il 99.99%?
"Me ne frego".
cordialmente
Un affezionato lettore
Eh, sì! Del giudizio degli altri…che m'importa?
EliminaSono del 1954 e mi ricordo, avrò avuto otto, nove anni, la mia vacanza a Senigallia dove i miei affittavano una casa vicino alla ferrovia. Una sera andammo in un balera, papà faceva a turno per far ballare tutte le sue donne: io, mamma e una mia cugina più grande. Ho nella mente la mia scena clou della serata. Mia madre era seduta ad un tavolino, papà e mia cugina erano in pista sulle note de Il mondo di Jimmy Fontana ed io ero lì seduta in un'altalena che mi godevo quel momento, incantata e felice, estasiata da quella musica. Ogni volta che mi capita di riascoltare quel brano piango per tutto quello che non c'è più - sono morti tutti - e per quello che non siamo più. Ieri, sono umbra, ternana per la precisione, sono andata ad ascoltare alcuni candidati alle elezioni regionali, ma solo ed esclusivamente perché c'era tra gli altri una giovane candidata per il fronte sovranista italiano che volevo ascoltare, è stata una cosa deprimente, non per la ragazza del fronte sovranista, ma per gli altri. Si è parlato dell'associazionismo e della cooperazione, ma tra tutti i problemi che la nostra regione vive la maggioranza dei candidati ne ha rilevato solo uno: vogliono togliere la legge che la regione Umbria ha fatto contro l'omofobia e lì tutti a stracciarsi le vesti e a difendere questo atto di modernità che a detta dei presenti non fa altro che seguire i dettami della nostra Costituzione. Legge che si porta dietro l'educazione sessuale che questi poveri bambini dovranno subire con le magnifiche teorie gender del caso. Penso che la nostra civiltà sia già scomparsa e neanche ce ne siamo accorti.
RispondiEliminaGentile Alceste, grazie per questo bellissimo racconto.
RispondiEliminaMolte cose emozionanti, tra le tante il richiamo all'attitudine così vitale e sviluppata già da bambini a riparare e riusare vecchie cose tra cui bici e moto, spesso catorci riutilizzati.
Ho tuttora vivissimo il ricordo di mio nonno che ripara davanti a me una camera d'aria di bicicletta. Seduto sul suo sgabello preferito sotto il portico con bacinella d'acqua, carta vetrata e mastice. Da bimbetto mediamente sveglio, o mediamente tonto, non ebbi a chiedere nessuna spiegazione data l'evidenza pacata dei gesti.
Nella cucina di quella casa vicino alla stufa a gas c'era fissata da un chiodino una piccola scatolina verde. Serviva a conservare i fiammiferi giù usati ma ancora utili per accendere un fornello se ce n'era un altro già acceso.
In effetti siamo ormai gli ultimi.
Un giorno le tue bimbe con quelle tessere ci comporranno l'immagine del tuo viso.
RispondiEliminahttps://youtu.be/2AOWWTilu6Q
Il controcazzari
Caro Alceste...la bacinella con cui ci lavavamo tutti!La nostra era gialla stinta,pensavo di essere l'unico e quasi me ne vergognavo tanto da non averlo mai raccontato e adesso lo scrivo in un blog!Quella bacinella era a casa dei nonni che andavamo a trovare d'estate,ha resistito fino al 91 anno in cui decisero di fare il bagno nuovo.Mio nonno con pochi denti masticava come poteva,non si fece mai la dentiera per dare i soldi ai figli e nipoti.
RispondiEliminaChe tenerezza tuo zio Piero al ristorante!grazie per questa pagina che trasuda amore.
Eh no!caro controcazzari!cosi non vale...la scena finale di nuovo cinema paradiso mi porta lacrime calde,mi porta assenza.
RispondiEliminaGrazie.
Non passa giorno che non rimpianga il fatto che l’Italia nel ‘45 non sia diventata una repubblica sovietica. A quanto pare pure il mascellone, negli ultimi giorni dell’aprile ‘45 sperava in una vittoria dei comunisti italiani nel dopoguerra. Se fosse successo sarebbe stato sicuramente meglio anche per la Chiesa (meglio scomparire sotto le baionette di Stalin che degradarsi a ong protettrice di froci e negri). Per capire il perchè basta guardare ai paesi dell’est Europa. Oggi i paesi ex sovietici sono gli unici che abbiano conservato senso comunitario, patriottismo e senso religioso. Il loro isolamento dal mondo occidentale li ha salvati. Non si può non invidiarli.
RispondiEliminaAnche a casa mia si fa ancora la scarpetta (non solo nel piatto ma anche nella padella in cui la pasta è condita) e a fine pranzo i piatti e le stoviglie si lavano rigorosamente con l’acqua di cottura della pasta.
Caro Alceste,
RispondiEliminaammiro il coraggio di mettere a nudo pensieri e biografia in maniera cosi' sincera. Appena ho visto la foto di classe ho pensato...ohh finalmente vediamo Alceste, tanto si capira' subito quale e', sara' l'unico bimbo che non sorride nella foto. E cosi' ora possiamo darti uno o due o tre-quattro-cinque volti.
Ho avuto meta' famiglia inurbata e cittadina (paesana in realta') da generazioni, l'altra meta' simile alla tua, ex contadina. I ricordi piu' belli sono quelli di mia nonna ex-con, con la quale passavo piu' tempo che con i miei, giocando a carte mentre guardavamo la ruota della fortuna, divertendoci a indovinare le frasi prima dei concorrenti. La sua frugalita' era prodigiosa. Sotto al lavabo della cucina teneva un secchio perche' l'acqua che scorreva non andava mai dispersa ma raccolta. Il secchio serviva per poi annaffiare le piante. Accadeva spesso che nel lavaggio di frutta e verdura dei semi cadevano nell'acqua; i vasi di fiori annaffiati divenivano cosi' orticelli bonsai molto utili. Dato che era ghiotta di pomodori ripieni (pan grattato, aglio e prezzemolo macinati), i pomodori erano onnipresenti, tra i gerani, accanto al rosmarino...a volte riuscivano a soppiantare del tutto la pianta autoctona. Quando nascevano altre specie vegetali commestibili tendeva a trapiantarle in luoghi piu' idonei. Quando le portavo la spesa fatta dal macellaio, che all'epoca avvolgeva le fettine solo con diversi strati di carta sottile, ci dedicavamo al rituale dello sfogliare l'involucro di carne e ritagliare gli strati di carta piu' superficiali, lindi e come nuovi, in rettangoli uguali. Quella era la sua carta igienica. Pero' acquistava anche la carta igienica moderna, riservata agli ospiti. Io ero libera di scegliere quale carta usare, se quella dell'Antico Ordine o quella del Nuovo, ed ero sempre combattuta tra il considerarmi un'ospite di passaggio o parte integrante di quell'ordine antico. Il dubbio mi passava quando andavo a sguazzare tra i suoi bauli o il suo como': i camei, le collane, poi i merletti all'uncinetto (i "colletti" di pizzo li portavo intorno al collo sopra al grembiule di scuola) e le sottogonne col pizzo che trovavo! Roba fatta da lei, spesso appartenuta a mia madre da piccola. Arraffavo tutto e facevo il riciclo, la domenica che si stava con i parenti mettevo su tutto quello che avevo arraffato. Mi chiamavano la zingarella per quante collane, spille e sottogonne portavo, piu' che altro sembravo un albero di Natale. Un anno per un carnevale sfruttai gli addobbi faticosamente accumulati e inventai la maschera da zingarella, che ebbe grande successo tra le compagne invidiose...
Ora vai a fare queste collanine di tessere sacre. Mica pretenderai che le figlie cresciute le apprezzino ora! Le apprezzeranno quando ne avranno bisogno, ogni tessera sara' come le briciole di pane che aiutarono pollicino a tornare a casa.
Un caro saluto,
Ise
Ormai non riesco più a leggere Alceste senza provare un sentimento che varia tra l'ammirazione e il dolore. Complimenti doverosi per il racconto di un'Italia scomparsa per sempre, con la solita scrittura alta e toccante. La punta di malinconia che pervade lo scritto fino alla denuncia finale però mi porta a pensare che la battaglia è oramai irrimediabilmente perduta,e l'unica nostra speranza è solamente quella di cercare di tramandare un passato irripetibile . A questo proposito, uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia è legato alla prima volta che vidi un mosaico appena scoperto sotto pochi metri d'acqua accanto alla più grande città punica della Sardegna meridionale. Pochi secondi di apnea, il brivido di ritrovarsi accanto a una zona militare senza nessun controllo presumo nella consapevolezza da parte della Marina di non disturbare le incursioni di famiglie numerose nella gita domenicale per scampare al caldo estivo accanto ai segnali invalicabili,la maschera prestata dal cugino più grande e quei colori che sembravano segnali luminosi sotto l'acqua cristallina. È ciò che mi colpì fu la leggenda tramandata di una città ancora più grande però completamente sommersa mai ritrovata, come un'Atlantide dietro casa , travolta da un'onda anomala di maremoto. Si rimaneva spesso a fissare l'orizzonte cercando di intravedere gli indizi dell'avvicinarsi del cataclisma! Oggi la stessa spiaggia è praticamente infrequentabile nell'alta stagione, spesso è impossibile trovare un metro libero per stendere l'asciugamano, ogni piccola pietra è stata spostata e ricostruita nel museo archeologico o venduta dai tombaroli ai ricchi possidenti locali. Non si navigava nell'oro e come dici giustamente l'appartenenza a una classe sociale si notava anche dalla fisiognomica, ma si era un popolo.
RispondiEliminaAntonio
Caro Alceste,
RispondiEliminaè una lunga fitta al cuore questo tuo scritto!
E la mente , delusa e colpita , si confonde ...
Luisa -1950-
Chi sia stato il primo, non
RispondiEliminaè certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.
La mia
casa è la sola
abitata.
Son vecchio
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io bada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
Aspetto
e ascolto.
(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
del tempo, forse.
Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciare me stesso uscire
da me stesso come,
dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.
G. Caproni
[..]e ancor più maledetti i giovani che vogliono il progresso[..]
RispondiEliminaPer passare dal particolare dello scritto ai grandi Sistemi, il senso della Storia viene da lontano,di cui il progressismo moderno e contemporaneo ne ha fatto e ne fa grande uso,essendo l'uomo legittimato a fare del mondo il suo oggetto è autorizzato a trasformarlo.Sul come ne è data qui esauriente descrizione, giocoforza condivisibile.
Per quanto mi riguarda, essendo geriatricamente più decorato rispetto ad alcuni lettori, sono cresciuto con l'accompagnamento di basso continuo "prima il dovere poi il piacere" e "l'erba voglio non cresce neppure nel giardino del re", "si spegne la luce quando si lascia una camera", ecc.
Devo confessare però che nei rari consessi tra amici,conoscenti e avventizi tutti in vettura verso il capolinea, male sopporto i soggetti rancorosi.
un saluto partecipe
leonardo
Che dolce nostalgia.
RispondiEliminaGrazie,
per un attimo un soffio amico ha riattizzato la fiammella della mia anima.
Mi disgustano profondamente " Assolutamente si e il corrispettivo assolutamente no" - Location - Step - il nuovo modo di uscire dal parcheggio all'improvviso senza mettere la freccia - quelli che in autostrada entrano e/o sorpassano senza mai segnalare, quelli che rimangono, imperterriti idioti, per tutto il viaggio nella corsia di mezzo - chi porta in giro cani feroci senza museruola - e milioni di altre cose ancora...
RispondiEliminae SMART, mi ero dimenticato smart
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