13 marzo 2022

Siamo sempre in ritardo col passato [Il Poliscriba]

Masters of puppets

Il Poliscriba

"Portare il tabarro fra persone che indossano piumini, bere Tocai Rosso fra persone che bevono Cabernet Sauvignon, mangiare spongata fra persone che mangiano panettone, pregare la Madonna fra persone che vanno alla Conad la domenica, gustare spalla cruda fra persone che ordinano culatello, visitare cimiteri fra persone che dicono 'weekend', ipotizzare un giro a Bagnacavallo fra persone che vanno a Barcellona, ammirare Marta Sesana fra persone che stimano Cézanne … Senza fare proselitismo, senza la speranza di convertire: una pura, tranquilla, inutile, bellissima testimonianza".

Camillo Langone


Il saggio sprofondato nelle sabbie immobili e remote, invitava a non confondere il dito con la luna.
Mi aggiro per la città dolente, sottovoce invoco il Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio e gli chiedo di aver pietà di me, secondo l’esicasmo labiale cercato e praticato dal pellegrino russo.
Nei carmeli d’oggi, le celle, per quanto ancora vagamente spartane, non presentano più al forestiero, quanto al cenobita, lo scrittoio adorno del teschio, delle scritture e della candela.
In uno dei monasteri dell’Athos si conserva una stanza dalle dimensioni modeste, denominata dai shimnik la Sala della Filosofia.
Al suo ingresso, si viene accolti da quattro pareti alte più di cinque metri interamente foderate di teschi, appartenuti ai monaci  che fecero del sacro monte dimora celeste già in sede terrestre.
La Filocalia mi allieta in questa mia continua sostituzione del presente quantomeccanico con azioni inversamente proporzionali all’utile e al dilettevole.
L’incessante orazione che sfugge alle labbra e per opera misteriosa tracima nel cuore a guisa di un lieve piacevole dolore, non è mantra, ma passaggio attraverso la Croce, la Passione e non è semplice reiterazione.
Vado a ritroso nel tempo, varcando porte, sale della filosofia nelle quali l’odore di morte, inspiegabilmente profuma di gigli, come dal sepolcro di S. Antonio da Padova, l’incorrotto, ne colsi inaspettata la fragranza, un ventennio addietro.
Il marcio afrore del nulla non può esaltarmi, l’estetica del divino, sì.
Piuttosto mi ferì il sentore stranamente dolciastro della salma di mio padre, ormai giallastra nell’epidermide, rinsecchita in una posa contorta, plasmata dagli ultimi atroci dolori collassati nell’ultimo desiderato respiro, addolcito dalle preghiere di una suora sudamericana che mi sostituì dopo una giornata trascorsa ad assistere i deliri finali d’ un’anima povera e disperata in cerca di perdono e di Dio.

Sono uno dei pochi che ha ancora avuto l’onore di veder spirare qualcuno e ne parlo liberamente, o in modo liberatorio, quando le pupille di interlocutori occasionali roteano, glissano sul macabro, il tragico naturale, per riorientarsi, allinearsi al vivere morente, sfondo livido per i loro selfie.
La guerra, per chi non ci finisce nel mezzo, per chi non spara o è sotto tiro, è un serial televisivo giunto ormai alla sua ennesima stagione, al più una storia di carta, una pagina di wikipedia, un racconto famigliare i cui cantori sono in via d’estinzione, uno straparlare di mitomani frustrati.
Nessuna differenza è ormai ravvisabile tra questo penoso spettacolo, un videogioco o un lungometraggio, perché l’indifferenziato è colui che se ne nutre dal divano, ingurgitando una cena thai ordinata con Glovo.
Nessuna differenza tra i volti dei potenti e i sudditi, sono entrambi imbecilli.
Una statua di cera del Madame Toussauds potrebbe presentarsi a una conferenza stampa al posto di chiunque appartenga all’élites e nessuno se ne accorgerebbe.
Mentre fuori infuriano le scaramucce e volano insulti digitali tra improvvisati esperti di geopolitica, già provetti virologi e tuttologi dozzinali, mi allontano dalla città per visitare monasteri montani prossimi alla chiusura per tracollo finale delle vocazioni.
Le ultime rocche spirituali incombono su profonde vallate; colpite senza pietà dai dardi del progressismo, giacciono in rovina, puntellate faticosamente da riti e laudi a suggello di un’epoca in procinto di svanire dietro una cortina di derisione.
Ospite dei vetusti parlatoi davanti alle grate, dialogo  con spose di Cristo troppo avanti negli anni, sfinite da un’attualità che trovano tremenda, ora minacciata da un’escatologia sanitaria, bellica e sanzionataria affine alle peggiori profezie apocalittiche.
Mi confido con Madre Flor, carmelitana, colombiana.
Metto in chiaro subito che per me conta solo la tradizione.
Annuisce.
Siamo d’accordo entrambi che non è possibile attenersi alla giacobina enciclica ‘Fratelli tutti’ e sostituire Santa Teresa de Jesus con Carola Rackete o le processioni con i barconi che fanno dell’ecclesia una ONG e i cattolici, attivisti per i diritti umani e censori ferrei dell’immoralità sacerdotale, giudici wokenisti e sbianchettatori culturali di venti secoli, ormai considerati, se non tutti bui, certamente tetri.
Lei, ex missionaria in Africa, dovette fuggire, vittima di violenze inclusive, avvelenamenti e riti voodoo.
Parliamo di persecuzioni interne ed esterne alla Chiesa; inevitabile, il discorrere lambisce quel 17 luglio 1794, dove a Parigi si consumò, nella piazza del trono rovesciato,  il martirio di sedici carmelitane indomite che non cedettero all’abiura imposta agli ordini monastici dal furore laico del Comitato di salute pubblica.
Su 1600 tra monaci e monache francesi, meno di dieci abbandonarono la vita conventuale. Una diaspora coercitiva li condusse verso i confratelli e le consorelle sparsi tra l’Inghilterra e l’Europa.
Altra fede, altra tempra.
Nel Venis Creator Spiritus, che le martiri cantarono genuflesse dinanzi al patibolo, una strofa su tutte m’incoraggia a resistere all’assedio del mondo, intento ad invadere e conquistare il mio castello interiore, cercando d’impormi assurde fedeltà partigiane:

Consolátor óptime,
dulcis hospes ánimæ,
dulce refrigérium


Una alla volta, sotto la ghigliottina, intonarono il Laudate Dominum, non sentendosi vittime, ma vincitrici, conquistando il reverente silenzio di una piazza avvezza al sangue che, generalmente, accompagnava con goliardiche e volgari esternazioni l’esecuzioni di innocenti e colpevoli, ormai indistinguibili nella foga giustizialista del Terrore.  
Nel combattimento spirituale, al quale non mi sottraggo, non ho alleati terreni e le sole armi in mio possesso sono invisibili, la stealth technology della fede del credere e del combattere l’Arcinemico, la dossologia trinitaria contro il primato arrogante del mio misero e monotono io.
I boschi intorno ai carmeli sono in stato di abbandono.
I fanatici ambientalisti impediscono la pulizia degli accumuli di materia secca, pronta a divampare in incendi o ad essere trascinata rovinosamente a valle da furie temporalesche obbedienti a principi di realtà accantonati da utopici maniaco compulsivi.  
In accordo ai miei passi tra le foglie, leggo le Confessioni di Sant’Agostino inchiostrate su di un fruscio di pagine come parole in un giorno di deserto.
Si conferma in me, quello che sospettavo: i maestri della luce formano anche i discepoli delle tenebre.
Aleister Crowley, sensibile alle parole “Ama e fa ciò che vuoi” del santo di origine Amaziɣ (che significa uomo libero), berbero o barbaro per i romani, Dottore della Grazia per la Chiesa, rovescia per spregio l’amore in legge, rivolta il cuore e ne fa cervello, dicendo: “Fai ciò che vuoi, sarà l’unica legge”.
Assordante è la guerra, il vaniloquio umano e il silenzio di Dio.

3 commenti :

  1. Mi piacerebbe se il prossimo scritto del Poliscriba fosse interamente incentrato su questa affermazione: per me conta solo la tradizione.
    Cosa significa? Cosa significa davvero ritenere che conti solo la tradizione? Perché dovrebbe contare solo la tradizione? Com'è e come si sviluppa nel tempo una società per cui la tradizione viene prima di tutto? Non ho letto il libro di Zolla intitolato Che cos'è la tradizione. Mahler, in un guscio di noce, disse che "la tradizione è custodia del fuoco, non adorazione delle ceneri". Spieghiamoci. Anche con esempi pratici, parole semplici, senza indulgere troppo alla poesia, o affidandosi a quella che svela invece di velare.

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    1. La Tradizione (quella con la T maiuscola) non è una tradizione in particolare, ma piuttosto è tutto ciò che esiste da sempre e sempre ci sarà, l'essenza di ciò che chiamano filosofia perenne. Ma cosa è questa essenza? Nella mia umile opinione, io credo che possiamo girarci intorno quanto ci pare, ma alla fine arriveremo sempre ad un punto: il rapporto tra uomo e dio, l'unico legame che permette all'essere umano di estrarlo fuori dalla socieà/storia. Una società tradizionale è sempre strutturata in modo da sostenere tale legame. E questo perché ho l'assoluta convinzione che attraverso le pratiche religiose, l'uomo si evolva e si avvicini di più alla sua natura, si completi. Oggi purtroppo vogliono distruggere la psicologia umana, è addirittura un reato pensare fuori dal coro. Ho letto alcuni libri a riguardo, soprattutto Evola potrebbe interessarla.

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