18 marzo 2022

Apologia dell’odio [B. E.]


 
Ricevo e ho il piacere di pubblicare una riflessione sull'odio e la guerra desunta dagli scritti di Giacomo Leopardi.
 
B.E.

L’asfissiante retorica culturale imperante oggi in Italia si impernia essenzialmente sui così detti “buoni sentimenti”. Una meschina morale manichea che vede la società italiana divisa in due blocchi: da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. I buoni, che sono votati anima e corpo al trionfo dell’amore, del bene, della giustizia e della libertà. Illuminati da una vera e propria superiorità culturale (e sentendo alcuni discorsi perfino antropologica, se non razzista), i buoni si fanno carico del peso della civiltà ed indirizzano la vita della società verso le “magnifiche sorti e progressive”. Di fronte ad essi stanno i cattivi: ignoranti, bigotti, razzisti, stupidi e privi del senso di libertà. La lotta del Bene ha come bersaglio principale non un’ideologia o un partito, ma un sentimento: l’Odio. L’Odio è ritenuto, così, la fonte di ogni opposizione al progresso della società verso il Bene, tant’è vero che è stato criminalizzato anche dal punto di vista giuridico (concependo i così detti “crimini di odio”). Ma cos’è l’Odio? È possibile e giusto eliminarlo dalla società? O piuttosto non è un elemento essenziale della società stessa?

Questo scritto vuole essere un pratico discorso volto al riposizionamento dell’Odio nell’immutabile ordine naturale della vita. Le righe che seguono non sono altro che riflessioni sui pensieri esposti dal Leopardi nel suo diario filosofico, fra la fine di marzo e l’inizio di Aprile del 1821.

Il primo concetto che il Recanatese affronta, riguarda la natura dell’animo umano e precisamente quale sia lo scopo, il fine che spinge un uomo all’azione, alla vita. Al contrario degli illuministi, Leopardi non crede che l’uomo sia naturalmente e spontaneamente buono, anzi asserisce che l’unico sentimento che lo domina sempre, durante tutta la sua esistenza, è l’amore egoistico di se stesso. Questo amore di sé determina la sua volontà di primeggiare e soverchiare i suoi simili, mosso da cupidigia ed invidia. Tale volontà di supremazia determina nell’uomo, che ama se stesso, l’odio per il suo simile. Questo impulso egoistico è puramente antisociale, impedendo la formazione di relazioni umane stabili e dunque la nascita della società stessa. Se l’uomo partecipa alla società e si interessa del suo bene gli è che considera tale adesione come maggiormente benefica al suo interesse personale. A questo punto il Leopardi pone in risalto quella che considera la differenza fra le società antiche e quelle moderne. Quelle antiche le considera “larghe”, nel senso che non vincolavano completamente la vita dell’uomo, che poteva determinare autonomamente la propria esistenza. La società moderna, invece, viene definita “ristretta” poiché la vita dell’uomo è determinata ed influenzata fin nell’intimo dagli stati, dai governi e dai vincoli morali e politici. Questo modello di società si è imposto in tutta Europa, determinando un’uguaglianza fra le stesse società europee, dominate dai vari governi (che per il Leopardi arrivano a formare una vera oligarchia continentale). Tale differenza fra la società moderna e l’antica determina, per il poeta, anche il diverso approccio dell’uomo all’amor di patria. Per Leopardi gli uomini antichi, vivendo in una società meno vincolante, erano animati da un vero patriottismo, che li spingeva a morire per il bene generale (che poi corrispondeva anche con il proprio). Col passare dei secoli e con l’avanzare dell’incivilimento, la società si è “ristretta” ed anche il rapporto degli uomini con la società stessa è radicalmente mutato. L’uomo moderno, nonostante sia influenzato più incisivamente dalla società in cui vive, non prova nessun tipo di amor di patria; anzi la patria stessa non esiste più. La pervasività delle leggi e norme della società moderna hanno portato l’uomo, non solo a perdere il patriottismo (ed a rinnegare la patria stessa), ma finanche ad isolarsi sempre di più, recidendo i suoi legami con l’elemento fondante della società e cioè la famiglia. Totalmente isolato, l’uomo ritorna a coltivare quell’interesse personale egoistico ed antisociale, che fa prevalere la filosofia dell’homo homini lupus sul bene ed interesse collettivo. Perduto l’amor di patria ed il senso di appartenenza alla società, risorge l’amor proprio, l’odio verso il prossimo, il puro egoismo. Successivamente il poeta si lancia in un’analisi storico-sociologica, paragonando in profondità la società moderna con l’antica. Leopardi, innanzitutto, conferma la sua idea che l’amor proprio (ed il conseguente odio per gli altri) è la passione naturale che guida l’uomo durante tutta la sua esistenza ed in ogni epoca storica. Ma la differenza fra le varie società, delle varie epoche storiche, sta appunto nella forma che questo amor proprio egoistico ha preso. Infatti da questo egoismo sorgono sia l’amor di patria, che l’isolamento antisociale; sia l’eroismo, che i vizi dell’uomo. Nelle società “poco ristrette” l’amor proprio viene convertito nell’amor di patria e cioè della società stessa e ciò accade non solo nelle società antiche, ma anche nelle moderne società non civilizzate. Ciò avveniva perché essendo la società composta da pochi individui ed essendo poco invadente, il singolo sentiva coincidere il bene della società stessa con il suo proprio bene particolare. Questo processo di trasformazione dell’amore egoistico in amore per un entità sociale più ampia, non riguarda solo le società, ma anche ogni tipo di associazione sociale (purché non sia eccessivamente estesa e cioè raggruppi pochi individui), come partiti, associazioni, corporazioni, ecc. Così il singolo proietta l’amore per se stesso sull’organizzazione di cui si sente membro attivo. Questa dunque, per Leopardi, è l’origine di ogni tipo di amore sociale, non individualistico, dell’uomo. La formazione dell’amor patrio però (derivante appunto dall’amore per se stesso) non determinava l’estinzione dell’odio, ma solo il suo “allontanamento”. Generato assieme all’amore, l’odio non può dunque essere eliminato e l’uomo integrato nella società, che sente l’amor patrio, proietta il suo odio non contro un altro individuo, ma contro altre società, contro le altre nazioni, diverse dalla propria. In questo modo tutti i sentimenti antisociali, primordiali nell’uomo, quali l’invidia, l’odio e la volontà di supremazia, sono rivolti contro le nazioni straniere. È a questo punto che Leopardi trae le conseguenze dei propri ragionamenti, legando l’amor di patria con l’odio verso gli stranieri e la libertà (individuale e nazionale). Il vero amor di patria, dice il poeta, determina l’insorgere dell’odio verso lo straniero e lì dove gli stranieri non si odiano, la patria non si ama. Il patriottismo per Leopardi non è solo l’indice della coesione della società “ristretta”, ma è soprattutto determinante per la libertà nazionale. Solo le nazioni libere sentono amor di patria e dunque solo le nazioni libere odiano lo straniero. Ecco dunque che l’odio xenofobo diviene per Leopardi il simbolo della libertà nazionale. Le nazioni asservite, invece, non solo non sentono l’amor patrio, ma non sono coese e cioè il singolo non si sente parte di un organismo olistico, ma un semplice individuo il cui unico scopo è soddisfacimento delle proprie pulsioni antisociali, anche a danno degli altri membri della società stessa. L’odio per lo straniero dunque è conseguenza dell’amor patrio e necessario alla libertà nazionale. Questo odio però non è astratto, ma reale e tangibile, dato che ogni individuo di una nazione libera odiava sia le nazioni che i singoli individui stranieri. Lo straniero non solo era odiato, ma anche disprezzato, e costui non poteva accampare nessun tipo di diritto nella società veramente libera con cui si trovava ad essere in contatto. Questo odio di cui parla Leopardi non riguardava singoli strati della società antica, ma tutta intera la società si sentiva presa dall’odio xenofobo. Anzi i propugnatori più intransigenti dell’odio verso lo straniero erano gli “uomini più grandi, colti, ed anche illuminati e filosofi”. Tale sentimento era insegnato ai membri della società libera, dato che veniva considerato assolutamente necessario per la conservazione della libertà, indipendenza e grandezza della patria. Lo straniero non veniva considerato un proprio simile da trattare come i membri della nazione e nei suoi confronti non valevano le leggi della patria. Leopardi a questo punto fa un esempio particolare di questo odio xenofobo irriducibile. Il poeta cita il caso (esemplificativo) del popolo ebreo, che così come è giusto, onesto e generoso verso gli Ebrei, si rivela ingiusto, disonesto e avaro nei confronti degli stranieri. L’odio giudaico verso i non ebrei è di origine religiosa e gli stessi testi sacri permettono, anzi incoraggiano il loro maltrattamento. Inganni, oppressioni, sottomissioni, uccisioni, stermini, furti: tutto è lecito contro i non ebrei (chiamati “goiim”, il cui significato è simile a quello di “barbari” per i greci). Sia chiaro che il Leopardi non scade in una critica antisemita; al contrario, considera il comportamento degli ebrei verso gli stranieri comprensibile e legittimo, così come tali erano i comportamenti delle altre nazioni antiche e libere. Altro esempio di odio xenofobo, Leopardi lo trae dalla letteratura greca e precisamente dalla Ciropedia di Senofonte. Per Leopardi il poeta greco in quest’opera intende fornire l’immagine dell’ottimo sovrano ed infatti Ciro è ritratto come giusto e generoso con i persiani (suoi compatrioti) e feroce e spietato con gli Assiri (essendo stranieri). Il poeta recanatese fa anche l’esempio di Alessandro Magno, che al contrario del Ciro senofonteo mette sullo stesso piano compatrioti e stranieri, arrivando ad accarezzare l’idea di imporre l’assoluta eguaglianza fra macedoni e popoli conquistati. Dopodiché Leopardi cita i Romani e l’evoluzione della loro politica assimilazionista, che reputava un completo fallimento e che già aveva criticato (alla pagina 457). Continuando le sue considerazioni, Leopardi cita altri filosofi antichi, che confermano la sua concezione xenofoba dell’amor patrio e della libertà (fra cui Platone ed Isocrate, che mentre elogiavano e difendevano i greci predicavano l’odio e lo sterminio degli stranieri). Per Leopardi dunque l’amore universale non venne concepito nei tempi antichi, che legavano appunto la libertà nazionale all’odio dello straniero, ma fu anzi il Cristianesimo a diffonderlo a scapito appunto dell’amor di patria. Con la comparsa di questo amore universale e la fine dell’amor patrio, l’uomo tornava ad alimentare quell’odio antisociale ed egoistico, dato che oramai i suoi nemici non erano più gli stranieri, ma i suoi vicini, i suoi concittadini. L’amore della patria dunque diveniva la causa dell’espansionismo militare, dell’imperialismo, a danno delle altre nazioni vicine. Così per il Leopardi i popoli liberi erano di conseguenza i più agguerriti ed i più imperialisti. La guerra in questo modo non era un fatto politico, ma quasi sociale, dato che gli eserciti in lotta nutrivano un odio viscerale ed inesauribile, che trasformava il conflitto in una guerra di sterminio. Per i vinti, dunque, non vi poteva esser scampo e perciò le guerre erano di interesse nazionale e tutti i membri della società si impegnavano fino alla morte per ottenere la vittoria. Così l’indipendenza, la gloria, la grandezza e la libertà della patria si fondavano sull’odio del nemico e sulla sua sottomissione. Il popolo che era veramente libero non poteva non essere tirannico nei suoi rapporti con gli altri popoli, dato che la libertà si mantiene solo con la forza. Dopo aver analizzato la mentalità e la società delle antiche nazioni libere, Leopardi ragiona sulle moderne. Innanzitutto il poeta afferma che il comportamento delle nazioni antiche genera disgusto e disapprovazione in coloro che considerano la vita un bene in sé, a prescindere da come sia spesa. Per prima cosa, Leopardi conferma la sua idea che l’uomo sia animato unicamente dall’amore per se stesso e dal conseguente odio verso gli altri. Scomparso l’amor di patria e svanite le illusioni, l’individuo non si sente più parte della società e di conseguenza non considera più coincidenti il bene sociale ed il bene particolare. Dovendo scegliere, l’uomo decide di soddisfare i propri bisogni personali anche a scapito del bene sociale. Morta la patria, anche l’odio per lo straniero scompare, poiché viene visto come un qualsiasi membro della società. Con la dissoluzione dell’amore patriottico risorge l’egoismo, dato che l’amore universale non può concretizzarsi in un nuovo amore extraindividuale. E l’egoismo si riversa non più contro popoli lontani e nemici, ma contro il concittadino, il vicino, l’amico e financo il parente. La scomparsa dell’amor patrio determina la scomparsa della giustizia, della fede, dell’eroismo e di ogni altra virtù che faceva dell’uomo un essere sociale. Ogni membro della società, essendo in competizione con gli altri, nutre nei loro confronti quell’odio cieco un tempo riservato agli stranieri, portando alla scomparsa dei basilari rapporti umani e sociali. Questa tensione sociale è una vera e propria guerra perenne, un tutti contro tutti che contrappone i cittadini: “Non si odiano, non si opprimono i lontani e gli alieni? ma si odiano, si perseguitano, si sterminano a tutto potere i vicini, gli amici, i parenti; si calpestano i vincoli più sacri; e la guerra essendo fra persone che convivono, non c'è un istante di calma, né di sicurezza per nessuno”. Leopardi considera questo stato di “guerra” sociale continua (determinata dall’egoismo) ben peggiore della guerra vera e propria, militare, che veniva combattuta un tempo: “Ma gl'interessi de' vicini essendo co' nostri in continuo urto, la guerra più terribile è quella che deriva dall'egoismo, e dall'odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero, [892] ma verso il concittadino, il compagno ec.”. Per il poeta recanatese l’amore universale è solo una chimera, essendo l’amor proprio e l’odio dei sentimenti naturali ed ineliminabili nell’uomo. Di conseguenza l’unica cosa da fare è rendere questi sentimenti più acconci che si possa alla vita sociale dell’uomo. Per questo Leopardi crede che la società migliore è quella che riesce ad estendere il più possibile l’amor proprio, (senza esagerare, perché altrimenti l’individuo non lo comprenderebbe più e tornerebbe a chiudersi nell’egoismo), e contemporaneamente ad allontanare il più possibile l’odio (riversandolo non sul vicino, ma sullo straniero). Tale soluzione è proprio quella dell’amor patrio ed odio xenofobo: “La società non può sussistere senz'amor patrio, ed odio degli stranieri”. Per Leopardi, dunque, l’amor patrio e l’odio degli stranieri sono dei beni concreti per la società veramente libera e giusta, dato che permettono la pacifica e civile convivenza degli individui. Solo così l’egoismo (elemento ineliminabile della natura umana) non danneggerà più i vicini, i compatrioti, ma solo gli stranieri, i lontani. Constatando però l’assenza d’amor di patria nella sua epoca contemporanea, il poeta afferma semplicemente che solo nell’antichità è esistita la “vera” società. Ma l’amor patrio non è necessario solo all’esistenza della vera società, ma è inscindibile anche dalla virtù: “Senz'amor patrio non c'è virtù, se non altro, grande, e di grande utilità”. La virtù infatti, per Leopardi, non è altro che l’estensione del bene individuale al bene collettivo. Le azioni volte al soddisfacimento di bisogni personali ed egoistici sono infatti meschine ed inconsistenti, mentre quelle che mirano al bene generale sono alte, splendide, grandiose. La virtù dunque spinge l’uomo a superare se stesso per il bene generale, il bene della società, della patria. Ma il poeta fa notare che queste azioni virtuose, che sacrificano il bene personale per il collettivo, siano anch’esse determinate in realtà dall’egoismo. La virtù però può essere veramente grande solo se determinata dall’amor di patria e non dall’amore per altre associazioni sociali di cui l’individuo fa parte (come partiti, congregazioni o sette), che determinerebbero la frantumazione della società stessa. L’amore dell’uomo dunque non deve essere rivolto ai corpi minori della società, o ad un astratto universalismo, perché nel primo caso determinerebbe la frantumazione della società stessa e nel secondo non potendovisi riconoscere, l’uomo tornerebbe a chiudersi nell’egoismo (producendo quell’ossimoro che Leopardi chiama “egoismo universale”). Ancor più fumoso ed irrealistico, per Leopardi, dell’amore universale è l’amore per tutti gli esseri viventi dei filosofi illuministi, dato che per il poeta recanatese l’egoismo e l’odio sono inscindibili dall’uomo. Solo la patria, l’amor di patria, l’amore nazionale è dunque il fondamento della virtù: “Ma tornando al proposito, la detta società di mezzana grandezza, non è altro che una nazione. Perchè l'amore delle particolari città native è dannoso oggi, come l'amore de' piccoli corpi, non producendo niente di grande, come non dà eccitamento nè premio a virtù grandi; e d'altra parte, staccando l'individuo dalla società nazionale, e dividendo le nazioni in tante parti, tutte intente a superarsi l'una coll'altra, e quindi nemiche scambievoli”. Se nell’antichità la città-stato era in grado di far sorgere le illusioni patriottiche, oggi solo la nazione può adempiere a questo compito e dunque permettere la nascita dell’amor di patria e della società perfetta. Quasi con spirito chiaroveggente, Leopardi ammoniva di non sostituire l’amor di patria con l’amore per organizzazioni sovrannazionali, che non possono coinvolgere intimamente l’individuo e determinano la prevaricazione dell’egoismo sulla virtù: “La patria moderna dev'essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d'interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l'Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtù grande”. Nazione, amor di patria, virtù: per Leopardi è una conseguenza logica. Come dargli torto se oggi non abbiamo nazione, amor di patria e virtù? L’amor di patria è necessario alla vita dell’uomo, è necessario per dar senso alla vita: “Lascio la gran vita che nasce dall'amor patrio, e in proporzione della sua forza, ch'è massima ne' popoli liberi, e che gli antichi godevano mediante questo; e la morte del mondo, sparito che sia l'amor patrio, morte che noi sperimentiamo da gran tempo”. La scomparsa della nazione e dell’amor di patria determina il disinteresse dell’uomo nei confronti della società. La stessa guerra, che in antichità era di sterminio (una lotta accanita per la libertà e la vita), nell’epoca moderna si trasforma in una semplice contesa politica violenta, dove a combattersi non sono i popoli, ma i governi. La vittoria e la sconfitta non determinano dunque un mutamento della vita dei popoli, ma un semplice cambio di governo, come un animale che cambia di padrone. Ciò accade perché il popolo sconfitto (ma non diversamente per il vincitore) non era libero prima della guerra e di conseguenza non lo è neanche dopo, rimanendo così invariato il suo status politico. Non avendo amor di patria, per il popolo sconfitto il cambio di governo e dunque di padrone, è sostanzialmente indifferente: “La sua dipendenza non è nuova se non di nome, perché la sua indipendenza era pur tale. E se ora dipende dallo straniero, lo straniero è per lei tutt'uno che il nazionale; perché la nazione non esisteva neppur prima della conquista; ed ella non amando se stessa, non avendo amor patrio, non odia dunque lo straniero, se non come il nazionale, e come l'uomo odia l'altro uomo. Il diritto delle nazioni [898] è nato dopo che non vi sono state più nazioni”. Se la guerra ha perso la sua ferocia, il popolo ha perso il senso della vita e, divenuto servo del suo governo, combatte quando gli viene ordinato. La guerra antica veniva combattuta per egoismo nazionale, la moderna per egoismo particolare. Ed esattamente come in antichità, è la forza a determinare i rapporti fra i popoli, ma piegata all’interesse del governo e non della nazione. Così il poeta mette in evidenza come la guerra antica andasse almeno a beneficio della nazione vincitrice, mentre nella moderna sono solo i governi ad approfittare delle vittorie; respingendo così l’idea che il cristianesimo abbia migliorato l’esito dei conflitti delle nazioni: “[...] nè il Cristianesimo ha migliorato in ciò il mondo di un punto; colla differenza che allora [le guerre], le esercitavano allora combattevano le nazioni, ora gl'individui, o vogliamo dire i governi; allora per conseguenza i combattenti o gl'ingiusti, erano giusti e virtuosi verso qualcuno, cioè verso i proprii, adesso verso nessuno; allora le nimicizie [899] partorivano le grandi virtù, e l'eroismo in ciascuna nazione, adesso i grandi vizi e la viltà; allora una nazione opprimeva l'altra, adesso tutte sono oppresse, la vinta come la vincitrice; allora serviva il vinto, adesso la servitù è comune a lui col vincitore; allora i vinti erano miseri e schiavi, cosa naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo sono nè più nè meno anche i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda; allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva, adesso chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la move, quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel muoverla, quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche. E i governi oggi tra loro, sono in istato di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le nazioni anticamente”. La scomparsa dell’amor patrio modifica, conseguentemente, anche la partecipazione del popolo alla guerra. Se anticamente le nazioni combattevano per preservare la propria libertà ed accrescere la propria potenza, le guerre moderne si caratterizzano per l’indifferenza del popolo all’esito del conflitto. Di conseguenza gli eserciti non combattono più contro gli stranieri, ma trasformati in strumenti politici del governo, sono disposti a combattere anche contro la loro stessa nazione. Anzi, i soldati, disinteressati delle cause della guerra, arrivano ad odiare più profondamente i propri commilitoni, i propri comandanti, che il nemico stesso, che seppur straniero è uno sconosciuto. Tutto ciò accade perché l’individuo, egoisticamente invidioso, nutre un odio maggiore nei confronti degli uomini che gli sono più prossimi (concittadini, connazionali e financo parenti), che verso gli stranieri sconosciuti: “Perchè oggi gli odi, le invidie, le nimicizie, si esercitano coi vicini, e nulla ordinariamente coi lontani: l'egoismo individuale ci [901] fa nemici di quelli che ci circondano, o che noi conosciamo, ed hanno attenenza con noi; e massime di quelli che battono la nostra stessa carriera, e aspirano allo stesso scopo che noi cerchiamo, e dove vorremmo esser preferiti; di quelli che essendo più elevati di noi, destano per conseguenza l'invidia nostra, e pungono il nostro amor proprio”. Al contrario invece, lo straniero essendo distante e sconosciuto non è visto come una minaccia ai propri interessi personali e perciò si arriva al rovesciamento di quell’ordine morale e civile impostosi nell’antichità: odio del connazionale e amore dello straniero. Così le nazioni serve, che non nutrono amor patrio, sono avvinghiate da una mediocre esterofilia: “[...] ed infatti in un paese dove non regni amor patrio, il forestiero è sempre gradito, e i costumi, i modi ec. ec. tanto suoi, come di qualunque nazione straniera, sono sempre preferiti ai nazionali, ed egli lo è parimente”. Dalla fine dell’evo antico all’evo contemporaneo, finché le nazioni conservarono una reminescenza dell’antica libertà, si rifiutarono di sacrificarsi completamente per gli interessi dei governanti. Le rivolte nazionali obbligavano i governi a mantenere un atteggiamento cauto e moderato nei confronti dei sudditi. La stessa frammentazione (anche se gerarchizzata) del potere politico, impediva ai sovrani di disporre a piacere dei popoli, dunque le campagne militari non potevano essere prolungate eccessivamente ed i popoli rifiutavano la coscrizione di massa. Il processo di incivilimento, corrompendo l’individuo, ha determinato la scomparsa delle nazioni e dell’amor patrio e di conseguenza i sovrani si sono ritrovati a dominare totalmente i popoli a loro soggetti. Ciò ha portato all’aumento dei conflitti e soprattutto all’accrescimento degli eserciti. Tale fenomeno, nota il Leopardi, ha inizio con il regno di Luigi XIV, poi imitato dagli altri monarchi europei. Ma il perfezionamento di questo processo è stato eseguito solo da Napoleone, che divenuto despota indiscusso della Francia, ha portato sotto le armi tutto il popolo francese e gran parte degli altri popoli assoggettati. Tutto ciò porta all’innescamento di un effetto domino, in cui tutti i governi aumentano il proprio dispotismo e conseguentemente le proprie forze militari. In questo modo le guerre si faranno sempre più sanguinose e violente, come ai tempi antichi, ma a differenza di quelli i popoli non lotteranno per amor di patria, ma solo perché costretti dai governi. Così il Leopardi sembra intravvedere il futuro, anche italiano: “[...] quindi le nazioni intiere, come fra gli antichi, si scanneranno scambievolmente, ma non, come fra gli antichi, spontaneamente, e di piena volonterosità, anzi vi saranno cacciate per marcia forza; non odiandosi scambievolmente, anzi essendo in piena indifferenza, e forse anche bramando di esser vinte (perchè, ed anche questo è notabile, perduto l'amor di patria, e l'indipendenza interna, la novità del padrone, e delle leggi, governo ec. non solo non è odiata nè temuta, ma spesso desiderata e preferita) non per il proprio bene, ma per l'altrui; non per il ben comune, ma di uno solo; anzi di quei soli che abborriranno più di qualunque altro, [909]e più assai di chi combatteranno; insomma non secondo natura, nè per effetto naturale, ma contro natura assolutamente”. Così i popoli, asserviti, subiranno le stesse pene subite dai popoli antichi e liberi, senza godere dello stoicismo e dell’eroismo della virtù: “E tutto ciò senza ricavarne quell'entusiasmo, quel movimento, quelle virtù, quel valore, quel coraggio, quella tolleranza dei mali e delle fatiche, quella costanza, quella forza, quella vita pubblica e individuale, che derivava agli antichi anche dalle stesse grandi calamità: anzi per lo contrario, crescendo in proporzione delle moderne calamità, [910] il torpore, la freddezza, l'inazione, la viltà, i vizi, la monotonia, il tedio, lo stato di morte individuale, e generale delle nazioni”. Questo è il frutto, dice Leopardi, della morte della patria, della scomparsa dell’odio nazionale e dell’amore della virtù: “Ecco i vantaggi dell'incivilimento, dello spirito filosofico e di umanità, del diritto delle genti creato, dell'amore universale immaginato, dell'odio scambievole delle nazioni distrutto, dell'antica barbarie abolita”. Non solo la libertà e la virtù muoiono con l’amor di patria, ma anche la morale, poiché con il sorgere dell’egoismo la viltà, la turpitudine e l’amoralità prendono il sopravvento: “Dovunque ha esistito vero e caldo amor di patria, e massime dove più, cioè ne' popoli liberi, i costumi sono stati sempre quanto fieri, altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti, e pieni d'integrità. Quest'è una conseguenza naturale dell'amor patrio, del sentimento che le nazioni, e quindi gl'individui hanno di se stessi, della libertà, del valore, della forza delle nazioni, della rivalità che hanno colle straniere, e di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive che nascono da tutto ciò, e che vicendevolmente lo producono: ed ella è cosa evidente che la virtù non ha fondamento se non se nelle illusioni, e che dove mancano le illusioni, manca la virtù, e regna il vizio, nello stesso modo che la dappocaggine e la viltà”. Ciò vale non solo per la società in generale, ma anche per il singolo individuo. Morto l’amor patrio, anche il singolo si corrompe, avvilisce, immeschinisce: “Ed è tanto vero; che le virtù private si trovano sempre in proporzione coll'amor patrio, e colla forza e magnanimità di una nazione; e l'indebolimento di queste [911] cose, colla corruttela dei costumi; e la perdita della morale si trova nella storia sempre compagna della perdita dell'amor patrio, della indipendenza, delle nazioni, della libertà interna, e di tutte le antiche e moderne repubbliche: influendo sommamente e con perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la producono, sull'amor patrio, e l'amor patrio sulle illusioni e sulla morale”. La civilizzazione, dunque, è per Leopardi foriera di corruzione, viltà, morte delle illusioni, scomparsa del patriottismo e dunque della virtù. Esempio perfetto di questo processo di degradazione, secondo il poeta, è la Francia pre e postrivoluzionaria: “[La] filosofia, che volere o non volere, in ultima analisi è nemica mortale della virtù, perch'è amica anzi quasi la stessa cosa colla ragione, ch'è nemica della natura, sola sorgente della virtù”.
Dirimpetto alla ragione sterilizzante delle nazioni settentrionali, c’è la feconda immaginazione di quelle meridionali e massimamente della Grecia e dell’Italia: “La stessa proporzionata disparità ch'è fra gli antichi e i moderni, in ordine al bello, alla immaginazione, alla letizia, alla felicità per l'una parte, e al vero, alla ragione, alla malinconia, alla infelicità per l'altra parte; la stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna età antica o moderna, fra i popoli meridionali e i settentrionali. Sebbene l'antichità era il tempo del bello, [932] e della immaginazione, tuttavia anche allora la Grecia e l'Italia ne erano la patria, e il luogo. E quantunque non fossero quei tempi adattati alla profondità dell'intelletto, al vero, alla malinconia, contuttociò ne' Settentrionali si vede l'inclinazione loro naturale a queste qualità, e negl'inni, nei canti, nelle sentenze staccate dei Bardi, si nota, oltre alla famosa malinconia, una certa profondità di pensiero, e la osservazione di certe verità che anche oggi in tanto progresso della filosofia, non sono le più triviali. Insomma vi si nota un carattere di pensiero diversissimo nella profondità, da quello de' meridionali degli stessi tempi. [...] Così per lo contrario, sebbene l'età moderna è il tempo del pensiero, nondimeno il settentrione ne è la patria, e l'Italia conserva tuttavia qualche poco della sua naturale immaginazione, del suo bello, della sua naturale disposizione alla letizia ed alla felicità. In quello dunque che ho detto de' miei diversi stati, rispetto alla immaginazione e alla filosofia, paragonandomi col successo de' tempi moderni agli antichi, si può anche aggiungere il paragone coi popoli meridionali e settentrionali”. Solo questa fervida e spontanea immaginazione, per Leopardi, può permettere il risorgere delle illusioni e cioè dell’amor patrio e dunque della libertà e della virtù. Più avanti nel testo, il poeta afferma che qualora un principe riuscisse a far risorgere tali illusioni, le nazioni mediterranee riprenderebbero il sopravvento sulle settentrionali. Per Leopardi esiste una netta differenza di carattere fra le popolazioni meridionali e settentrionali dell’Europa; una caratterizzazione geografica che ha determinato le differenze fra società antica, i cui protagonisti erano i meridionali, e società moderna, dominata dai settentrionali: “Se i principi risuscitassero le illusioni, dessero vita e spirito ai popoli, e sentimento di se stessi; rianimassero con qualche sostanza, con qualche realtà gli errori e le immaginazioni costitutrici e fondamentali delle nazioni e delle società; se ci restituissero una patria; se il trionfo, se i concorsi pubblici, i giuochi, le feste patriotiche, gli onori renduti al merito, ed ai servigi prestati alla patria tornassero in usanza; tutte le nazioni certamente acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita, e diverrebbero grandi e forti e formidabili. Ma le nazioni meridionali massimamente, e fra queste singolarmente l'Italia e la Grecia (purchè tornassero ad esser nazioni) diverrebbero un'altra volta invincibili. Ed allora [1027]si tornerebbe a conoscere la vera ed innata eminenza della natura meridionale sopra la settentrionale, eminenza che le nostre nazioni ebbero sempre, mentre non mancarono di forti, grandi, e generali illusioni, e de' motivi e dell'alimento di esse; eminenza che da gran tempo, ma specialmente oggi, sembra per lo contrario, con vergogna, dirò così, della natura, appartenere (e non solo nella guerra, ma in ogni genere di azione, di energia, e di vita) agli abitatori dei ghiacci e delle nebbie, alle regioni meno favorite, anzi quasi odiate dalla natura: Quod latus mundi nebulae malusque Juppiter urget. Notabile che come gli antichi si rassomigliano al carattere meridionionale e i moderni al settentrionale, così la civiltà ec. antica fu principalmente meridionale, la moderna settentrionale. È già notato che la civiltà progredisce da gran tempo (sin da' tempi indiani) dal sud al nord, lasciando via via i paesi del sud. Le capitali del mondo antico furono Babilonia, Menfi, Atene, Roma; del moderno, Parigi, Londra, Pietroburgo! che climi! Conseguenza naturale dell'esser tolta ai popoli meridionali l'attività e l'uso della molla principale della loro vita, cioè della immaginazione; molla che quando è capace di azione (e non può esserlo senza le circostanze corrispondenti) vince la forza di tutte le altre molle che possono fare agire i popoli settentrionali, e qualunque popolo. Anzi veramente i popoli settentrionali, massime i più bellicosi e terribili, non agiscono per nessuna molla, per nessuna forza propria del loro meccanismo, ed interna; ma per mero impulso altrui, per mera influenza di coloro, ai quali essi ubbidiscono, se anche sono comandati di mangiar della paglia”. Questa totale incompatibilità fra i popoli meridionali ed i settentrionali, che determina anche la differenza fra la società antica e la moderna, non è anche la causa dell’inconciliabilità attuale fra le nazioni mediterranee e quelle nordiche? Non è forse questo il motivo per cui le nazioni meridionali (Italia, Spagna, Grecia e Portogallo - il Leopardi ci metterebbe anche la Francia -), obbligate ad adattarsi ai modelli di vita delle settentrionali, si sono oramai avviate definitivamente alla morte spirituale e materiale?

6 commenti :

  1. Che bello! Ho viaggiato tutta Europa e sol tale finis terrace,proibendo mi d'uscirne..mai Albione o sopra la Baviera mi accostai, ma Parigi e' terra d'immagine, quindi Italia anch'ella.. composto al volo da uno nato l'8 dicembre, come Orazio!

    RispondiElimina
  2. "Marfa Petrovna m'invito'un paio di volte a fare un viaggio all'estero,vedendo che m'annoiavo.Macchè!All'estero c'ero già stato,e m'era venuto il disgusto. Guardi l'aurora che spunta,il golfo di Napoli,il mare,e ti viene la malinconia.La cosa più uggiosa è la malinconia che t'assale senza che tu sappia perchè!No,nel proprio paese si sta meglio:in patria si sta meglio:in patria si dà tutta la colpa agli altri e si trovano delle scuse davanti a se stesso."

    Svidrigajlov da delitto e castigo

    RispondiElimina
  3. Date un'occhiata a questo.
    C'è da scaricare un PDF.

    https://www.centroeinaudi.it/notizie-in-evidenza/4656-l-aborto-post-nascita.html

    RispondiElimina
  4. Buongiorno Alceste, non vedi una speranza di emarginazione dal nulla che ci vorrebbero propinare in questo scontro fra civiltà dei valori e anticiviltà? E che ne pensi di Alexandr Dugin? Buona giornata!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Dugin non mi convince. Lo dico: non mi piace. L'anticiviltà la vedo, ma la civiltà dei valori dov'è?

      Elimina

Siate gentili ...