Me
lo domando spesso.
La
vita si riduce, a volte, a tale banale considerazione: a chi si appartiene?
Si
dice che il destino atterri alcuni, esalti gli altri e che solo il Tempo
intervenga a sedare l’ingiustizia permettendo la verità: sono d’accordo, a
patto di non chiamarlo destino.
In
realtà ciò che amiamo appellare destino, nel breve margine che la Morte ci
concede, non è che una scelta d’appartenenza. La schiavitù a un ordine, a una
setta, a un pensiero prestabilito. Ciò determina il nostro essere nel mondo, la
fatuità del vivere, i successi, le soddisfazioni.
Chi
è estraneo a questo viene estromesso, di fatto, dal consesso sociale. Ora più
di prima, molto più di prima. La libertà, di cui si ciancia, è davvero un
fantasma sul proscenio del postmoderno. E chi se ne accorge? Nessuno, poiché
ognuno, o la maggior parte di noi, appartiene a qualcosa o qualcuno.
Ci
si affatica a osannare il Tale; a denigrare il Talaltro: entrambi, però,
appartengono a qualcuno; o a qualcosa; se non fosse così non ci sarebbe da
osannarli o denigrarli dacché non esisterebbero su nessun palco della
venerazione o della disapprovazione.
Persino
certi salvatori della patria appartengono a qualcuno o qualcosa: lo so, li vedo;
noto dei particolari, ai più indifferenti, che loro, invece, pongono in sobrio
risalto, come a dire: ecco, io appartengo a questo o a questa cosa.
Chi
non appartiene a niente rimane solo. La solitudine, che è altro dalla vita
solitaria, bramata e necessaria all’autentica meditazione, schianta l’individuo
e lo rende, alla lunga, sterile. La sconfitta, continua, bestiale, feroce, ci
trasforma in esseri muti e rassegnati oppure in personaggi queruli e degni di
un sorriso di compatimento o scherno.
Ammetto
che rendersi schiavi abbia un risvolto assai desiderabile. Il conformismo o la
catena o la compiaciuta volontà di sottomettersi a una signoria intellettuale addolcisce
il quotidiano: cedevole, soporoso, ricco di prebende materiali o puramente
immaginarie. Com’è felice il mendicante quando gli si allunga un tocco di pane!
Il
merito, la più fantastica sciocchezza del politicamente corretto, è, da quando
vige il politicamente corretto, sempre sulla bocca. Si inventano database,
graduatorie, divieti, obblighi, carte bollate per certificarlo, questo merito:
in realtà, a ben guardare, qui si mette nero su bianco, o rosso su bianco, la
propria appartenenza.
Si
ha un bel guardare la catena: la si ama davvero, dà sicurezza, oltre a stipendi
e onori.
Io,
per me, non appartengo a nessuno.
Tutto
quello che ho fatto l’ho fatto per l’Italia. Certo, tale confessione sembra
incredibile. Eppure è così. La mia vita l’ho passata, al di là delle
occupazioni per metter assieme i pasti, al servizio di questa idea. Ma,
poiché non appartenevo a nessuno, la mia opera è lentamente svanita, o passata
nell’imperio di altri, quelli che, invece, appartenevano a qualcuno o qualcosa;
oppure è stata mistificata; altre volte, invece, l’ho rinnegata io stesso perché vedevo che
serviva Mammona: è perciò stata distolta dal mio merito anche se di ciò poco m’importava:
non appartengo, infatti, a nessuno.
Di
sconfitta in sconfitta pure il mio nome sembra scritto sull’acqua.
Dei
miei sforzi, dell’abnegazione, delle fatiche e delle notti insonni rimane un
pulviscolo anonimo che non serve a sporcare nemmeno la prima riga di un
curriculum infimo.
Di
ciò che sono poco importa; non appartengo a qualcuno o qualcosa; ogni mia
opera, perciò, è niente.
Molte
volte ho visto imbecilli passarmi avanti, cialtroni amorali appropriarsi di ciò
che non era loro. Non ho protestato. Non avrei ottenuto molto, peraltro: io,
infatti, non appartengo a nessuno. Buffoni scrivono libri, articoli, collezionano
onorificenze e le utilizzano per umiliare.
C’è da
dire che molte volte, del pari, ho avuto occasione di rinnegare l’attitudine
alla libertà, e vendermi, ma ho rinunciato. Non per eroismo; non per un alto
senso morale; forse per istinto autodistruttivo. Vedete come voglia, anche qui,
rinunciare a esaltarmi e perdere tutto.
E,
infatti, alle soglie del 2020 posso dire di aver perso tutto. O quasi.
Residuano
due affetti, e non altro.
La
mia solitudine è totale, cosmica. Il buio grava sul petto, le vie d’uscita sono
sbarrate. Nemmeno le antiche consolazioni, la lettura, il piacere di ascoltare
musica, funzionano più.
Si
vive: in quale attesa non saprei. Un respiro tira l’altro.
La
sensazione che il proprio mondo sia in rotta ha inasprito lo sguardo e
calcificato la passione.
Cosa
sopravvive se non un disperato sarcasmo e poco altro?
Di
notte, in campagna, c’è ancora un buio perfetto, assoluto. Il cielo
limpidissimo rende quasi vive alcune combinazioni di stelle: Cassiopea, Sirio.
L’emisfero non consola, però; passato è quel tempo; un refolo freddissimo spira
da lontananze ormai insensate.
Ieri
me ne sono andato sui campi; gli olivi sembravano stecchiti. So che, tuttavia,
in primavera rifioriranno. Ma hanno bisogno anch’essi di cura. Senza l’uomo
cresceranno disordinati sino a morire di selvatichezza. La vigna di Renzo
Tramaglino è l’epitome simbolica dei nostri tempi. Abbiamo lasciato entrare la
falsa libertà, abbandonando la cura della Patria, e ora i barbari bivaccano
nelle nostre case.
Nessuno
combatte perché ci si accontenta di appartenere a qualcosa e qualcuno. Si campa
per compiacere nullità. E le nullità avanzano, senza volto, a reificare il
paese più bello.
Gli
storni, intanto, a centinaia di migliaia, si gettano sugli oliveti, a strappare
i residui dei raccolti. Improvvisamente, contro il lapislazzulo del tramonto
invernale, appaiono nugoli di scuri uccellini: uno d’essi li guida e plasma lo
stormo. La picchiata, radente al suolo, il saccheggio, la risalita,
ordinatissima, implacabile, che sfiora, con leggiadro sincronismo, un’altra
formazione. Sembrano esseri eterni, di grazia inesplicabile. Forse un’impronta metafisica
risiede in questi volteggi innumeri. In tale spettacolo ha dimora, forse, il residuo
d’un balsamo per il cuore.