Roma, 16 dicembre 2024
Non si ha gran voglia né di scrivere né di parlare. Men che mai di analizzare, o pre-vedere. Quando vedi un treno che parte da Roma per Cesano hai la certezza incrollabile che, prima o poi, arriverà a Cesano. Sì, è così. Sono annoiato a morte, depresso, schiantato. Fra tutte le epoche, anche infernali, che l’Italia ha vissuto, un dio maligno mi ha incastonato in questa, la più orrenda, in cui la Patria si sbriciola in tempo reale, come oggi avviene per la Siria.
Il corpo del Paese è putrefatto, inutile che vi stia a illustrare ancora cause e concause: il blog, da qualsivoglia parte lo si imbocchi, reca a una devastante Wurderkammer di tale liquefazione post mortem.
Ogni tanto qualcuno addita alcune speranze non accorgendosi, il tapino, che son mere scosse galvaniche, inutili tentavi di rianimare carne morta, se non veri e propri sberleffi o vicoli ciechi per allocchi.
Si va a velocità folle, con gli stivali delle sette leghe, verso la Monarchia Universale.
Gli accadimenti degli ultimi due anni non sono che trattative. Ogni patriziato locale sgomita per sedersi più vicino al Re del Mondo; le guerre servono a questo, non a determinare l’esito finale; le compravendite dei troni nel nuovo Senato panottico esigono dei costi e i costi vengono pagati con fiumi di sangue innocente. Inutile, poi, ricercare, caporioni e stati e colpevoli nei vari arenghi costituzionali. Ragionare per nazioni o per uomini, persino per potentati, non porta a nulla. Si dovrebbe argomentare in base a culture, forse, o meglio a due culture principali: quella aristocratica e conservatrice, sin reazionaria, apollinea, e quella plebea, democratica, da suburra dionisiaca. La prima trattiene nel limite, la seconda schianta i confini. Una sana visione dell’esistenza umana, dai primi ominidi al 2024, consiste nella continua dialettica fra tali poli del carattere umano. Destra e sinistra non sono che infimo e postmoderno riflesso della struttura psicologica profonda testé delineata. La malattia dell’uomo attuale deriva dalla scomparsa del primo polo, ormai irrimediabile. Viviamo, quindi, l’età della plebe, ridanciana, volgare, senza passato e, quindi, ottusa alla comprensione, abbarbicata unicamente all’attimo, pronta a prostituirsi all’onnipossente Mammona: Dispensatrice di Cartellini del Prezzo. Anche il patriziato italiano è centrifugato in tale vittoria del contingente: è inutile, ormai, non produce alcunché: cinema, teatro, arte, scienza. La foto di gruppo alla Scala di Milano riassume i mores del tempo; mancano solo i titoli di coda in sovrimpressione. Il Ministro della Cultura, logicamente, è ripreso a mezzo come a simbolizzare la dimidiazione del Paese più importante del mondo, ora all’asta.
Il Codice Hays fu una sorta di breviario morale che regolamentò il cinema americano, con una certa forza stringente, soprattutto dal 1930 al 1934. Prendeva il nome da William H. Hays, presidente della MPPDA (Motion Picture Producers and Distributors of America). Agli Americani piacciono tanto gli acronimi. Son fatti così. “Il Codice Hays vietava l'uso di linguaggio volgare, osceno e insulti razzisti e includeva istruzioni dettagliate che delineavano come determinati argomenti dovevano essere mostrati sullo schermo, in particolare vietando la violenza grafica, la criminalità, l'uso di sostanze, la promiscuità, il meticciato e l'omosessualità”; tale Sillabo venne condensato e sbeffeggiato in un’immagine icastica del 1940 di un tal Adolf L. “Whitey” Schafer, già fotografo della Paramount e celebre per i suoi scatti glam di pin up e signorine varie. 1940: ché il Codice, come detto, smiagolò ben presto.
William Harrison Hays Sr. arriva dopo la crisi del 1929, in parallelo con i Bücherverbrennungen del 1933 in cui arsero, a Berlino e in tutta la Germania, alcuni libri sgraditi al nazionalsocialismo, in special modo quelli d'alcuni pornografi.
I roghi berlinesi possono essere giudicati come più ci aggrada. Se mettiamo fra parentesi le passioni, la destra e la sinistra, la guerra e l’antifascismo, valgono antropologicamente per quel che son in realtà: reazioni, confuse e violente, alla dissoluzione. Una resistenza alla sparizione dell’aristocrazia: aristocrazia del sangue, della terra, del gusto, degli dei. Anche in America si resisteva. L’estremo tentativo d’argine fu rappresentato dal senatore Joseph McCarthy, non a caso oggi dileggiato come alcolizzato. McCarthy fu un individuo grossolano e impostò la sua campagna nel modo più sbagliato possibile ovvero declinandola nella dicotomia sciocca dell’anticomunismo e del socialismo d’ascendenza ebraica. Quando, invece, c’erano in ballo altri valori. Come sempre, dai tempi delle baccanti, degli gnostici, della streghe; la modestia dei personaggi in ballo, l’eccentricità del campo di battaglia (l’America!), l’indebolimento irreversibile del polo conservatore, ormai consegnato a un liberalismo glam (Reagan, Trump, Bush = Clinton, Obama), condusse a una sconfitta rovinosa.
Inutile ricordare come i divieti del Codice Hays siano divenuti il maggior vanto del politicamente corretto attuale, da Netflix alla HBO.
Un’alta carica dello Stato, in avanzato stato di corificazione, si lagna. Non è stata colpa mia, Ella si giustifica, con una punta di allarme nella voce metallica. Sono stata costretta dalle circostanze - prosegue - dal giuoco avverso della legalità istituzionale, che, pur non condivisa (ben altro è il mio convincimento, credetemi!), mi lega a un residuo di superficiale lealtà al Paese, ma, ci tengo a dirlo, non sono affatto in accordo con quanto firmato e promulgato … et cetera et cetera
Quale significato attribuire a tale inconsulta eruzione dell’animo? Una sola: la lamentazione non è rivolta agli Italiani, e nemmeno alla platea di moccicosi parassiti li riunita, bensì a Qualcun Altro ... a Colui che controlla, occhiuto, da torri a noi inavvicinabili e occulte. Cosa si possa fare in tali condizioni è inutile aggiungerlo. Lo Stato è un carapace che al proprio interno non ha più nulla; le possenti chele eterodirette si mettono in moto solo per dilaniare sul nascere qualunque sommovimento sgradito; repressione, menzogne, burocrazia fiscale; polizia, magistratura, usura sono le uniche pulsioni vitali di un Morto-in-Vita che obbedisce a bokor sconosciuti e insondabili; sacerdoti di un Nuovo Ordine, anempatici, spietati, impossibili da fermare.
I leccapiedi, i servi, i clientes, i valvassori - l’intera platea del patriziato nelle sue varie organizzazioni interne, dal politico all’impiegato statale, dal magistrato al gendarme, dal quadro amministrativo al parastato clientelare - per tacere di qualche residuato bellico confindustriale e dei consueti grassatori locali - s’è gradatamente organizzato quale mafia autoreferenziale e vessatoria contro l’Italia e gli Italiani. Il periodo del lockdown fu indicativo della faglia sociale creatasi dal 1989 in poi; ogni giorno ne abbiamo la testimonianza. L’apparato legislativo, esecutivo e giudiziario, amministrativo lato sensu, si è via via allontanato da qualsivoglia funzione sociale e costituzionale erigendosi quale classe intangibile ed estranea alla legge. I cascami dell’usura e della produttività nazionali (dalle industrie ai sindacati) si sono saldati a essa. Sono i milioni che ancora votano convintamente - votano se stessi, di fatto - per eleggere quella rappresentanza politica (dai Comuni al Parlamento, dalle Regioni alle Provincie alle Comunità montane) che, sfruttando quel poco di solvibilità loro concessa, ne premia la fedeltà da canaglie con una manciata di spicci. Otto milioni di clientes se la cantano e se la suonano, insomma, a danno dei restanti. Son questi a sbreccolare gli epinici più cretini sulla rispettabilità democratica, a difendere i lockdown, gli arcobaleni uranisti, la risacca negroide; a ca-cantare quanto è bello il progresso e l’umanità di Imagine. Lo stipendio a fine mese ne esalta la vena delatoria, l’arroganza da condominio, il sotterfugio da sicofanti. Il tempo, tuttavia, ne sta assottigliando le fila. Destinati, anch’essi, ad affogare: l’Usura del Nuovo Ordine non perdona ai servi sciocchi.
La tavola imbandita perde progressivamente le pietanze più prelibate. Il nepotismo, perciò, si intensifica, a qualsiasi livello. Basta scorrere i cognomi di qualsivoglia lucroso organigramma statale per cogliere affinità, parentele naturali o acquisite. Meno portate, più voracità. Il patriziato traditore prende a scarnificare sé stesso e ossa già abbondantemente spolpate. Interi settori del basso patriziato cominciano ad avere l’acqua alla gola, altri già gorgogliano. L’Italia in mano a tali ratti mi ricorda irresistibilmente una poesiola di Gottfried Benn, Morgue II: bella gioventù:
La bocca d'una ragazza, riversa a lungo in un canneto,
appariva tutta rosicchiata.
Aperto il petto, era l'esofago un foro solo.
Alla fine, in una cavità sotto la pleura
si trovò un nido di piccoli ratti.
Una lor sorellina era già morta.
Gli altri vivevano di fegato e di reni,
bevendo il sangue freddo e godendo
la loro bella gioventù.
E bella e rapida venne loro anche la morte:
furon gettati tutti in acqua.
Oh, come squittivano i musetti!
I musetti baffuti, intenti a rodere le viscere dell’ex Italia, si girano affannosamente a destra e a sinistra, a cercare scampo, gli occhietti rossi increduli per cotanta disgrazia. Ma qui che succede? Non abbiamo tradito abbastanza? Perché noi?
Peccato non essere in vita per schiacciarli sotto il tacco.
Immagini di repertorio nei TG RAI. Uno dei protagonisti dell’apocalisse italiana, ascaro, ma Italiano e al soldo degli Abissini, viene ritratto sempre con la stessa sequenza: esce impettito da un portone d’una magione storica, con un mezzo ghigno satollo e strafottente, volgendo lo sguardo a destra o sinistra, verso qualche suo famiglio, mentre s’aggiusta il bavero del cachemire. L’immagine emblematica di un tracollo voluto, perseguito minuziosamente, leggina dopo leggina, codicillo dopo codicillo, a rendere meschina e impervia l’esistenza di chi si sarebbe dovuto amministrare con la cautela del buon padre di famiglia. Eppure è là, l’Imbonitore, col capello ravviato e il cerebro rigonfio di flatulenze. Dicono: ma chi lo vota più! E invece no, lo votano ancora, perché, accettando il gioco democratico-liberale, se scegli la Testa Tonda ti ritrovi anche la Testa Quadra; e viceversa. E pensare che la coppiola Borghi e Bagnai dava poco peso all’influenza di ministri, parlamentari, governanti nazionali; occorreva focalizzarsi su altri problemi … gli squilibri macroeconomici, a esempio … o l’opera immortale di Roberto Frenkel … ben altro, signori, ci sovrasta, mica ‘ste minuzie da onest’uomini … non gli davano importanza prima, figuriamoci ora che son parte del circo. E anche loro, nonostante una serie di Caporetto infilate con la sicumera del peggior Cadorna, vantano una claque iniziatica … che guarda oltre, perché cause, problemi e angosce son sempre oltre … oltre i Comuni, le Provincie, le Regioni, l’Italia, la Corte Costituzionale, i TAR, la Corte dei Conti, l’Avvocatura dello Stato … guardate la luna, non il dito, ammoniscono …
Ma non vorrei dar l’impressione di avercela con la politica. Certo, essa è l’ingranaggio di trasmissione fra gli Italiani e le due ganasce dell’Usura Internazionale, finanziaria e polcor. E tuttavia non è che una propaggine del tumore maligno ovvero del patriziato italiano, autoreferenziale, saldamente incistato nelle istituzioni, tanto da identificarsi ora con le istituzioni stesse … un variegato cumulo di cellule neoplastiche che vive letteralmente d’Italia … a spese dell’Italia … vendendo a tranci l’Italia … magistrati, gendarmi, militari, parastato cooperativo, buffoni confindustriali, padroncini locali, mafiosi, impiegatucci e bidelli assunti col concorso pilotato, dirigenti e grand commis, referenti delle diecimila consorterie pubbliche, docenti e professorini, di ruolo, non di ruolo, supplenti ai quattro formaggi, coglioni apicali del terzo settore, associazioni inutili e straccione, ma capaci di vincere bandi e avvisi pubblici a pioggia, camorristi a capo di aziendine con l’affidamento diretto, marrani, sindacalisti gialli … ognuno abile a riverire l’Usura, in ogni sua forma, sempre e comunque, pur di aggranfiare quei due spicci.
I soldi non sono la chiave per comprendere la storia postmoderna; essi rivelano solo i traditori interni. I Demiurghi, dal canto loro, se ne fregano dei soldi. I soldi più non esistono. Nemmeno l’oro esiste più, quale alternativa al sangue. I tradimenti si comprano oramai in monete di pirite, o con carta riciclata, tanto è il padrone a dire che son milioni ... e a Giuda brillano gli occhi egualmente a maneggiare l’oro degli stolti.
La Siria è conquistata dagli “islamisti”! Allarme! Poveri Siriani … Ma quali islamisti! Dell’Islam, fra i caporioni, non c’è traccia, sono mercenari del Nulla con il cervello a Londra. Forse tra i tagliagole vi saranno devoti a Mohammed che berciano di guerra santa, ma è manovalanza. Gli unici a credere all’Islam che avanza con la scimitarra sono rimasti i leghisti e i fallacisti, epigoni tonti di due figure già non troppo sveglie (Oriana Fallaci) o in malafede (i leghisti) o tutte e due. Non ricordo il nome dello Zelenski col cencio in testa: conta poco. Ciò che conta è che una terra ancora intrisa di autentica spiritualità è alla mercé dei Giuda che tutto spianeranno sino a farne un ulteriore Regno della Quantità. I commedianti di casa nostra non alzano nemmeno un sopracciglio, figuriamoci. Semianalfabeti, di una furberia laida, da postribolo, anempatici sino alla sociopatia, approvano tutto; si fanno ritrarre dai telegiornali con facce terree, appena un poco disgustati da ciò che avvertono essere divenuti; snocciolano banalità attenti a non urtare il più minuscolo granello di conformismo criminale; mai li si sente parlare del Paese che rappresentano e che gli è profondamente sconosciuto; mai l’ebbero a lodare, al presente o al passato; mai esaltarono un loro figlio, mai; le uniche breccole d’approvazione, le canaglie, le cacano in favore di personaggi altrettanto luridi, inautentici, impastati di servilismo.
Putin? Scacco matto all’Occidente in una mossa! Così uno dei tanti geopolitici da strapazzo che infestava la miccosfera, un paio d’anni fa. E ora? Nonostante rauti e tric e trac d’avanguardia siamo sempre là; anzi, la Siria è venuta di qua. Anche l’Iran è fradicio sino alle ossa: aspetta di cadere. Damasco e la Persia, in un sol colpo. Un crollo inaspettato? Per chi ragiona secondo tifo; chi ordina gli eventi razionalmente vede una progressione inevitabile. Avanza il Mondo Unico. Possibile che a nessuno venga in mente che sia una manfrina? Chi muore qui? Su chi si abbattono le bombe? Chi è davvero sotto attacco? Popoli e paesi fedeli all’Antico Ordine. Ancora per poco, tuttavia. La reazione non c’è per mancanza proprio di uomini. I migliori sono morti. Anche gli europei sono morti: per ammazzare la crema della cultura europea ci son volute due guerre mondiali e una operazione psicologica su larga scala che, a posteriori, incute terrore per la vastità e la minuta pianificazione. Ma chi dirigerà il Mondo Unico? Gli Ebrei? Gli Ebrei sono serviti, ora non servono più. Anche Israele non serve più. La dismissione dell’Antico Ordine esige qualche sacrificio. Probabilmente i nuovi monarchi saranno automi apolidi, come ce sono già ora. La loro ascendenza conterà sempre meno. Le nuove generazioni saranno del tutto indifferenti a tale ristrutturazione dell’esistenza, dei costumi, del genere umano nel suo complesso. Anzi, addirittura approveranno: se non hai idea del tuo passato amerei il coltello del carnefice.
Nel 1770 Wolfgang von Kempelen, ingegnere di corte, costruisce su richiesta di Maria Teresa d’Austria un giocatore di scacchi meccanico. Avrà nome “Il Turco”, per gli abiti che indossa. L’automa si muove a scatti, con gran cigolio di ingranaggi, recando sulla scacchiera davanti a lui mosse infallibili. Sconfigge Benjamin Franklin, Napoleone, Federico il Grande, Caterina di Russia, Luigi III d’Inghilterra. Johann Nepomuk Maelzel lo recherà in tour in Europa: a sbalordire le folle. Ben presto si insinua il dubbio. Scrive Luigi Crovi: “Alcune teorie ipotizzavano che fosse un incredibile manufatto prodotto con un’avveniristica tecnologia che permetteva di comandarlo con dei magneti, altre sostenevano che fosse una creatura dai poteri diabolici, o che il giocatore di scacchi in realtà celasse sotto la sua scrivania un inganno, un trucco da baraccone circense, e che venisse in qualche modo manovrato o da un bambino o da un nano o da un uomo privo di gambe che poteva inserirsi negli spazi vuoti dell’automa”. Al mistero si dedica, con puntigliosità fine a sé stessa, anche Edgar Allan Poe. La verità si saprà anni dopo. Molto semplicemente, all’interno del marchingegno si celavano esperti scacchisti. Uno dei più famosi fu un polacco, Boleslas Vorowski, privo di gambe. Debitamente rincattucciato nelle lamiere del “Turco”, egli dirigeva le mosse della macchina. L’abilità gli consentiva di avere ragione di chiunque, compresa la stessa imperatrice. L’Intelligenza Artificiale è il Turco dei tempi. Le bocche a uovo per l’ammirazione (“La tecnica è sconfinata!”) - prima o poi ci cadranno tutti - non sanno che il gioco, qualunque gioco, o scoperta, o progresso, o innovazione, ha il proprio Vorowski all’interno che mente spudoratamente. Il precipuo compito della AI è di scomporre in unità particolari il passato e ricomporlo secondo un’agenda che molti, almeno da queste parti, hanno imparato a riconoscere; la missione secondaria consiste, invece, nella permutazione infinita della realtà, già permessa da google. Giustapponendo, in spregio a qualsiasi causalità o tradizione o sapere, elementi fra loro estranei, si genera una neorealtà posticcia che pian piano prende il posto di quella autentica. Anche qui il digitale agisce secondo la propria natura: imita ciò che vuole distruggere sostituendosi progressivamente a esso. Se immetto “Alessandro Magno”, “Pearl Harbour”, “pomodori in barattolo”, così, senza alcuna mira se non un idiota divertissement, l’intelligenza prima o poi plasmerà (per divertimento?) una nuova realtà secondo cui i Macedoni a Pearl Harbour abbatterono gli aerei nipponici lanciando confezioni di pelati (in Ucraina è già successo, ci dicono i media).
L’associazione di idee ha già sconfitto la logica, ora aspettiamoci un upgrade. La gratuità è sintomo della nuova umanità impossibilitata al ragionamento. Tutto è possibile, perché no?, quindi ogni fenomeno è inconoscibile secondo la logica, la tradizione, il buon senso, la storia. Ex falso sequitur quodlibet; a Carnevale ogni scherzo vale; questo o quello per me pari son. La contraddizione è auspice di verità.
Le riviste paracomuniste dal 1968 in poi si effondevano sempre sulla “contraddizione americana”. Centinaia di libelli, monografie, saggetti, trattati. Li riassumo: come può un paese tanto ricco avere in sé larghe isole di miseria? Personale risposta: perché non era una contraddizione. La ricchezza, così creata e concepita, ha bisogno delle pezze al culo. Le orrende città americane (americane=universali), il cui centro scintillante vien mostrato al miccame delle serie TV glam, è sempre accerchiato dalle baracche e dai camper. Lo sfascio della famiglia e della psiche qui risulta strutturale. Anche in Italia, un'Italia sempre più americana vien da dire, si è sulla via. Le borgate povere, vissuta la fiammata consumista degli Ottanta, retrocedono a periferia del mondo. I nuovi poveri non sono più veri poveri. L’Italiano povero vantava l’arte d’arrangiarsi, colata giù dall’atellana, dai cantari; essere poveri equivaleva a comportarsi da poveri, con dignità, sfruttando ogni risorsa, dal risparmio esasperato, tipico del Paese rurale, all’aiuto della famiglia agnatizia, allargata a decine di congiunti. Ora un povero non è più tale bensì un solitario e mediocre edonista senza i mezzi per esser tale. Insegue le vacanze a Ibiza senza i mille euro che prima aveva; vuol far l’aperitivo, ma il ventino per qualche pizzetta ne svuota le tasche ché venti euro sono ormai una paga giornaliera; e la droga? E il botulino? E il mangime per Rover o Kitty? E così via. Il crollo del welfare ha poi prodotto un’umanità cenciosa e puzzolente, biliosa, stupida, malaticcia. A pochi chilometri dal Vaticano e dai Fori Imperiali interi caseggiati in cemento degenerano in slums. Giardini stenti, ascensori fuori servizio, marciapiedi luridi e sbrecciati. Il comparto delle botteghe e della piccola impresa privata annientata dall’usura. Fetidi stambugi egiziani o del Bangladesh, pizzerie bisunte. O cattedrali delle multinazionali, ancor più lerce di quelle. Pazzi, sciancati, adolescenti obesi o criminali, pensionati bavosi, drogati, s’aggirano fra tali rovine immedicabili senza un perché, un fine, un’utopia. Aspettano tutti il soldo facile, che non esiste più; un aiuto, che mai gli sarà dato. Le comunità straniere li schifano, gli ex Italiani, perché incapaci di tirare avanti o di educare la propria rada progenie. Negri e nordafricani hanno via libera, fan quel che gli pare, intoccabili dai gendarmi, per carità, che nessuno vuole guai con la Boldrini e l’UNHCR. “Se sorprendi un ladro in casa, la notte, hai due possibilità”, mi rivelò un di questi militi del nulla tempo addietro. “O li lasci fare – meglio sarebbe continuare a dormire – oppure li butti dalla finestra. In caso puoi sempre dire che è caduto mentre cercava di scalare il tuo piano … ma se li ferisci o, non sia mai!, li ammazzi in altro modo … allora è finita, sei finito. Io? Siamo matti? Rispondiamo alle chiamate con il ritardo giusto, giusto per farli scappare, intendo … sono padre di famiglia, io … la migliore cosa, prima o poi, sarà di non rispondere affatto …”. Il kipple si accumula nelle periferie dell’Impero Unico. Impossibile ripulirle. Non è neanche immondizia, ma una sorta di fallimento umano e tecnologico su vasta scala, scientemente organizzato: bottigliette e bottigline di plastica, elettrodomestici seminuovi e già sventrati dai malfunzionamenti, involucri d’ogni sorta, gratta-e-vinci, mobilia che rivela il proprio ossame da quattro soldi sotto un vestimento sdrucito, materassi macchiati da copule devastate o dalle urine purulente di qualche vecchio che ha tirato le cuoia, schiacciato dalla solitudine mentre la badante in nero faceva la cresta sulle spese coi familiari esasperati da eventuali resilienze alla morte.
La perdita dei riferimenti, dalla famiglia alla sfera pubblica, dal sesso alle professioni ai mestieri, rappresenta il cuore dell’attacco postmoderno. Tutto ha da derubricarsi in antieroico o eccentrico o sbilenco o fuori fase: out of joint, per usare una locuzione amletica. Nella decadenza si esprime lo strampalato, il fuorilegge, il bislacco, la furia incontrollata, la pazzia, l’emarginazione, la fascinazione borderline, la perversione polimorfa. La rettitudine, intesa come riscontro im-mediato a ciò che viene sentito quale naturalmente giusto, è osteggiata e combattuta con ogni mezzo. La normalità, per il Potere, è sgradita, persino foriera di pericoli. Mi stavo riguardando, giorni fa, il primo Padrino di Francis Ford Coppola, tratto dal romanzo di Mario Puzo. Cosa attrae misteriosamente in questa pellicola già vecchia di mezzo secolo? Non siamo in presenza, qui, di una saga familiare o di un gangster movie oppure, Dio non voglia, di un film sulla mafia italoamericana. Queste proprietà narrative rappresentano la superficie. No, qui vengono esaltate, invece, pulsioni centrali dell’antropologia occidentale nella loro forza ferina, quasi elementale: onore, vendetta, giustizia; repulsione per l’altro da sé, fedeltà al sangue e alla terra, famiglia, clan (= famiglia agnatizia), sacramenti cristiani (il battesimo del primogenito); nel secondo capitolo risaltano poi l’orrore per l’infanticidio (Michael/Michele che aggredisce la moglie “americana”, cioè fungibile, dopo l’aborto) e la storia (il caporegime Frankie Pentangeli si suiciderà per onore come un senatore romano dopo un colloquio col consigliere dei Corleone, Tom Hagen, che, già dal nome, ricorda l’altro corno tradizionale dell’Occidente europeo: il germanico Hagen di Tronje de I Nibelunghi). Il padrino, uno degli ultimi film a inscenare un mito; qui il segreto della sua potenza attrattiva e dell’influenza che travalicò ogni confine provocando imitazioni a cascata. E qualcuno lo equivoca ancora quale kolossal sulla mafia! Il Potere ha aspettato venticinque anni prima di liberarsi di questo monolite, neutralizzandolo con una carica inversa (per mezzo di inversioni, infatti). La prima stagione de I Soprano risale al 1999: sotto l’apparenza di una serie TV sulla criminalità nel Jersey si nascondono gli elementi abili a disinnescare Brando e Pacino: boss dallo strizzacervelli, pervertiti, omosessuali, drogati; famiglie allo sbando, primogeniti impotenti, figlie che se l’intendono con ebrei di colore, disprezzo delle nuove generazioni per l’italianità (l’odio per Colombo); e così via … L’elemento sessuale, del tutto trascurato da Coppola, è qui, invece, centrale; la violenza è utilizzata quale specchietto per le allodole televisive: trangugiando la seconda s’ingoia il primo, de-mitizzando e parodizzando un mondo ancora tradizionale e di pericolosa fascinazione per lo spettatore.
Togliere all’Occidente ogni tipo di riferimento, i confini, i limiti, i cippi miliari. Questo fu il piano precipuo del Potere, attuato grazie ai maestri dell’inversione, gli Ebrei, scatenati da Cromwell e Napoleone, Inghilterra e Francia, e incubati nelle terre franche del nichilismo illuminista, Olanda e Svizzera.
La perdita dei confini, l’incertezza materiale e spirituale causata dalla loro assenza, hic stat busillis. Si legge nel Tiberio Gracco di Plutarco come il tribuno della plebe intraprese un viaggio verso nord, lungo la Tuscia, per imbarcarsi da un porto laziale o toscano alla volta della Spagna. Durante il percorso Tiberio s'accorge della disgregazione del corpo sociale romano, una volta compatto e organico. Pre-sente, in tempo reale, la rovina della Repubblica. Scrive Vincenzo Allegrezza: “La popolazione delle campagne etrusche si riduceva sempre di più ad agricoltori impoveriti, sottoposti, subordinati, alcuni semplici braccianti, altri affittuari di terreni. E questo coacervo di subordinati erano i nuovi abitanti, che avevano sostituito i vecchi. Per lo più piccoli proprietari considerati il nerbo dell’esercito romano, questi ultimi erano stati letteralmente scacciati dalle loro case, non di rado con la violenza, dai servi dei ricchi possidenti. Il processo fu graduale e in pieno corso al tempo dei Gracchi. Ci è noto che i mezzi per accaparrare terra furono i più subdoli, i servi e i pastori dei ricchi possidenti frodavano sulla vera ubicazione dei confini dei terreni, sottraendo terra, a poco a poco, spostando la collocazione dei cippi, i segnacoli di confine che dividevano e circoscrivevano sia i fondi privati che l’ager publicus. Un’azione effettuata occultamente ogni anno, piano piano, che aveva l’effetto di rendere incerte le dimensioni di molti terreni , a discapito di altri che misteriosamente aumentavano le loro dimensioni in iugera ... Contro questi e altri simili abusi si batterono i Gracchi, e in questo periodo, in contesto di scontri sociali (con elementi etnici), nacque la Profezia della ninfa Vegoia, un testo escatologico sull’ordine cosmico che vede nei cippi una funzione ordinatrice del cosmo stesso, un testo che sostanzialmente pone una sanzione, in quanto in essa si maledice gli uomini che osino spostarli dalla loro originaria collocazione, e la sanzione è invocata sia che i profanatori siano uomini liberi che servi, la vendetta della divinità sarebbe stata implacabile”.
Luciano Ventrone, Natura morta |
L’iperrealismo esalta il reale annullando non solo la distanza dalla fotografia, ma spingendosi in territori dove l'aderenza al vero diviene, all’occhio umano, ammirevole, ma sottilmente scostante. Un canestro di frutta di Luciano Ventrone, a esempio, è più minuzioso di quello, celeberrimo, del Caravaggio; eppure gli è inferiore pittoricamente così come il canestro caravaggesco è inferiore a un qualsiasi fiore o frutto del Botticelli e questo, per intensità, alle rappresentazioni, spesso infedele, presenti negli erbari medievali. Perché tale gerarchia al contrario?
Vediamo. Ventrone è di accecante perfezione: la sua creazione, tuttavia, esaurisce da subito sé stessa risolvendosi in una identificazione totale con la realtà. Caravaggio, invece, si trattiene un passo indietro a favore della malia del colore e dell’impasto; i difetti della frutta alludono a un popolare monito sul memento mori.
I vegetali della Primavera botticelliana vanno ancora oltre. Ogni particolare qui è organizzato al servizio del simbolo sino a provocare una ridda di interpretazioni che, tuttavia, non influenzano la somma armonia dell’opera. Si tratta di una riduzione del Pervigilium Veneris? Oppure di un maestoso catalogo che pre-figura la felicità matrimoniale? O vi si nasconde un complesso intento astrologico? Gli erbari medievali, formalmente più grezzi, celano, da par loro, una significazione al tempo stesso morale, teologica e naturalistica; vi si omaggia cauti la classicità; l’assenza della prospettiva inscrive uomini e vegetali in un cosmo minore, ma da risolversi in un ordine divino; le personificazioni delle Virtù interagiscono fra noi, quali semidei. Una mandragola, insomma, non è solo una pianta, bensì una creazione metafisica che assomma qualità positive e veleni demoniaci e ci parla, per oscuri sentieri, della nostra missione terrena.
Maggiore è la forza del simbolo sotteso, maggiore l'arte.
Il crescente abbandono della simbologia va di pari passo con il progressivo depauperamento della densità espressiva nell’arte, ridottasi dapprima a mera rappresentazione e, quindi, ad astrazione dalla realtà e da ogni ordine celeste.
Non sarà un caso che la natura morta, quale genere a sé stante, s'affermerà durante il Seicento, dopo gli sconvolgimenti religiosi del secolo addietro. Come a dire: il mondo ormai basta a sé stesso.
L’interiorità che non si nutre di simboli e riferimenti celesti è necessariamente dimidiata; svincolata persino dalla figurazione, si autoannienta progressivamente nell’Indistinto.
“Quando un Nuovo Ordine soppianta quello Antico, le spoglie di quest'ultimo vengono sempre utilizzate quale arma a difesa dei vincitori. Perseo taglia la testa alla Gorgone e poi se ne serve per pietrificare i suoi nemici; Ercole scuoia il Leone di Nemea e ne fa un'armatura; Apollo uccide il gigantesco serpente Pitone: la pelle d'esso ricoprirà il tripode della Pizia, sua novella sacerdotessa.
L'Occidente uccide Hitler e utilizza i macabri resti del nazionalsocialismo per terrorizzare chiunque attenti, sia pur lontanamente, alla struttura ormai inconfutabile del capitalismo liberale”, ebbi a scrivere ne La seconda carriera di Adolf Hitler.
L’Arcinemico ha assassinato la cattedrale di Notre-Dame (Nostra Signora); le sue spoglie sono state indossate dal Nuovo Ordine: in spregio all’Antico. Così è per quasi tutto. In Siria, in Iraq, in Armenia, in Afghanistan. In Cina si sono già portati avanti col lavoro, in Russia fu compiuto con la Rivoluzione; manca ancora qualche porzione di pianeta, poi il ragno avrà avvolto nella tela qualunque oggetto, memoria, monito. A Roma hanno infangato l’Arco di Tito, il Colosseo, i Fori Imperiali, le torri medievali, il Pantheon, la Fontana di Trevi. Paiono ancora al loro posto eppure sono scomparse; almeno a occhi che bucano l’attualità.
Un’apocalisse sotterranea, da divano, comodamente gustata dagli olovisori, a tranci di pizza Glovo. Nessuna resistenza. Abbandono. Dolce menefreghismo.
Si crea un pupazzo, uno qualsiasi. Lo si fa abbaiare rabbiosamente al dito. Il pupazzo accumula popolarità. Gli si regala un flauto inaspettato. I lemmings si mettono in fila dietro di lui. Arriva l’endorsement del puparo, fra gridolini di gioia digitale. Si vota.
Si crea un pupazzo, uno qualsiasi. Lo si fa abbaiare rabbiosamente al dito. Il pupazzo accumula popolarità. Gli si regala un flauto inaspettato. I lemmings si mettono in fila dietro di lui. Arriva l’endorsement del puparo, fra gridolini di gioia digitale. Si vota. Si crea un pupazzo, uno qualsiasi. Lo si fa abbaiare rabbiosamente al dito. Il pupazzo accumula popolarità. Gli si regala un flauto inaspettato. I lemmings si mettono in fila dietro di lui. Arriva l’endorsement del puparo, fra gridolini di gioia digitale. Si vota ...
George Harrison col sitar, gli antichissima Veda, i kibbutz israeliani, il libretto rosso di Mao, i mascheroni africani, i dervisci rotanti, i pittogrammi Apache, gli Inti Illimani, il jazz (cool o fusion?) la capoeira, campane tiberane e Dalai Lama, Kunta Kinte, i quilombos, qualche tocco di Giappone qua e là: tale la costellazione esotica fiorita nei testacoda degli anni Sessanta. Il filo rosso che lega queste mode superficiali è uno solo: il rifiuto di Giorgione, Dante e Shakespeare. Erano questi i bersagli, mica altro. Inutile star qui a limare i concetti. L’indottrinamento comincia dal disprezzo di sé stessi. Addestrati a schifare le proprie radici, educati a cialtronate derivative che della forza originaria avevano poco e nulla. Nei salotti borghesi ci si diletta a cicalare d’arte … e che arte … si gettano in soffitta i Bouguereau, deprezzati, ed entrano in pista imitazioni congolesi, tamburi Cheyennes, ciarpame nepalese. La strada è aperta. Da allora sorge la bizzarria, la moda outrè; per chi non può permetterselo c’è il casual più sciocco, come le magliette sportive o universitarie americane; cedono le cravatte, i tailleur e le giacche, sale l’infimo; la stupidità, coltivata per mezzo secolo, si appaga, tutta eguale, nelle botteghe multinazionali a dieci euro il pezzo.
Il giornalismo nasce con l’Illuminismo Nero e morirà con Esso. Ormai è inservibile persino alle cause più ignobili. Chi ne fa parte potrebbe riscattarsi solo recidendosi le vene in un tinozza d’acqua tiepida mentre implora il perdono degli dei.
La libertà o meglio: la perversione del concetto di libertà è il punto da cui partono tutti i calcoli sbagliati dell’Illuminismo Nero, propagatisi con fare pagliaccesco dagli anni Sessanta in poi. Alla radice di tale inversione è la negazione dell’aristocrazia, della nobiltà, dell’intelligenza, della selezione, se mi passate il termine. Più cialtroni partecipano maggiore è la libertà. Più inetti si laureano meglio progrediremo. Più radio libere ci saranno più garantita sarà la nostra democrazia. Qualcuno forse ricorderà Radio Free Europe/Radio Liberty, fondata a New York nel 1949. Essa intendeva “liberare” i poveri comunisti dal loro servaggio e mirava a destabilizzare le terre d’oltrecortina con la messaggistica del tempo infarcita delle consuete idiozie parademocratiche. Da questo modello maleodorante presero a svilupparsi, anche da noi, le spinte antimonopolistiche contro la RAI. Nel 1976, infatti, a due anni dall’Omicidio per excellence, quello di Aldo Moro, viene sancita dalla cosiddetta Corte Costituzionale “la liberalizzazione dell’etere”. Vedete come certo laissez faire, in nome della libertà, abbia da sempre minato le istituzioni, ben prima del Moloch europeo. A distanza di nemmeno mezzo secolo, dopo i primi esperimenti, che pur diedero qualche risultato interessante, lo spettacolo libertario è sotto i nostri occhi: non esiste una radio ascoltabile. I mille canali di libertà promessi si sono ridotti a un oligopolio ferreo; chi cercava di proporre qualcosa è stato spazzato via fra Ottanta e Novanta; residua materia fecale, soprattutto di ascendenza milanese. Lazzi, frizzi, allusioni sessuali, goliardate, finti esperti, finti cantautori, sparizione della musica, delle inchieste giornalistiche, del buon gusto; si parla di sciocchezzuole elevandole a svolte storiche e si derubrica la storia a episodio boccaccesco o pettegolezzo (il Duce faceva questo, Togliatti faceva quello: in ciò eccellono alcuni sicari dei padroni); proliferano i quiz, i messaggini digitali, che tempo che fa, il chiacchiericcio; quest’ultimo, spalmato per ventiquattro ore su ventiquattro, inghiotte ogni logica, un pur minima e auspicabile isola di raziocinio; si strepita, ci si azzuffa su quisquilie, oppure, au contraire, si si balocca con le nuove scienze: il clima, gli animali, la letteratura leggera, l’arte leggera poiché tutto ha da essere light altrimenti al cretino 2.0 viene l’emicrania; l’homunculus del Ventunesimo Secolo, finalmente liberato, ha creato un implacabile conformismo totalitario e vi nuota ogni giorno come nell’Indistinto – l’ennesimo epifenomeno del Nulla. Gli scherzi, la parodia, il calembour trito costituiscono l’unico orizzonte d’una vita miserabile, vissuta nella Shunned House; s’ignora la Creatura che ha succhiato l’anima, la volontà, il midollo della fierezza.
H. P. Lovecraft in The shunned house (La casa sfuggita, 1924) evoca “un edificio triste ed in rovina appollaiato sul fianco scosceso della collina, con un grande cortile abbandonato risalente ai tempi in cui la regione era ancora in gran parte costituita da aperta campagna”.
Decine di suoi abitanti in un secolo e mezzo vi hanno perso la vita, deperendo giorno dopo giorno. Famiglie felici, poi fiaccate dai lutti; bambini vampirizzati, neonati illividiti nella culla, giovani dapprima in salute e quindi lentamente sfibrati da un Qualcosa di Indefinibile, un orrore invisibile quanto pervasivo.
“Noi ragazzi ci recavamo spesso nei dintorni a giocare, e ricordo ancora il mio terrore infantile non solo per la sinistra stranezza della torva vegetazione, ma soprattutto per l'odore e l'atmosfera soprannaturale che incombevano sull'edificio diroccato, nel cui portone principale, rimasto aperto, entravamo alla ricerca del brivido. Le finestrelle pannellate erano quasi del tutto rotte, e un senso indefinibile di desolazione aleggiava sulle persiane in equilibrio precario che si muovevano nell'interno, sulla carta da parati strappata, sull'intonaco cadente, sulle scale traballanti e sui resti di mobilio tarlato che ancora rimanevano in piedi …
Ma, dopotutto, la soffitta non era la parte più spaventosa della casa.
Era invece la cantina umida e fradicia a ispirarci la maggior repulsione, nonostante si trovasse a livello della strada, con la sua fragile porta e il muro di mattoni eretto per separare la finestra dal marciapiede chiassoso.
Non sapevamo bene se giocare ai fantasmi o allontanarcene per salvaguardare le nostre anime e la nostra sanità mentale, sia perché lì dentro la puzza era più forte, sia perché non ci piacevano le muffe bianchicce che si sviluppavano nelle estati piovose sul pavimento di terra.
Quei funghi, grotteschi come la vegetazione esterna, avevano dei contorni veramente orribili ... marcivano velocemente e, quando erano arrivati ad un determinato stadio, assumevano una lieve fosforescenza.
Per questo motivo i passanti notturni parlavano a volte dei fuochi fatui delle streghe che brillavano dietro ai pannelli rotti delle finestre maleodoranti”.
Cosa rende tale luogo maledetto?
Ciò che è sepolto nel fradiciume delle fondamenta, “la creatura diabolica che aveva infestato la casa con le sue emanazioni per oltre un secolo e mezzo. Mi chiedevo che aspetto avrebbe avuto, di che sostanza poteva essere, e di quanto fosse cresciuta in tutti quegli anni che aveva passato a succhiare la vita”.
Una mostruosità gigantesca, proliferante, di cui il protagonista, dopo vari sforzi, riesce a mettere in luce solo parte del titanico braccio. In quel pertugio, grazie all’aiuto dello zio (che morirà nell’operazione), verserà decine di litri di acido solforico che dissolveranno l’incubo.
Nulla sarà come prima, ci dice Howard, e la distruzione non passa invano. Eppure, da allora, “i vecchi alberi spogli hanno cominciato a riempirsi di mele dolci, e l'anno prossimo gli uccelli faranno nuovamente il nido tra i loro rami nodosi”.
La natura dei fenomeni ama nascondersi.
Un enorme sacrificio viene richiesto per la salvezza.
La vittoria ha probabilità infime.
Chi vuole intendere intenda.
Il protagonista di American beauty vuole la deresponsabilizzazione. E sia. Sabbacadabra. Non hai più responsabilità di nulla poiché hai nulla. Ah che pace, che felicità!
Come ampiamente previsto, nei paesi più avanzati (leggi: putrefatti) i suicidi superano gli omicidi. Un risvolto del Quietismo Nero - la pace! - da tener celato. Per questo l’immobilismo della carcassa occidentale in necrosi irreversibile deve essere continuamente scosso da falsi allarmi sulla violenza: femminicidi, brutalità poliziesche, stupri, recrudescenza del nazionalsocialismo. In verità non succede quasi nulla, il cadavere non ha la minima volontà di muoversi: in quanto cadavere. E però si grida alla violenza, una violenza dilagante, terribile … Per far ciò basta infilarsi una trombetta su per il culo e sforzarsi un pocolino: l’effetto vien sempre raggiunto. Come per il climate change. Nella storia dell’umanità ci son sempre state catastrofi ed ecatombi, dai terremoti agli incendi alle inondazioni, eppure Valencia è stata travolta dall’emergenza climatica … ingrandire la normalità sin all'anormale: i soliti trucchi.
Me ne vado al Museo delle Terme di Diocleziano. Il tragitto è un inferno. Mendicanti obese, suonatori di clarinetto, borseggiatori dodicenni, poveracci alla deriva, squatter in bicicletta, negri che vendono libriccini di Sedar Senghor, ucraine con passeggini autoarticolati, scale mobili in dismissione, labirinti sotterranei, fiumane d’umanità con la fregola del turismo, orde di turisti con la fregola del cappuccino, cappuccini con latte di soia senza schiuma, caffè che sanno di piscio di gatto, empori seriali con rada e costosa mercanzia oppure ricolmi di ciarpame, librerie nichiliste, visori ciclopici che illustrano costose essenze multinazionali; una tizia si accoccola per pisciare in via Gioberti, un bengalese spaccia castagne; le strade, una volta castamente illuminate per il Natale, ora s’intravedono appena fra la segnaletica invasiva, la cartellonistica debordante e la pletorica dei lavori in corso. Individui inutili sciamano verso chissà cosa. Il Museo, risistemato, pare in disarmo. Il Giardino dei Cinquecento accoglie pezzi privi di indicazioni, abbandonati allo sfarinamento. Riconosco un sarcofago efesio rinvenuto dalle mie parti pochi anni fa. Restaurato, m'appare già ammalorato dalle colature di pioggia e smog. Le sale son sempre quelle, forse, ma sembrano più piccole, dimesse. Chiedo lumi sul Dioniso dell'Acquatraversa; la responsabile del settore mi rimanda al web: lì c’è il catalogo. “Sì, ma dove?”, insisto. Lì, sul web. Lascio perdere. I visitatori stanno lì a strusciare neanche fossero a fare shopping. Una coppia emiliana se la ride di gusto. Le uniche attente sono due signorine orientali. Il volto di Antonino Pio ci guarda, nemmeno troppo convinto.
Scrive Giampaolo Dossena nella sua Storia confidenziale della letteratura italiana: "In San Petronio [Bologna] avviene per l'ultima vota una cerimonia medievale: il Papa impone a Carlo V la corona ferrea del regno d'Italia (22 febbraio 1530) e la corona imperiale (24 febbraio 1530). Suona bene che in questa occasione qualcuno sogni un'altra cerimonia medievale: una impossibile rinascita del latino. Davanti alle corti riuniti di Carlo V e di Clemente VII Romolo Amaseo pronuncia due orazioni De linguae latinae usu retinendo sulla necessità d conservare l'uso della lingua latina ... Non si può fissare la data di morte del latino ... però [a] questo 1529-1530 si son fatti buoni passi".
Retrocedo questa data fatale (la fine del Medioevo) di qualche decennio, al 19 marzo 1452. Il matrimonio tra Federico III d'Asburgo ed Eleonora d'Aviz del Portogallo, unti a Roma quali imperatori del Sacro Romano Impero. Gli ultimi re a scendere rispettando codici di comportamento, giuramenti e norme (ordines) di più antico conio.
Da quel giorno la Storia prende a correre.
Il 29 maggio dell'anno seguente, 1453, cade Costantinopoli e l'idea stessa della monarchia europea nella concezione dantesca.
Il 1492 inaugura la globalizzazione.
I regicidi di Shakespeare presagiscono Cromwell che libera l'Usura.
L'Europa si frantuma.
Divisa, verrà massacrata lentamente, uomo per uomo.
Il 2024 era già dietro l'angolo.
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