Pubblicato il 2 agosto 2013
Il
28 giugno 1981, su L’Espresso, uscì un articolo a firma di Italo
Calvino: Italiani, vi esorto ai classici. In esso lo scrittore elencava
quattordici punti a favore della lettura dei classici letterari
cercando, altresì, di definirne la natura.
Riporteremo queste graduali stazioni di apprezzamento, commentandole brevemente; quindi, per vostra sfortuna, ne aggiungerò altre quattro, personali.
Le stilerò in una sorta di post scriptum, a parte: in tal modo potrete bellamente evitarle e, per vostra fortuna stavolta, tornare alle pagine insabbiate del libro favorito.
1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: "Sto rileggendo ..." e mai "Sto leggendo ..."
Calvino si chiede: Quanti, che dicono di rileggere, in realtà leggono per la prima volta? Quante opere fondamentali (Tucidide, Balzac, Properzio, Saint Simon) giacciono inesplorate nelle nostre biblioteche? Per fortuna non esiste una particolare età della vita in cui cominciare tali letture: “Leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più”.
Riporteremo queste graduali stazioni di apprezzamento, commentandole brevemente; quindi, per vostra sfortuna, ne aggiungerò altre quattro, personali.
Le stilerò in una sorta di post scriptum, a parte: in tal modo potrete bellamente evitarle e, per vostra fortuna stavolta, tornare alle pagine insabbiate del libro favorito.
1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: "Sto rileggendo ..." e mai "Sto leggendo ..."
Calvino si chiede: Quanti, che dicono di rileggere, in realtà leggono per la prima volta? Quante opere fondamentali (Tucidide, Balzac, Properzio, Saint Simon) giacciono inesplorate nelle nostre biblioteche? Per fortuna non esiste una particolare età della vita in cui cominciare tali letture: “Leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più”.
2.
Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi
li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi
si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni
migliori per gustarli.
Qui
Calvino distingue opportunamente fra letture di gioventù e letture
mature: “… le letture di gioventù possono essere poco proficue per
impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso,
inesperienza della vita … formative nel senso che danno una forma alle
esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone,
schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte
cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci
si ricorda poco o nulla”. Un’esperienza subliminale, ma proficua: quando
rileggeremo un classico in età più tarda potremmo accorgerci che quel
seme, che avevamo gettato negligentemente, aveva in realtà donato frutti
che solo ora, col senno di poi, possiamo gustare.
3.
I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia
quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle
pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o
individuale.
Dice
Calvino: “… ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a
rivisitare le letture più importanti della gioventù. Se i libri sono
rimasti gli stessi (ma anch'essi cambiano, nella luce d'una prospettiva
storica mutata) noi siamo certamente cambiati, e l'incontro è un
avvenimento del tutto nuovo”.
Leggere
il finale de I duellanti di Conrad a diciotto anni porta ad alcune
conclusioni. Rileggerlo in vista della mezza età (che dolore quel Féraud
assolutamente sconfitto!), ricchi delle cicatrici della delusione,
rende consapevoli d’una verità definitiva, che non si credeva di dover
vivere.
4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.
5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.
6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
La
rilettura (o la lettura) può regalare sorprese poiché a mutare non è
solo il nostro animo particolare, come nel caso de I duellanti, ma le
stesse condizioni storiche in cui un classico è maturato. In un racconto
felice e paradossale di Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte,
il protagonista riscrive parola per parola, virgola per virgola il
capolavoro di Cervantes. “Il testo di Cervantes e quello di Menard sono
verbalmente identici, ma il secondo è quasi infinitamente piú ricco.
(Piú ambiguo, diranno i suoi detrattori; ma l'ambiguità è una
ricchezza)”: fra l’uno e l’altro, infatti, intercorrono quattro secoli
di invenzioni, guerre, filosofie, mutamenti del costume. Quando don
Chisciotte, ad esempio, in un celebre monologo, si pronuncia a favore
della guerra contro le lettere, un secentesco vi scorge solo l’elogio
della battaglia celebrato da un vecchio soldato (quale Cervantes era);
il lettore attuale, invece, un certo profumo di superomismo …
7.
I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia
delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia
che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato
(o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).
Quanti
Amleti esistono? Innumerevoli, come le sue interpretazioni. Amleto
finge o è davvero folle? Egli è un accorto politico, oppure un
nichilista, uno scettico, un debole? Vale la spiegazione psicoanalitica o
quella, barbarica, della vendetta, di ascendenza pagana e germanica?
Amleto anticipa la modernità o è una riconferma potente dell’eroe
tragico greco? L’Amleto di Kozincev, di Richardson o di Zeffirelli?
8.
Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di
discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
Mai
leggere introduzioni e saggi - sembra dire Calvino - abbeveriamoci alla
fonte. La migliore storia della letteratura italiana, quella di
Gianfranco Contini, si apre con queste parole: “Si è largheggiato in
didascalie che … consentano l’accesso immediato ai testi …”; poi si
lamenta: “La rappresentazione caricaturale … del dotto che sa tutto
della bibliografia su un autore, ma non legge (o perlomeno non rilegge, o
non legge compiutamente) l’autore stesso … è il modello negativo da
proporre subito al rifiuto”.
Dopo
la scuola chi ha mai letto I Promessi Sposi? Marchiati a fuoco da
prolusioni interminabili, costretti da schemi micidiali come la Vergine
di Norimberga, o da parole d’ordine ormai proverbiali: la Provvidenza,
Enrichetta Blondel, la conversione. Rileggetelo, invece, con animo
nuovo, magari in autunno: scoprirete che qualcosa non va, che quello che
ci hanno raccontato, ora che non dobbiamo più acconciarci al
conformismo del voto quadrimestrale, non persuade a fondo. Rileggete i
primi otto capitoli, meravigliosamente scritti. Filano come una favola
romanzesca, il lago di Como, Agnese, Don Abbondio, gli sponsali a
sorpresa; poi, arrivati al capitolo di Gertrude, qualcosa si inceppa, la
Storia irrompe (sopraffazioni, pestilenze, distruzioni), la lettura si
fa più aspra. Manzoni è un autore a doppio fondo, occorre osservarlo in
modo nuovo, obliquo; le sorprese son dietro l’angolo.
9.
I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito
dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi,
inaspettati, inediti.
Mai
fidarsi del sentito dire. Provate - lo consiglia anche Calvino - a
leggere Emile Zola (Francesco Zolla). Chissà cosa immaginate di lui. La
cascata di pagine, la piombatura melodrammatica, lo sfondo sociale
invadente. Non è così. Leggendolo troverete, invece, un autore radicale,
sorprendente che, a 111 anni dalla morte, ancora si ritrova con qualche
libro semiclandestino sul groppone: Lourdes, già messo all’indice dal
Papa, oppure il grandioso Roma, ripubblicato quest’anno dopo un secolo
di attesa, o l’attualissimo Il denaro, che possiamo gustare solamente in
un’edizione da pochi soldi della Newton Compton; e, perché no, La
disfatta (quella della guerra franco-prussiana) che ebbe stentata
circolazione proprio in Francia a causa di vecchie ferite nazionaliste.
Ci sono tante porte da aprire.
10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani.
Un
livre de chevet, un libro per la vita, in cui si ritrova tutta la
nostra etica, tutte le nostre pulsioni. Ma anche un mundus, un
crepaccio, un’apertura verso il cuore della ben rotonda verità. Non
importa dove si cominci a scavare, gli arrivi, per i lettori
intelligenti, si somigliano tutti e son sempre rivelatori.
11.
Il ‘tuo’ classico è quello che non può esserti indifferente e che ti
serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.
Nietzsche
è un classico? Ovviamente sì; e anche un complesso filosofico con cui
si ingaggia, vita natural durante, un costante corpo a corpo. Ancora: I
proscritti di Ernst von Salomon sono un classico straordinario. Il libro
narra le vicende di alcuni veterani tedeschi, reduci dalla Prima Guerra
Mondiale (fra essi l’autore); delusi dal comportamento del Kaiser,
inaciditi dalla sconfitta, umiliati dalle condizioni di pace imposte al
proprio Paese, si organizzano nei Freikorps, antesignani delle camicie
brune naziste, unità paramilitari utilizzate in funzione anticomunista; i
Freikorps arrivano all’omicidio politico, di Rathenau, di Rosa
Luxemburg, di Karl Liebknecht. Su tutta l’opera, dalla prosa
potentissima, aleggia un sentore di morte imminente, di sfascio
inevitabile. Un libro complesso e da meditare, a cui si può opporre un
rifiuto ideologico, ma che definisce anche il nostro tempo (questo, del
2013) e, di conseguenza, noi stessi, messi in rapporto con
l’implacabilità delle dinamiche storiche. Ecco uno dei protagonisti: “Ma
si tratta della lotta contro l’Occidente! Della lotta contro il
capitalismo! Diventiamo comunisti! Io sono pronto a venire a patti con
chiunque combatta dalla mia parte!”. Durante i prossimi anni, in Italia,
quando salteranno tutte le appartenenze di fede e partito e,
inevitabilmente, avverrà uno scontro epocale tra fascismi, ci si
ricorderà di queste righe fatali, di questo classico di Weimar.
12.
Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha
letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto
nella genealogia.
Questo
è sacrosanto. L’opera omnia in 102 volumi di Heidegger, che, secondo
alcuni, è un classico, sono meno importanti delle tre righe
sopravvissute di Anassimandro. Imporsi una gerarchia di valori è
doveroso.
13.
È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di
fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a
meno.
Si
chiede Calvino: come mettere in relazione la lettura dei classici con
la lettura di altre opere che classici non sono, ovvero giornali,
pubblicazioni di lavoro, ciarpame vario? Risposta: “Il massimo
rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa
alternare con sapiente dosaggio la lettura d'attualità … per poter
leggere i classici si deve pur stabilire 'da dove' li stai leggendo,
altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza
tempo … forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori
della finestra, che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli
sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il discorso dei classici che suona
chiaro e articolato nella stanza”. Queste dichiarazioni ideologiche lo
portano all’ultima affermazione:
14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.
“Leggere
i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita, che non
conosce i tempi lunghi, il respiro dell'otium umanistico; e anche in
contraddizione con l'eclettismo della nostra cultura che non saprebbe
mai redigere un catalogo della classicità che fa al caso nostro”. In
altre parole: una cultura basata sui classici è oggi impensabile;
occorre scendere a patti col nemico, vivere la vita attuale dove gli
impegni (il lavoro, le mail, facebook, i contatti telefonici, la
televisione) assorbono la quasi totalità del nostro interesse; bisogna
resistere come maquisards, far sì che la lettura di Montaigne e Leopardi
sia il filo rosso della nostra esistenza (nonostante il continuo
logorio della vita moderna, verrebbe da dire).
Calvino
che, ricordiamolo, scriveva nel 1981, prima dell’apocalisse da
supermercato, sbagliava. Almeno in queste due ultime proposizioni.
Parecchia attualità è quella che è, ciarpame eliminabile. Il rumore di
fondo della vita si può spegnere, come la televisione e il cellulare.
Fanno ridere quelli che dicono: “Non ho tempo!”, poi sacrificano quattro
ore della propria esistenza, che non tornerà più, a vedere pezzi di
Ballarò, pubblicità, telegiornali, partite truccate, Don Matteo 9. Lo
ammetto, c’è un costo sociale nello spegnere il mondo, ma va pagato
senza contrizioni. Anche perché i classici occorre viverli, farli
entrare nel proprio sangue, tramutarli in etica quotidiana e per far
questo occorre tempo.
* * * * *
Considerazioni finali
Considerazioni finali
I. Un classico si riconosce dall’azione che il tempo esercita su di esso. Un classico possiede la statica solenne di un tempio antico.
John Ruskin è a Venezia, Settembre 1851. Nei suoi diari annota d’aver catturato due pesci “nelle acque basse di fronte a San Giorgio Maggiore, nella Giudecca”. Li ha posti in una catinella. Uno “... si tiene in equilibrio nell’acqua con una continua ondulazione della coda e un tranquillo battito delle pinne pettorali. Non sta quieto un momento, ma non è mai agitato. Mi accosto a guardarlo; si volge un poco e mi guarda e seguita a muovere calmo calmo la sua squisita coda”. L’altro “giace … con il capo pesante e il pigro corpo appiattito contro il fondo … ma che io tocchi il catino, che in un modo o nell’altro disturbi il suo senso di proprietà … in un baleno eccolo da tutti e quattro i lati del catino al tempo stesso, a volare all’impazzata, a flagellare, a sfrecciare, a saltare, a far capriole e a spruzzarmi d’acqua la faccia a ogni lancio: una vera e propria esplosione di furia ittica. E ... dopo aver picchiato con il capo una cinquantina di volte contro il catino e aver cacciato tutto il fiato fuori di corpo … cala di nuovo al fondo, come un sasso”.
Mario Praz, che commenta i Diari, identifica il primo pesce col tipo classico, il secondo con quello romantico. Mi approprio della sua definizione, ma la correggo: il primo pesce è un classico, il secondo, per esclusione, un non-classico. Un classico non ha bisogno d’agitarsi, ha la certezza dell’imperituro: “Domani ami chi mai ha amato, e chi ha già amato, anche domani ami”, “Non temiamo la morte, ma la paura della morte”, “Maravigliosamente un amor mi distringe”; i classici non temono la banalità, non fanno nulla per farsi accorgere di loro, sono lì da sempre, prima ancora di essere scritti. Un non-classico è un cafone arricchito col cilindro in testa, un tizio che si agita in secondo piano per farsi notare dalle televisioni, che urla, che bazzica, uno del mestiere, un ruffiano che si veste di giallo canarino. Nel migliore dei casi un calcolo o una didascalia eliminabili, a volte anche piacevoli e rilassanti, ma inessenziali. Riferendoci a un’arte minore: Gli spietati è un western classico, Django no.
II. Un classico è sempre semplice e profondo perché, da ultimo, parla della tragedia eterna di Amore e Morte.
Essere e non-essere, Amore e Morte. La letteratura è la pressoché infinita permutazione e mascheramento di questi due tratti eterni dell’uomo. La forza che nella verde miccia spinge il fiore, la vitalità, l’amore e, di contro, la sua assenza, la morte, la quiete, il dolore. Quante coloriture assumono tali due concetti nei classici! Edgar Allan Poe, ne La filosofia della composizione, scrive: “Di tutti i temi malinconici, qual è il più malinconico, secondo la mentalità umana universale?” “La Morte”, è stata l’ovvia risposta. “E quando è massimamente poetico”, mi sono chiesto ancora, “questo che è il più malinconico di tutti i temi?” Da quanto ho già illustrato ampiamente derivava, anche qui, una risposta scontata: “Quando si allea più strettamente alla Bellezza: quindi la morte di una bella donna costituirà indiscutibilmente il tema più poetico del mondo. Altrettanto indubbiamente, la voce più indicata per sviluppare questo tema sarà quella di un suo amante in lutto per lei”.
L’amore e la vita trionfanti e la sua negazione; la gioia che dura un giorno e la perdita, il canto nostalgico. Infinite variazioni sul tema.
III. Un classico rivela il fondo ultimo della vita universale.
Un classico, quasi sempre, allude al fondo ultimo dell’esistenza. Supponiamo di avere un grande quadro, impreziosito da una bella cornice istoriata, una tela misteriosa e profonda. Eccola qua:
Quanti
particolari si impongono alla nostra attenzione! Le nubi temporalesche,
il fulmine, il ponte, i riflessi nell’acqua, le bellissime costruzioni a
mezzo fra il paesaggio e le figure in primo piano, gli alberi, le
rocce, la fronda che copre pudicamente la partoriente e il bambino, i
panni e le loro dolci piegature, l’uomo sulla sinistra a metà fra
guardiano templare e pastore arcadico. Gli esempi si potrebbero
moltiplicare, ogni centimetro quadro del dipinto potrebbe rivelare una
funzione, possedere una qualità estetica particolare. Ed è ciò che è
stato fatto: tali minute analisi noi le chiamiamo con nomi diversi,
sociologia, psicologia, antropologia, chimica, estetica, economia,
meccanica, astronomia, diritto, interminabili glosse alle varie parti di
un unico immenso dipinto. Ma il classico non ha bisogno di tutto
questo, egli impone subito la visione totale ai nostri occhi; egli
afferma (a volte in maniera segreta o parlando d’altro): “Ecco, io non
ho bisogno di fingere, di girare in tondo, voi potete anche perdervi nei
dettagli e indugiare nelle minuzie; a me questi interessano solo per la
finzione poetica, per comporre la verità nel suo insieme abbagliante,
nella propria rivelazione definitiva; ecco il quadro nella sua
interezza, ecco il fondo finalmente manifesto, ecco le vostre esistenze e
i vostri destini, non vedete come sono meravigliosi e terribili?”
IV. In seguito a tale rivelazione noi siamo fatti altri.
Un classico, che impone queste verità, non può che entrare in circolo nel sangue non solo dell’attento lettore, predisponendo a una nuova etica, ma anche di colui che aspira a scrivere.
Ci rifaremo di nuovo a Edgar Allan Poe, alle prime righe di Una discesa nel Maelström:
“Avevamo raggiunto il sommo della rupe più elevata.
E per qualche momento il vecchio parve troppo esausto per parlare.
‘Non è passato tanto tempo’ disse alla fine ‘da quando io avrei potuto guidarvi su questa strada come il più giovane dei miei figlioli; ma circa tre anni or sono, mi capitò una avventura quale non è mai toccata a essere umano o almeno a essere che le sia sopravvissuto per raccontarla; e le sei ore di terrore mortale che ho passate allora, mi hanno rovinato anima e corpo. Voi mi credete vecchissimo, ma non lo sono. Ci volle meno di un giorno per farmi diventare bianchi i capelli, per fiaccarmi le membra e scuotermi i nervi così da tremare a ogni più piccolo sforzo, e da aver paura di un’ombra. Lo credereste che quasi non posso guardare giù da questa piccola rupe senza essere preso da vertigine?’
La ‘piccola rupe’ sull’orlo della quale il vecchio si era negligentemente sdraiato per riposarsi (in modo che la parte più pesante del corpo sporgeva nel vuoto, e l’unica cosa che lo ratteneva dal cadere era il gomito puntato contro lo sdrucciolevole angolo estremo della roccia), quella ‘piccola rupe’ di nero granito lucente si ergeva a picco di un millecinque o seicento piedi sopra il mondo caotico delle rocce sottostanti. Per quanto mi riguarda, nulla al mondo avrebbe potuto tentarmi ad avvicinarne l’orlo più in là della mezza dozzina di piedi che me ne separavano.
Mi sentivo così agitato dalla posizione pericolosa del mio compagno, che mi lasciai andare lungo disteso al suolo, afferrandomi ad alcuni cespugli vicini, senza nemmeno aver il coraggio di alzare gli occhi al cielo. E invano mi sforzavo a scacciare l’idea che le stesse fondamenta della montagna fossero poste in pericolo dalla furia dei venti. Mi ci volle del tempo per cedere alla ragione e trovare il coraggio di mettermi a sedere e spingere lo sguardo nella distanza”.
Il vecchio, che è disceso nel gorgo marino del Maelström, e ha visto morire i propri fratelli, è un trasfigurato. Egli può guardare nell’abisso senza vacillare; il giovane invece no. Il vecchio è un iniziato, ha capito la verità depositata o mascherata: ora non sente alcuna noia, dimentica ogni affanno, non teme la povertà, non lo sbigottisce la morte. La sua anima è ormai un ricetto gigantesco e può colorare di luce particolare ogni oggetto o sentimento, anche triviale. Il gusto, ormai ben temperato, può discettare di bassa politica, crinoline, amorazzi, ciabatte, pietre, pavoni, sentieri nel bosco; inventare, mentire, ritrattare, provocare, scandalizzare. Il non iniziato, invece, deve limitarsi ad imitare, a carpire piccole nozioni psicologiche, aneddoti, profumi, ad affastellare particolari disomogenei: la sua opera sarà sempre composita, derivativa, senza stile proprio, dal fiato corto (ma non è detto che non possa sfornare best seller, anzi).
L’arte è una mistica esigente; e pochi sono gli eletti.
IV. In seguito a tale rivelazione noi siamo fatti altri.
Un classico, che impone queste verità, non può che entrare in circolo nel sangue non solo dell’attento lettore, predisponendo a una nuova etica, ma anche di colui che aspira a scrivere.
Ci rifaremo di nuovo a Edgar Allan Poe, alle prime righe di Una discesa nel Maelström:
“Avevamo raggiunto il sommo della rupe più elevata.
E per qualche momento il vecchio parve troppo esausto per parlare.
‘Non è passato tanto tempo’ disse alla fine ‘da quando io avrei potuto guidarvi su questa strada come il più giovane dei miei figlioli; ma circa tre anni or sono, mi capitò una avventura quale non è mai toccata a essere umano o almeno a essere che le sia sopravvissuto per raccontarla; e le sei ore di terrore mortale che ho passate allora, mi hanno rovinato anima e corpo. Voi mi credete vecchissimo, ma non lo sono. Ci volle meno di un giorno per farmi diventare bianchi i capelli, per fiaccarmi le membra e scuotermi i nervi così da tremare a ogni più piccolo sforzo, e da aver paura di un’ombra. Lo credereste che quasi non posso guardare giù da questa piccola rupe senza essere preso da vertigine?’
La ‘piccola rupe’ sull’orlo della quale il vecchio si era negligentemente sdraiato per riposarsi (in modo che la parte più pesante del corpo sporgeva nel vuoto, e l’unica cosa che lo ratteneva dal cadere era il gomito puntato contro lo sdrucciolevole angolo estremo della roccia), quella ‘piccola rupe’ di nero granito lucente si ergeva a picco di un millecinque o seicento piedi sopra il mondo caotico delle rocce sottostanti. Per quanto mi riguarda, nulla al mondo avrebbe potuto tentarmi ad avvicinarne l’orlo più in là della mezza dozzina di piedi che me ne separavano.
Mi sentivo così agitato dalla posizione pericolosa del mio compagno, che mi lasciai andare lungo disteso al suolo, afferrandomi ad alcuni cespugli vicini, senza nemmeno aver il coraggio di alzare gli occhi al cielo. E invano mi sforzavo a scacciare l’idea che le stesse fondamenta della montagna fossero poste in pericolo dalla furia dei venti. Mi ci volle del tempo per cedere alla ragione e trovare il coraggio di mettermi a sedere e spingere lo sguardo nella distanza”.
Il vecchio, che è disceso nel gorgo marino del Maelström, e ha visto morire i propri fratelli, è un trasfigurato. Egli può guardare nell’abisso senza vacillare; il giovane invece no. Il vecchio è un iniziato, ha capito la verità depositata o mascherata: ora non sente alcuna noia, dimentica ogni affanno, non teme la povertà, non lo sbigottisce la morte. La sua anima è ormai un ricetto gigantesco e può colorare di luce particolare ogni oggetto o sentimento, anche triviale. Il gusto, ormai ben temperato, può discettare di bassa politica, crinoline, amorazzi, ciabatte, pietre, pavoni, sentieri nel bosco; inventare, mentire, ritrattare, provocare, scandalizzare. Il non iniziato, invece, deve limitarsi ad imitare, a carpire piccole nozioni psicologiche, aneddoti, profumi, ad affastellare particolari disomogenei: la sua opera sarà sempre composita, derivativa, senza stile proprio, dal fiato corto (ma non è detto che non possa sfornare best seller, anzi).
L’arte è una mistica esigente; e pochi sono gli eletti.
Beh, a questo punto dicci qual è il tuo ( o uno dei tuoi) " classico".....
RispondiEliminaConsiglio, per questi tempi, I proscritti, Nelle tempeste d'acciaio e Philip Dick.
EliminaNegli anni ho scoperto che tutta le letteratura dei reduci della grande guerra è meravigliosa, da Celine a Remarque a Hemingway. Grande profondità, un po di nichilismo,molta disperazione. Una generazione di giovanissimi a cui è stato sottratto l'incanto.
RispondiEliminasi ma c'è classico e classico...diciamolo!
RispondiEliminaIo sono uno di questi esseri eccezionali; sì, monsieur, lo credo; fino a oggi nessun uomo si è trovato in circostanze simili alle mie. I regni dei monarchi sono circoscritti da montagne, da fiumi, da cambiamenti di costumi o di lingua. Il mio regno, invece, è grande come l'universo perché non sono né italiano, né francese, né indiano, né americano, né spagnolo: io sono cosmopolita. Nessun paese può dire di avermi visto nascere; Dio solo sa quale terra mi vedrà morire. Io adotto tutti gli usi, parlo tutte le lingue. Voi mi credete francese, non è vero? Perché parlo il francese con la stessa facilità e purezza di voi. Ebbene! Alì, il mio moro, mi crede arabo; Bertuccio, il mio intendente, mi crede romano; Haydée, la mia schiava, mi crede greco. Dunque capirete che, non essendo di alcun paese, non chiedo protezione ad alcun governo; non riconoscendo alcun uomo per mio fratello, non può arrestarmi né paralizzarmi alcuna sorta di scrupoli che arrestano i potenti o di ostacoli che paralizzano i deboli. Io non ho che due avversari, non dirò due vincitori, perché li sottometto con la tenacia: la distanza e il tempo.
Alexandre Dumas (padre) - Il conte di Montecristo
Ho letto i proscritti l'anno scorso. Un libro molto duro, un numero esorbitante di gente che muore ammazzata. O quando introduce i suoi compagni, e poi specifca immancabilmente che il tale morirà un anno dopo nei moti anticomunisti di Tubinhauser, l'altro verrà trovato impiccato 3 mesi dopo nella prigione di Gustavkrantz ecc.
RispondiElimina"Divertente", anche se non discosto dall'alone del tragico di cui tutti i personaggi del libro sono investiti, il ritratto di un nichilista alienato che si osservava con distacco mentre compiva azioni sacrileghe, nel frattempo commentadole a viva voce: "violenza e tafferugi in luogo pubblico" mentre impegnato in una rissa in birreria, mi pare, e poi "resistenza a pubblico ufficiale" quando vengono ad arrestarlo. Morirà anche lui di li a poco.
Vi è un episodio però cui fatico a credere: il suo battaglione freikorps torna in germania e si accampa in una scuola. A loro insaputa, vi è in città la caserma di un reggimento di arteglieria dell'esercito, con gli ufficiali comunisti. QUesti - avendo saputo i corpi franchi in città - nottetempo montano mitragliatrici nelle case prospicienti la scuola, e il giorno dopo si palesano. Le trattative saltano, e comincia un atto di guerra sanguinolento che vede la presa finale della scuola, e l'annientamento del corpo franco in questione. Tra i prigionieri arresi, gli ufficiali vengono tutti malmenati a morte, gli altri devono ascoltare un commissario del popolo. Dato il numero di morti che dovrebbe essere superiore a quello della strage di Beslan, ho pensato a un fatto storico riconosciuto, ma non ne ho trovato traccia su internet.
L'organizzazione e l'azione dell'omicidio di Rathenau presentano il personaggio titanico di Kern e sono pagine memorabili. Da strapparle dal libro e spedirle imbustate a qualche politico sedicente antieuropeista moderato.
In ultimo c'è da dire che a von Salomon è andata bene, ha trascorso il periodo dell'iperinflazione di Weimar in carcere. Ne è uscito coi denti marci, ma vabbè.
Bisognerebbe leggere: "Un destino tedesco. L'autobiografia di uno scrittore ribelle condannato da Weimar, incarcerato da Hitler, processato dagli americani". Dovrei averlo da qualche parte. Se trovo riscontri te lo farò sapere.
EliminaSi, ricordo di aver letto che l'altra sua opera principale è una satira contro il processo di denazistificazione mandato avanti dagl iamericani in germania. Tra l'altro lui non aderì nemmeno al nazismo quando venne al potere, un vero bastian contrario.
EliminaE' bello anche 'fanteria all'attacco' di Rommel. Molto splatter anch'esso, ma nessuna pretesa letteraria. Lo intendeva come un manuale per scuola di fanteria d'assalto. Da hitler a patton ne furono tutti entusiasti, rommel gli deve la carriera, a metterlo a capo di un panzergruppe nell'invasione della francia ce l'ha messo hitler, lui era solo colonnello di fanteria. L'OKW si vendicherà nel tempo, lo metterà in cattiva luce con hitler, lo implicherà nell'attentato di von stauffenberg del 1944 di cui lui non sapeva niente, obbligandolo al suicidio d'onore.
Illuminanti le pagine su caporetto e gli italiani in generale. Le truppe si arrendevano in massa e disconfessavano gli ufficiali. Mostra le pratiche di decimazione sotto un'altra luce.