Roma, 5 ottobre 2017
D'estate arrivo a Sipicciano, una piccola frazione in provincia di Viterbo.
Come sempre nella Tuscia romana c'è apparentemente poco da vedere; in realtà la bellezza sembra nascondersi all’occhio più volgare. Occorre ricercarla, con pazienza, spesso per anni. A volte è lei che, inaspettatamente, si rivela. Aveva sempre riposato accanto a noi, confusa nel paesaggio consueto e pacatamente familiare, e ora, per un capriccio del destino o per uno sbalzo della coscienza, risalta, come una venatura di metallo prezioso in un sedimento di materia vile.
La bellezza, dopo una pioggia magari: una pozza ci avverte d’una tomba ipogea, o ricama fondamenta di villae romane; una frana scopre passaggi segreti e cunicoli.
L’origine ama celarsi; qui ho cominciato a esistere e non certo quarantanove anni fa.
Inutile chiedere alla gente del posto. Se ne ricevono informazioni vaghe, ottuse, quasi che gli abitanti fossero la razza degenerata di un'antica civiltà che più non comprende la grandezza dei propri predecessori.
O forse questa è la plebaglia che serviva antichi signori, oggi scomparsi.
La bellezza, dopo una pioggia magari: una pozza ci avverte d’una tomba ipogea, o ricama fondamenta di villae romane; una frana scopre passaggi segreti e cunicoli.
L’origine ama celarsi; qui ho cominciato a esistere e non certo quarantanove anni fa.
Inutile chiedere alla gente del posto. Se ne ricevono informazioni vaghe, ottuse, quasi che gli abitanti fossero la razza degenerata di un'antica civiltà che più non comprende la grandezza dei propri predecessori.
O forse questa è la plebaglia che serviva antichi signori, oggi scomparsi.
A
Sipicciano, per fortuna, un cartello turistico lo si trova: descrive il
castello Baglioni. All'interno del castello è la chiesa S. Maria Assunta
in Cielo che ospita una nota cappella gentilizia (la cappella Baglioni,
affrescata, su commissione di Alberto Baglioni, dal pittore Orazio
Bernardo).
Entro nel castello; superato l'atrio salgo una scalinata in pietra che corre sotto una volta. I vani dell'edificio storico sono stati ovviamente requisiti dalla goffa intelligencija locale: università agrarie, pro loco e consimili zavorre. Il silenzio è totale. A sinistra un campanile con orologio, le lancette bloccate nella paresi dell’inconcludenza. Si intravedono lavori di ripulitura, incompiuti, e restauri definitivi, di gusto orrendo. Risalgo verso la chiesa. Sbarrata. Ancora a sinistra: qui residuano alcune abitazioni private sorvegliate da cani ferocissimi. L'abbaiare furioso scuote l'attenzione dei proprietari; non so perché mi viene in mente Totò. I casigliani si affacciano: chiedo lumi. La chiave della chiesa? Non sappiamo. Possibile? Una signora, tenendo a bada una fiera sbavante, risolve l’indovinello. La chiave ce l'ha il barista. Il barista? Sì, quello in piazza. Ridiscendo, con cautela, attento a non scivolare sullo strato di merde di piccione.
Vado al bar. Un caffè e le chiavi, per favore. Me le porgono con indifferenza. Risalgo, apro il lucchetto. La chiesa è sconsacrata, in sfacelo totale. Solo la parte destra è stata ripulita e rimessa a nuovo quale magazzino per le feste di paese. La navata centrale, in cui si individuano residui di affreschi, culmina nell'altare, un mucchio di macerie demoniache. A sinistra si apre la cappella Baglioni, in parte guastata dall'umidità.
Guardo, ma un malessere sottile intossica questi attimi. Riconosco tale risentimento: un impasto di fatalismo e cupio dissolvi. Me ne vado in fretta. La sortita è una disfatta. Sulla porta incontro membri della pro loco: discutono di feste, di cibo, di bevande. Non salutano, non rivolgono parola. Lascio le chiavi a uno di loro e mi allontano.
Esco da Sipicciano e mi prende la frenesia d'altro caffè. Non è la voglia di caffè (ne ho già presi quattro), ma la rabbia. È un livore sottocutaneo, latente, che non lascia mai il corpo, una febbriciattola che mi porto appresso da vent'anni almeno. E che mi riprende, ora, la melma della depressione che risale dal fegato. Come si può placare? In un solo modo: per mezzo dell’ingaglioffamento. Devo mischiarmi a qualcuno, fare qualcosa di sciocco, rendermi idiota. La consapevolezza pesa e disgusta. In questi momenti una parola fuori posto provocherebbe in me attacchi di ferocia incontrollati. E allora devo fermarmi, vedere facce inconsuete, bere un caffè in un luogo mai visto. Trovo un bar sulla strada per Castiglione in Teverina. Uno di quei locali seriali, a mezzo fra l’anonimato e il nichilismo postmoderno da Ikea. Si assomigliano tutti. Designer industriali per il popolo bue: neon, plastica, allucinanti travature, tavolini e sedie sponsorizzati, le solite immagini da film strette da cornici comprate dal cinese all’angolo. A vedere ‘sta roba viene un groppo in gola: altro che Tuscia, sembra d'essere in una periferia romana. Le macchinette per etilisti ludici lampeggiano epilettiche, in numero di quattro, nella saletta attigua, per un pudore la cui scaturigine è difficile da circoscrivere. Sto per uscire, poi avviene il miracolo. Al banco c'è un negro che si intrattiene con la padrona e il barista. La prima pare aver saccheggiato gli scaffali dell’infamia kitsch, cotonatura delirante e meches da incubo; il volto pare il mascherone d’una fontana dedicata all’insipienza; lui atticciato e tiratardi riassume nei lineamenti rammolliti un impasto di piccineria e stolido opportunismo: chissà quanti stupri, renitenze, incroci secolari sovraintendono a tale rilascio basedowiano. Sì, c’è speranza. Il negro, alto e magrissimo, si muove come scosso da una intermittente e breve scarica elettrica, coi dreadlock che ondeggiano sulle camicia a fiori, i jeans di colore incerto che disegnano due gambe fulminate e i monili che tintinnano lievemente, come di mucca al pascolo; se la diverte un mondo così come i suoi due improvvisati spettatori. La voce va e viene, basso e alto. Gutturali espettorazioni, fresche risate, di cuore, e chiocciolii in un pidgin tutto suo, mezzo italiano bastardo, mezzo anglo francese, s’alternano in uno spartito di jazz anarchico. Parla di topi. Topi senegalesi? Dalle sue parti i topi della savana o della selva sono una preda ambita, soprattutto quando non c'è niente da mangiare. Bei toponi, grossi e guizzanti. Nella savana. I due italianuzzi hanno la strozza gonfia per i cachinni: oh oh oh ah ah ah – buona per rinfocolare la verve narrativa del Nostro che si mette a mimare la caccia con le braccia telescopiche: ecco i ratti che svicolano nella vegetazione e lui che li acchiappa come un gatto predatore. Topi giganti, topi muschiati. Ordino il caffè riportando alla dura realtà il bambolotto accanto alla Faema. L'incanto sembra spezzarsi, ma io, lesto, getto un po' di benzina sul fuoco della follia. "Che faccia hanno, amico mio, questi topi? Grossi son grossi … ma … hanno i baffi, la coda, il pelo? Si fanno a vapore, arrosto, in salmì?”. E lui, che aveva perso un po’ di baldanza per la mia presenza, fa un gran sorriso scoprendo un centinaio di denti macchiati; mima un pugno nell’aria come a dire: “Ecco un nuovo amico” e si rilancia nella descrizione come un piromane in un fienile. Sono veloci, sono veloci, amigo, compagno, mi fa (o mi sembra di capire), schizzano via come lepri, questi topacci maledetti e occorre mano svelta. Ma io non li ho mai mangiati, no amigo, mai, non mangio quella roba: e nel dirlo si fa il segno della croce. Ma sono topi o nutrie? Cos’è la nutria? Una specie di topo, faccio io: poco convinto, in verità. Una specie di topi-castori … a sort of rat-beaver … e faccio l’atto di rodere qualcosa scoprendo gli incisivi. Topi castori mi fa lui … ci pensa un attimo e poi si piega a riccio, le braccia attorno al corpo e i capelli rasta che toccano quasi il pavimento; ih ih ih … come singhiozzi … ih ih ih … sussulta … è una ridarella sommessa … ih ih ih .. che prende corpo e poi esplode in una risata liberatoria … ah ah amigo questa è buona … ah ah ah … con la testa che fa su e giù, come i cani che si mettevano in macchina negli anni Settanta … gli occhi chiusi, i denti moltiplicati in un sorriso chilometrico … il volto felice come un bambino sull’altalena. La ridarella contagia tutti … ih ih ih il cacciatore … lo prende dalla coda … ih ih ih … lo sbatte all’albero … ih ih ih … e poi mangia … ih ih ih … e così, di profilo, muso in alto a bocca spalancata, mano destra riunita a casco di banane, mima l’ingoio del povero ratto-nutria senegalese … iam iam gugù … ih ih ih … e giù a ridere, con quella risata non risata … il corpo scosso dalla parodia di una febbre quartana.
I due si sganasciano e rido pure io, ormai il demone della stupidità ci saltella intorno facendo il gesto dell’ombrello.
Poi l’Arlecchino si mette a spiegare che la sua famiglia è composta da cento persone. Cento? Ah ah ah, fa la scema italiana … aprendo gli occhi bistrati di asfalto. Sì, cento … figli suoi, nipoti, pronipoti, figli di sorelle e fratelli, figli del padre con altre mogli, cognati, agnati, adottati, acquisiti. E proprio per questo non può tornare laggiù, altrimenti lo spolpano vivo. Se torno con euro mi prendono tutto … appena arrivo. Tanti, tanti … meglio far venire loro qua ... e poi come faccio a tornare? Non voglio spendere i soldi per l'aereo … troppi soldi … faccio quello che voglio qui … meglio che loro vengono qui, no? … ih ih ih ih ... I like to be prisoner here ... ogni tanto mando euro ai genitori ... la vecchia Mamy, una sessantenne, già prozia e bisnonna ... ma sì … sfruttato, ma libero come un fringuello, quale la contraddizione … lavora in nero il nostro, a tre euro all'ora ... un lavoro qui uno là … raccolta frutta, soprattutto … stagionale … tre euro, anche se qualche bastardo si accontenta di due e mezzo, anche di due … e ci rovina … maledetti! E mima un pugno nell’aria, la faccia truce che dura mezzo secondo … adesso trenta euro puliti al giorno ci scappano ... il resto non è un problema ... ospitato in una chiesa sconsacrata … cibo da una cooperativa ... c'è di meglio, ma anche di peggio.
D'altronde, a ben guardare, anch'io sono un prisoner. Guadagno, alla fine della fiera, la sua stessa somma ... una volta esposi tale teoria a una riunione di lavoro: fu accolta da un silenzio imbarazzato. Insistetti. Decurtate l’IVA, perdio, i contributi privati, IRPEF, bolli e tariffe e imposte, le necessità quotidiane ... dai su, quanto vi resta … ditemi quanto vi resta … circa ottocento euri al mese ... macché, gli italianuzzi non si capacitano … il parallelo pare offensivo … ma tu dormi in una casa, al caldo, vai al cinema, al bar, hai la macchina, bevi il caffè al bar, al ristorante … capite? Io vado al bar. Non solo, ma vanto il brivido capitalista di recarmi periodicamente dal commercialista o in banca o alle poste … il che dona alla mia silhouette di italiano un’aurea rispettabile ... da cittadino del mondo ... ma sempre ottocento puliti a fine mese sono … basta un dente o lo spinterogeno e gli ottocento saltano … a fare i conti della serva sono un maledetto senegalese anch'io, prigioniero in Italia, troppo povero per cambiare vita, troppo ricco per farmela un'altra. E a volte mi assale il pensiero che ciò che costituisce la patina della mia agiatezza non è dovuto certo alla laboriosità, ma solo al fatto d’aver ridotto, in ragione progressiva e impercettibile, il tenore di vita. Eppure per i colleghi e Padoan io sono il ricco agiato e questo arnese qui, figliato chissà dove con le sue trecce unte, il povero … il complesso di Kunta Kinte fa il resto … ma che ci faremo con questo arnese … cosa darà all’Italia … lo sa solo Cristo, lo sa ...
Paul o Paulie, come diavolo si chiama, mi prende inspiegabilmente in simpatia. Gli pago una bevanda analcolica e comincia avido a sgranocchiare noccioline e salatini. In fondo mi è simpatico pure lui. Poi racconto dei senegalesi a Roma, clandestini, e di un processo in cui due suoi connazionali si son salvati da una condanna per spaccio e sfruttamento della prostituzione grazie a un cavillo. Allora lui s'illumina. Divento il suo eroe, la sua medicina, il suo piramidone. Non sta più nella pelle, mi vuole baciare e abbracciare. La proprietaria si scompiscia, le lacrime che rigano il volto intonacato da terre di Siena in offerta. L’altro babbeo assiste con la bocca aperta: come a dire: non posso crederci. Il negro si mette a ballare per celebrare il proscioglimento. Con lentezza e grazia. Battere e levare. Si mette a canticchiare Jammin’, di Bob Marley: sottovoce, senza fretta, assecondando le parole con movimenti aggraziati e coinvolgenti, la pesante matassa corvina che ondeggia al ritmo sommesso … jammin’ we are jammim’ … and we are jammin’ in the name of the Lord ... Due vecchi, seduti ai tavolini fuori, guardano la scena con volti di pietra. Al nostro quartetto si uniscono altri habitué: un perdigiorno malmesso, piccolo, barba lunga, e un operaio sporco di calce, massiccio come un muro di blocchetti. Sogghignano. La padrona batte le mani. “Vai … Pooool …” . Lo ammetto: Lombroso era un dritto. Jammin’ in the name of the Lord ... Il vecchio Bob, avvelenato con una scarpa, come ebbe a raccontarmi, con l’aria candida e cristallina d’una verità evidente, un altro senegalese, più fortunato. Il tumore, l’ultimo concerto, la morte. Chissà cosa avrebbe pensato Bob nell’assistere a tale avanspettacolo, nella provincia profonda di un paese in sfacelo, di cui, oggi, stento a capire gl’insondabili recessi della volontà di suicidio.
Saluto tutti, m’inchino a Paul (Ciao, amigo!) e me ne vado.
Il
cemento, da queste parti, tira forte. Le ballette di cemento sono
l'unità costitutiva dell'impegno civile. Una fontana, una torre, un
parapetto sono nella fatiscenza? Chiedete a uno del luogo; dopo una
breve esitazione (in realtà se ne frega: ha altro da fare lui) concederà
che sì ... il manufatto è un po' degradato ... d'altra parte è tempo
che non si rimette a posto ... se ne occupava il nonno, il trisavolo, il
prozio ... poi il gaglioffo passerà alla lamentazione: il Comune non ha
più soldi ... la provincia non ha competenza ... la Regione Lazio è
un'entità metafisica, irraggiungibile ... il prete se ne frega ... voi
farete scivolare, allora, il discorso, con molta logica, sull'impegno
civile: rimbocchiamoci le maniche? Il nostro, a questa tirata, farà il
difficile: ci vuole tempo, ci vuole il permesso, i vigili, i
carabinieri, le denunce, non si possono chiedere soldi alla
cittadinanza ... la volontà lenta naufraga ... il discorso va nella
direzione auspicata dell'inconcludenza ... a meno che ... a meno che ...
a meno che non intervenga il ras del luogo, esperto di burocrazia,
ammiccamenti e ammanicamenti ... il tale distilla l'elisir alchemico
della quadratura del cerchio ... si potrebbe investire l'università
agraria del lavoro di rifacimento ... il quale organismo chiederebbe una
sovvenzione al Comune (dove c'è l'amico) e con tale sovvenzione
addivenire al restauro con la ditta amica che lavora da sempre con noi
(anche se non lo si dice) ... in tal caso si, si può fare ... l'impegno
civile si ravviva ... la comunicazione, dopo aver pigiato sui tasti
giusti, e dato di gomito alla corruzione e al peculato, blandi e
tollerati, con un ruttino d’accondiscendenza, anche dalle forze
dell’ordine, si rianima ... tremila euri vengono, perciò, drenati dalle
casse pubbliche per essere insufflati nelle tasche di qualcun altro ...
l'ordine al deposito amico è partito ... venti trenta cinquanta ballette ... cinquecento euro di materiale ... il resto mancia ...
L'antico fontanile diviene, adeguatamente devastato, un blocco di
cemento incitrullito ... antichi fregi volano via sotto la piccozza,
mascheroni e cannelle vengono sostituiti con scintillanti ritrovati all'ultima
moda ... qualcuno si lamenta ... ma sono brevi mugugni ...
all'inaugurazione arriva il sindaco ... un assessore ... gli scaldasedie si affollano attorno all’ex manufatto settecentesco … personale
delle sopra-sovra-sotto intendenza si scaccola strabico: un occhio alla
calda burocrazia della competenza che tutto giustifica, l’altro alla
pensioncina … una meta da guadagnare a qualsiasi costo, anche a costo
dell’Italia … impiegatuzzi che alternano pigri l'amministrazione locale
al lavoricchio in qualche sinecura provinciale danno il loro assenso ...
il primo cittadino, la fascia tricolore che circonda le trippe, si
congratula ... le radici ... i paesani ... la storia, signori, la nostra
storia redenta ... il poeta locale strimpella due minchiate ...
l'associazione Settestronzoni serve panini e porchetta … la
sbicchierata, in bicchieri di plastica, rifinisce il tutto ... è una
festa, una festa ...
Dieci giorni dopo, lungo la stessa strada, rincontro Paul; è con una decina di compagni, tutti a testa china, le braccia ciondoloni. Nessuna donna, nessun bambino. Camminano senza parlare, come in un pellegrinaggio sconsolante. Paul non ride, stavolta. Forse torna dai campi, verso la chiesa sconsacrata, e ha solo voglia di buttarsi sul letto. Ma forse sono io che interpreto male ciò che più non comprendo. Forse, è una mia illazione, questa è solo l’avanguardia di un Quarto Stato senza direzione o ambizioni venuta a soppiantare le nostre marce legioni. Un destino è voluto, un altro è segnato. Un novello Pellizza da Volpedo immobilizzerebbe la scena con uno smartphone, vergognandosene. Rallento. Nessuno di loro alza gli occhi. Li supero. Nello specchio retrovisore, sembrano un’apparizione inconsulta, stagliati sulle stoppie interminabili di un campo ingiallito. Sono la nostra condanna, lo sento. Fra me e loro non c’è nulla in comune, né mai ci sarà. Per questo io devo sparire, così come il fontanile settecentesco, le tombe ipogee, la cappella Baglioni, i sentieri scolpiti nel tufo, le forre e le cascate di rivi millenari e i libri di lettura, dove tutto era chiaro, e Caio Mario sbaragliava gli invasori ai Campi Raudii. Ancora pochi anni e me lo diranno chiaro e tondo: sei di troppo. Se mi andrà di lusso mi ritirerò da queste parti a centellinare i risparmi. Un vecchio bavoso che ciancia in un dialetto tutto suo e che racconta cose impossibili da credere, avvenute in una terra favolosa e dimenticata.
Dieci giorni dopo, lungo la stessa strada, rincontro Paul; è con una decina di compagni, tutti a testa china, le braccia ciondoloni. Nessuna donna, nessun bambino. Camminano senza parlare, come in un pellegrinaggio sconsolante. Paul non ride, stavolta. Forse torna dai campi, verso la chiesa sconsacrata, e ha solo voglia di buttarsi sul letto. Ma forse sono io che interpreto male ciò che più non comprendo. Forse, è una mia illazione, questa è solo l’avanguardia di un Quarto Stato senza direzione o ambizioni venuta a soppiantare le nostre marce legioni. Un destino è voluto, un altro è segnato. Un novello Pellizza da Volpedo immobilizzerebbe la scena con uno smartphone, vergognandosene. Rallento. Nessuno di loro alza gli occhi. Li supero. Nello specchio retrovisore, sembrano un’apparizione inconsulta, stagliati sulle stoppie interminabili di un campo ingiallito. Sono la nostra condanna, lo sento. Fra me e loro non c’è nulla in comune, né mai ci sarà. Per questo io devo sparire, così come il fontanile settecentesco, le tombe ipogee, la cappella Baglioni, i sentieri scolpiti nel tufo, le forre e le cascate di rivi millenari e i libri di lettura, dove tutto era chiaro, e Caio Mario sbaragliava gli invasori ai Campi Raudii. Ancora pochi anni e me lo diranno chiaro e tondo: sei di troppo. Se mi andrà di lusso mi ritirerò da queste parti a centellinare i risparmi. Un vecchio bavoso che ciancia in un dialetto tutto suo e che racconta cose impossibili da credere, avvenute in una terra favolosa e dimenticata.
E allora parlammo della grande bellezza e importanza della Democrazia e ci demmo un gran da fare per comunicare al Conte un giusto sentimento dei vantaggi di cui godevamo vivendo in un luogo dove imperava il suffragio ad libitum, e non c'era re.
RispondiEliminaIl Conte ascoltò con palese interesse, e in verità sembrava non poco divertito. Quando avemmo finito, disse che, molto tempo prima, era accaduto qualcosa del genere. Tredici province egizie decisero di colpo di essere libere, proponendo in tal modo un magnifico esempio al resto dell'umanità. Riunirono i loro saggi, e apparecchiarono la costituzione più ingeniosa che fosse possibile concepire. Per qualche tempo se la cavarono non troppo male; soltanto, avevano preso l'abitudine di darsi delle arie in modo da non credersi. Alla fine, tuttavia, quei tredici stati, più altri quindici o venti, finirono in preda del più odioso, del più intollerabile dispotismo di cui mai si sia sentito parlare sulla faccia della Terra.
Chiesi quale mai fosse il nome del tiranno usurpatore. Per quel che il Conte riusciva a ricordare, il suo nome era Plebaglia.
Edgar Allan Poe - Quattro chiacchiere con una mummia
Qui a Frittole siamo pieni di abbronzati, un po' beduini, un po' bingo bongo. La metà fa il parassita, un 40% delinque, un 10% lavora. Il Pd è contento, la gente corrotta o idiota approva, e la vita va avanti. Le strade, le piazze, i giardini , le piste ciclabili,i mezzi pubblici, gli ingressi di negozi, bar, supermercati, sono pieni di risorse abbronzate vogliose di pagarci le pensioni. Il Pd è sempre più contento, la gente sempre più corrotta o grulla. E la vita va avanti.
RispondiEliminaHo avuto a che fare con risorse gialle e con risorse abbronzate. Premesso che entrambe non ci incastrano nulla con questo paese, un cosa la posso dire: le risorse gialle lavoravano.
Una volta un russo mi chiese perché non cacciavamo via tutte le risorse dalla città di Frittole. Secondo lui agli abbronzati di Frittole non fregava un cazzo e alla fine avrebbero trasformato tutto in merda. Io gli risposi che il Pd era contento, la gente corrotta o idiota. E la vita andava comunque avanti. Lui mi disse che che dovevamo combattere contro il Pd, contro le risorse, contro i corrotti e contro i grulli per riprenderci Frittole, perché Frittole ci era stata data in custodia dai nostri antenati ed era nostro dovere lasciarla ai posteri almeno nelle stesse condizioni in cui l'avevamo ricevuta. Ah questi russi...colpa di Putin, sicuramente.
Il Castello Baglioni si trova a Graffignano non a Sipicciano.
RispondiEliminaPer info.
La cappella Baglioni, come da foto, è a Sipicciano, frazione di Graffignano.
EliminaCiò non esclude l'esistenza di un ulteriore castello Baglioni a Graffignano.
Beh non credo ci sia nulla da aggiungere, il tuo modo di descrivere i particolari è pregnante e ti volevo chiedere se hai mai letto Silone (libri come "Il seme sotto la neve", per esempio).
RispondiEliminaE visto che so che ti intendi di film e ami la Tuscia ti volevo anche chiedere conosci il film "scipione detto anche l'africano"?
I miei rispetti, Sitka.
Scipione non l'ho mai visto. È stato girato in Tuscia?
EliminaE mi tocca ammettere di aver trascurato Silone (a parte il capolavoro).
non c'è nulla di più informe della sostanza delle menti, se la si separa da Dio
RispondiEliminamalebranche
Te lo consiglio, è un bel film. Ci recitano entrambi i Mastroianni (anche il fratello Ruggero di mestiere montatore) ed è stato girato in alcune parti della Tuscia, fra le altre. Se lo vedi le riconoscerai.
RispondiEliminaLa staffetta passa per Martignano, e la dimora di Giove Scipione davanti alla tomba Ildebranda vicino Sovana (mi dice un mio amico pratico di quelle parti) vicino Pitigliano.
Alcuni pezzi credo a Villa Adriana ed Ostia antica.
Di Silone il capolavoro intendi Fontamara? Non so se intendi quello, è il suo primo romanzo, molto bello, ma secondo me il suo massimo è "Il seme sotto la neve" e anche "La scuola dei dittatori" come saggistica e analisi storica. Di Silone ho letto tutto, e lo consiglio sempre. Sitka
Per Sitka.
RispondiEliminaIntendevo Fontamara, certo.
Adesso mi hai incuriosito, leggerò i due libri.
E vedrò il film, naturalmente.
Grazie di esistere Alceste, bellissime e tragicomiche letture ..gratis!
RispondiEliminaPer la cronaca io campo con 500 leuri (il LEURO è mio copyright) al mese, però netti giacché lavoro in nero. Di ciò sono molto soddisfatto che non dò la gabella al Conte (Gentiloni Silverj). Non pago neppure il canone rai,ho venduto l'auto così non pago bolli né accise sulla benza, ho smesso di fumare così non pago altre accise... queste le mie soddisfazioni esistenziali di patriota (ho fatto il mititare, terzo '87) tradito.
TIRO A CAMPA', ma sono del ricco Nord. E' dura vivere da plebeo napoletano nel nebbione, ma ci sto provando seriamente.
cordiali saluti
Purtroppo la gabella al conte la paghi sempre: sulla mortadella, sui detersivi, sui computer.
EliminaCerto ne paghi meno ...
Magari rendendoti invisibile fai pure un favore a Delrio ... meno italiani ci sono più gode ...
Non so cosa pensare davvero ... l'Italia non esiste più, incredibile.
Si certo pago l'iva e le bollette. Cmq niente irpef nè furto inps (i miei 100k leuri versati in 30 anni di lavoro in bianco? Ora ne avrei necessità. Eccellentissimo Conte Gentiloni Silverj, me li restituisci? Si, col c!). L'Italia esiste eccome, è quella che tu descrivi così bene (Le merde, ecc). Diciamo che non c'è più quella degli anni 60,70 e 80, ora viviamo in un neo-medioevo (D.Fusaro), non ci sono più le classi sociali novecentesche ma i Padroni e servi dei millenni precedenti. Cioè: azzerati in 20 anni 200 anni di lotte sociali dei servi. Si riparte da 0 ora. io sono troppo vecchio, cioè: spazzatura. Come scrivi tu. Siamo considerati spazzatura. Ma io non mollo e della considerazione delle Merde me ne sbatto, li voglio seppellire tutti.
RispondiEliminaIo, non dico malvagio, ma niente son riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né ribaldo, né onesto, né eroe, né insetto. E ora trascino la vita nel mio angolo, tenendomi su colla maligna e magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e che solo gli sciocchi diventano qualcosa.
RispondiEliminaFëdor Dostoevskij - Ricordi dal sottosuolo