16 luglio 2020

Vite che non vale la pena vivere


Roma, 16 luglio 2020

Vado in parrocchia per chiedere lumi su una chiesina sconsacrata, che si trova poco distante. Diroccata, ma di buona fattura e con un affresco a tema francescano dipinto da un pittore religioso di vaglia negli anni Quaranta.
Già so cosa aspettarmi e, come spesso accade, gli eventi non mi stupiscono felicemente. Il capintesta, anzi: il caporione in tonaca, nella cui giurisdizione dovrebbe rientrare l'edifizio, mi liquida, al solito, con vago menefreghismo. Come a dire: una chiesa? E cosa c'entro io? E poi: non vedete che ho a che fare con battesimi e comunioni agostane causa Covid? Non avete nient'altro da fare? Qui mando avanti una parrocchia, non ho tempo per minuzie come la storia del cristianesimo novecentesco!
Naturalmente il dialogo avviene senza punti esclamativi.
Questo è un altro segno peculiare dei tempi: l'assenza di passione.
Il diniego non è mai diretto. Vive di afasie, stanche ipotiposi di mani e braccia, sospiri, sguardi distolti, sbuffi, mugugni prolungati, borbottii, mezze parole inaudibili. Si prova vergogna, in effetti, a mostrare la propria accidia. Una vergogna che coesiste con atti di arroganza liquidatoria che, più che all'interlocutore, sono rivolti all'interiorità. Il disprezzo e il me ne frego, insomma, non sono che disprezzo di sé stessi: a rendere plastica l'evidenza: "Non vedete che è tutto finito? Il mio mondo non esiste più! Sono il passacarte anonimo d'una civiltà ormai a tranci nel discount cosmopolita! Non ho nulla da fare e mi tocca ricorrere a questi trucchetti! Toglietevi di mezzo! Lasciatemi rivoltare nel tiepido brago!".
Le cure burocratiche ... il quotidiano ... l'ex prete, stremato, guarda di fuori. Se non fosse per la pagnotta garantita si spoglierebbe di tutto per ritirarsi in un loculo condominiale dei tanti. Presso un'uscita secondaria, infatti, si sta formando una fila lunga un centinaio di metri. Filippini, slavi, sudamericani; e un paio di famiglie italiane (le si riconosce subito poiché subiscono il disagio: gli altri, invece, compresi i neonati, sembrano a una festa) stan lì a elemosinare un posto per un evento, una volta, gioiosamente italiano: la Comunione, il Battesimo; il matrimonio addirittura!
Il pretonzolo si libera definitivamente della mia importuna curiosità inviandomi presso un famiglio laico che bivacca nella stanza accanto. Eseguo. Sorprendo il giovincello intento a smanettare sul cellulare, la rada barbetta hipster china sul visore, la borsetta a tracolla come una cartuccera guevarista, gli occhi che seguono il filo d'una logica web in grado d'assorbire totalmente l'attenzione. Più che il rumore dell'entrata, avverte la mia presenza, grave e ostile. Alza lo sguardo, spaesato. Non saluta, ovviamente. Io sì, declino per la seconda volta le mie generalità, la causa di tanta impertinenza e reitero la supplica: "Non avete, per caso .... vostri archivi ... foto ... dal 1968 ... documenti ...". Lo sguardo si fa ancora più smarrito; tocca una penna sulla scrivania, poi gira all'intorno gli occhi acquosi, indecisi, a ricercare chissà quale novità in quel bugigattolo polveroso, a giustificare un diversivo minimo che lo sollevi dalla pressione d'una situazione inaspettata e intollerabile. Poi l'atto di coraggio, comune a tutti i burocrati nullafacenti; la voglia di liberarsi dell'intruso stimola le scuse più banali sino alla recisione del rifiuto campato sulle menzogne pù puerili. "Di che anno è la chiesa?", mi domanda. "1945, all'incirca ...". "Ah, va beh ... no, no ... no, non c'è niente ...". "Ma non avete un archivio?". "No". "E dove mettete i documenti?". "Non ci sono più ... lo sapeva padre Isaia, ma è morto da tanto tempo ...". "Qualche foto della fondazione delle parrocchie le avrete?". "No, non le abbiamo, forse il Vicariato ... non conosco nessuno ... mail, non saprei ...". Quindi aggiunge, a seppellire la pretesa: "Non so ... siamo piccoli ... e poi ... non so ... io sono del '96 ...".
"Io sono del '96". Capisco, signori, che voi non mi crediate. È giusto. Così come non avrete creduto a quel dialogo in cui una giovinetta dichiarava che la capitale dell'Inghilterra era la Germania. Eppure è così, siamo entrati nell'incubo, senza accorgercene, e questo incubo non contempla più l'Italia e gli Italiani. Una civiltà annientata in quarant'anni nemmeno. "Io sono del '96 ... " mi cicala l'esserino e mai dichiarazione fu più chiarificatrice. Ne comprendete la portata? Perché il citrullino, qui, cosa vuol dirvi? Questo, semplicemente: che l'interesse suo personale e la storia stessa coincidono col breve cono di luce della propria grama esistenza; ciò che ricade sotto l'imperio degli anni precedenti il 1996 non è degno di menzione, né decisivo; forse non esiste, addirittura. Siamo alla patologia, al solipsismo autistico, all'abolizione di ogni terreno comune, quello che ci fa dialogare e vivere tramite idee senza parole.
Lì per lì ho avuto voglia di insultarlo, mi capita spesso, non so tenermi. Avevo voglia di tirargli uno schiaffo o mandarlo al diavolo davanti a qualche battezzando. E però ... a che servirebbe? Tutta questa gente, esserini, girini umani, lamprede fini a sé stesse, snervati abitatori degli abissi ... Tutta questa gente non dovrebbe mai esser nata. Sono di troppo, carne marcia. Morti in vita, certo, ma pur senzienti che intasano scuole, istituzioni, meriti. Sciaurati che mai fur vivi eppure fanno numero, paccottiglia, ciuffi di pelo nel lavandino. Non servono a niente se non a impedire la vita. A che pro?
Ecco il disagio prodotto dalla democrazia. Ecco, finalmente, rilucente in tutta la verità, l'espressione dannunziana sul diluvio grigio della democrazia e dei lumi progressivi. La regressione civile e la mancanza di libertà vengono instaurate non solo dalla distruzione delle gerarchie e dei centri della sapienza (che sussistono proprio in virtù di tali gerarchie), ma anche dal numero. La voce dei migliori, degli individui razionali, in un ambiente privo di loro pari, viene sommersa dal cicaleccio; e quando, per miracolo, un dei Diecimila riesce a farsi udire traverso la coltre della stupidità, ecco che il Potere eccita il perbenismo sciocco della moltitudine: a deviare, sopire, di nuovo sommergere.

11 luglio 2020

Gli Italiani hanno vissuto AL DI SOTTO delle loro possibilità [Massimo Bordin]

Gian Lorenzo Bernini, La verità svelata dal tempo
Massimo Bordin
 
Uno dei vantaggi del mio lavoro è quello di girare spesso per le grandi città internazionali e di passarci anche diversi giorni, costretto a documentarmi e ad usare i servizi pubblici per risparmiare. Inoltre, caso vuole che alcune città ormai le abbia visitate più e più volte. E’ per questo che posso dire con assoluta serenità che il luogo comune per il quale  “l’Italia è il Paese più bello del mondo” è il più veritiero che ci sia. Non c’entrano un tubo i ricordi personali, gli affetti, l’istinto ed il cordone ombelicale: l’Italia è oggettivamente il Paese più bello del mondo e chi sostiene il contrario è perchè ne ha una conoscenza molto superficiale. Gli stranieri non si permetterebbero mai di dirlo, la stragrande maggioranza lo sa benissimo che il loro luogo d’origine, rispetto all’Italia, è una cloaca, e per quanto nazionalisti possano essere, mai sentirete dire che l’Italia non è bella.

Sono appena tornato da Napoli, città che molti italiani e molti stranieri considerano un immondezzaio invivibile. C’ero stato almeno altre 6 volte. Il turismo del Golfo è quasi tutto straniero: i media hanno detto agli italiani che Napoli è pericolosa, che ti stuprano, che ti scippano coi motorini, che ti imbrogliano di sicuro e che è piena di immondizia. Dunque, al massimo ci si va con la gita della scuola, protetti da professori e touring operator, come fosse una crociera sul Nilo. Da adulti, con i bambini piccoli al seguito, invece, ci vanno quasi esclusivamente americani, inglesi, spagnoli (e chissà come mai)

La realtà è che a Napoli sembra di essere dentro un film e che ogni cosa è di una bellezza irripetibile. La mia guida alla città sotterranea - Francesco - quasi aveva le lacrime agli occhi mentre spiegava come i napoletani di tremila anni fa avessero costruito la città scavando nel tufo fino a 40 metri di profondità e portando blocchi di quintali in superficie, morendo a centinaia, salendo e scendendo nelle viscere della terra senza alcuna sicurezza. Ai Campi Flegrei, a Pompei, al castello del Maschio Angioino, dopo i racconti delle guide, ti dispiace di non essere napoletano. Ti sembra quasi di doverli invidiare. E sono tutte guide che raccontano aneddoti personali, fanno battute, uno si è messo anche a cantare. Al British, al Louvre, al Museo di Sissy, invece, sono solo capaci (al triplo del costo) di rifilarti una fottuta, impersonale e noiosissima audioguida coi numeretti da pigiare.
E ho preso Napoli ad esempio solo perchè l’ho appena visitata e perchè viene dipinta sempre malissimo, ma cosa si potrebbe dire del resto d’italia? Non basterebbero tutti i blog del mondo.

08 luglio 2020

Omaggio a Ennio Morricone & Friends (alla gente piace conoscere le cose a metà)


Roma, 8 luglio 2020

Quando Morricone era già Morricone (e, perciò, morriconeggiante) esisteva un gruppo di avanguardia tra rock e free-jazz chiamato "Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza" o "The Group" o "Gruppo Improvvisazione Nuova Consonanza" in cui si esibiva, alla tromba, fra gli altri, Ennio Morricone.
Il pezzo di cui sopra è tratto da un disco del 1970, The feed-back.
Mi piacerebbe sapere, solo per curiosità, quanti conoscono questa roba. Diamo la formazione:
Bruno Battisti D'Amario, chitarra; John Heineman, piano, trombone, violone; Ennio Morricone, tromba; Mario Bertoncini, voce, tastiere, percussioni; Walter Branchi, basso; Renzo Restuccia; batteria; Egisto Macchi, percussioni.
Egisto Macchi, a esempio, è un genio.
Ma chi se lo impipa?
L'Italia, in quegli anni, debordava di tali individui.
Musicisti in consonanza con la migliore avanguardia tedesca: Darmstadt, Werner Meyer-Eppler, Can, Neu! Questi nomi dicono ancora qualcosa? Pronto? Egisto Macchi (o Restuccia) in questo pezzo evocano o no il motorik dei Neu! O magari no: non sarà che i Neu! sono influenzati da Egisto Macchi? Hello, hello? C'è un Italiano oltre la tastiera?
E le colonne sonore per Dario Argento? Non proprio morriconeggianti. Le ha citate un di questi estensori di epinici da mercatino dell'usato?
L'uccello dalle piume di cristallo. La scena in cui Tony Musante è intrappolato fra le due vetrate. Qualcuno se ne ricorda?
Forse sì forse no.
Ma no, non c'è speranza.

03 luglio 2020

Emilia catastrofica


Roma, 3 luglio 2020

L'essere nella foto sovrastante risponde al nome di Emilia Decaudin. Pare abbia vinto le elezioni, interne al Partito Democratico Americano, per la "posizione di ‘Female Leadership’ nel trentasettesimo distretto di New York" cioè il Queens.
L'entità si autodefinisce "non-binaria" ovvero "transgender lesbica", qualunque cosa ciò voglia dire.
La vittoria di tale übermensch ha generato vociferazioni assai effervescenti nelle enclavi LGBT e femminista.
Il movimento TERF (Trans Exclusionary Radical Feminism) non ha mandato giù il rospo, in tutti i sensi. Per esso, infatti, il trans-gender (migrazione da uomo a donna) non è una donna.
Viceversa, on the contrary, il movimento TIRF (Trans Inclusive Radical Feminism) si è benevolmente disposto all'accettazione della signorina, che, dal canto suo, ha reagito agli appunti TERF menando stizzose borsettate digitali. "You can suck my girldick!" ebbe, infatti, a twittare l'Emilia contro le TERF, forse ringalluzzita dall'appoggio delle TIRF.

Riassumendo: un maschio bianco americano, di circa vent'anni, si sente intimamente donna. Cerca di mutarsi nell'altro sesso, ma conservando le prerogative del genere di provenienza: gli/le piacciono, infatti, le ragazze.
Quale ragazza TIRF (o una tizia qualsivoglia) sia disposta a condividere reputazione, amoreggiamenti e amplessi con tale rovina psicologica non riesco a immaginarmelo. Emilia, a ogni modo, conferma come ormai le categorie umane siano del tutto irrilevanti: bello-brutto, maschio-femmina, male-bene, non accampano la pur minima breccola di patria.
Siamo nel deserto ove ogni direzione vanta eguale dignità. Il capriccio impone la meta.

Le cellule più non rispondono ai precisi disegni genetici. Impazziscono. Materiali proliferanti attaccano gli organi, superfetazioni inimmaginabili erompono dal corpo. Le funzioni vitali si spengono lentamente. L’organismo muore.

Catàstrofe s. f. [dal lat. tardo catastrŏpha, catastrŏphe, gr. καταστροϕή, propr. «rivolgimento, rovesciamento», der. di καταστρέϕω «capovolgere»]. Nome dato da alcuni scrittori antichi (e impropriamente attribuito ad Aristotele) alla soluzione, di solito luttuosa, del dramma.

Secoli di esoterismo a cullare il mito dell’Androgino Cosmico. La ricerca dell’unità perduta, coincidentia oppositorum, Qabbalah, neoplatonismo e, poi, chiuso il cerchio, letteralmente, siamo allo spettacolo inverecondo. Ridicolo, ma che non muove manco un muscolo del volto. Un ridicolo di agghiacciante meschinità. A leggere i tweet dell’Emilia siamo dalle parte dell’isteria da femminista repressa.

L’Illuminismo è un altro calcolo sbagliato, e di quelli giganteschi, epocali. L’uomo, cari miei, non migliora grazie alla scienza, non accelera il passo, non vede il sole dell’avvenire, né di nessun lucifero ... L’uomo non avanza né ascende, mai. Anzi: peggiora. La storia dell’umanità è quella di una progressiva autodistruzione, dalla costruzione del neoencefalo sino a Emilia Decaudin ...
Rivendico una nuova filosofia: l’Ottenebramento, contrario perfetto dell’Illuminismo. Il magnifico ammasso di carne chiamato uomo era, di certo, perfetto finché incosciente; poi, ecco la devastante mutazione: egli prende a pensare ... le cose si mettono male, s’inizia a intravedere il fondo scurissimo del gorgo, la propria perdizione, la dissoluzione inevitabile. E allora, poiché ancora forte, di una forza vitale straripante, l’uomo si fa Poeta, Santo e Artista escogitando una serie di trincee e di cavalli di Frisia contro l'Arcinemico. Si resiste, finché gli sciocchi non iniziano a sabotare tali accorgimenti. La lotta è feroce, nessuno può calcolare quanti morti e quanta intelligenza siano stati sacrificati per difendere o dissolvere tali umili palmi di terra fortificati a ridosso dell’abisso.
Chi ha vinto, però, non siamo noi.
Lo stupido ronzino degli illuminati nitrisce e si lancia al galoppo stento. Un sole indifferente accompagna l’ultima carica verso il nulla.

Chi volesse derubricare l'evento Decaudin a bizzarria incorrerebbe in uno sbaglio devastante. Questa, infatti, sarà la normalità. Siamo alla catastrofe: non della civiltà occidentale, già tumulata con il rifiuto della logica aristotelica e del pensiero sistematico, ma dell'umano. Ci si trova al centro del manicomio di Edgar Allan Poe: i malati mentali reggono le sorti dell'istituzione, infermieri e direttore sono al gabbio.
I visitatori di tale mondo al contrario, peraltro, non s’accorgono del folle scambio. Come accade ora.

Qualcuno obietterà: sono quattro gatti! Ma non è il numero che vale, ma la densità simbolica degli eventi. Le minoranze più sono minoritarie più assommano forza evocativa luciferina: l'innaturale diviene naturale scacciando gli antichi regni.

Le pubblicità dei cosmetici? Le fa una diciottenne down. Coronando il sogno d’una vita? No, annullando il simbolismo della femmina. La femmina (Lucia Bosè? ... è solo un esempio) è ormai modello volgare, retrogrado, razzista. La bellezza muliebre poco conta. Raffaello aveva torto, al pari di Botticelli e Canova. La bellezza, insomma, non esiste poiché - tutti possono accorgersene - essa non esiste in sé, ma si squaderna in innumerevoli sfumature, di eguale dignità, in cui la Bosè, Cléo de Mérode e Louise Brooks rilevano in un cantuccio sempre più angusto; assieme ai loro prostatici ammiratori. Ellie Goldstein, infatti, era brutta; ora non lo è più; è bella, forte, intelligente, superiore: irraggia una bellezza nuova che fa a meno di quella antica, ormai residuale e da additare al netto rifiuto dei migliori.

Saltano, quindi, le obsolete categorie estetiche. Ognuno fa arte, tutto è arte, a patto che il vessillifero di tale nuova arte abbia i giusti connotati. Se partecipassi a Sanremo con La collina dei ciliegi avrei poche possibilità, a esempio, contro un tizio stonato che gracchia fonemi da una sediola a rotelle, come Stephen Hawking. Perché a definire la bravura non è il timbro, la personalità, gli arrangiamenti, l'interpretazione emozionale, il carisma da crooner, bensì l'ottemperanza a valori che della musica possono fare a meno. La musica è obsoleta, come la pittura, l’artigianato, la recitazione.
Quell'ambiguo “planando su boschi di braccia tese”, peraltro, non mi aiuterebbe contro l'invincibile avversario che muove l’empatica commiserazione del micco.

È logico, poi, che tutto ciò che fu appprezzato in tremila anni, poiché conforme a leggi oggi rifiutate, sia potenzialmente oggetto di ripulsa. Il genio umano racchiude in sé l'inevitabile condanna. Di ciò che fu edificato resterà in piedi ben poco, anzi: niente.
Già da oggi, 2020, si può affermare che ciò che ha donato senso all'esistenza più non vale. Lo ammetto: nelle pur rare conversazioni spesso faccio riferimento a fatti e cose e uomini dandoli per scontati, ma scontati non sono. Stan Laurel e Oliver Hardy: un ventenne non sa chi siano. Lo stesso può dirsi per Chaplin, Keaton, Welles. Una quarantenne non conosce il termine punk, altri confondono rivoluzione e reazione; s’ignora, di fatto, il Rinascimento; Medioevo è divenuto sinonimo di oscurantismo, così, tanto per gradire; elettore attivo, Presidenza del Consiglio, fattispecie giuridica, epistassi, performativo, atro, incunabolo, citeriore, ricadono nel cerchio dell’indifferenza e dell’alzata di spalle.

Parlare con un trentenne esige uno sforzo considerevole di pazienza e uno spreco di energie nervose incalcolabile. Sto parlando di esseri umani con un pedigree universitario non banale. Tali esseri non ragionano come avremmo fatto noi alla loro età, circa venti o trent'anni or sono. Vivono, infatti, dalle parti di wikipedia e di quella semplificazione concettuale che aborre l’accenno, la polisemia, l’ironia, l’ambiguità fruttuosa, lo scetticismo ghignante.

Uno di tali esseri (di venticinque anni più giovane) mi ha scritto recentemente, un po’ scocciato. Secondo lui avrei dovuto meglio definire la parola "lustro", così come eliminare la torbida locuzione "ante quem"; e correggere finalmente questa intricatissima frase: "La rilevanza delle vestigia del traianeo Portus, nei pressi dell'odierna Fiumicino"; l'esserino aveva  a lamentarsi, infatti, della scarsa chiarezza. In calce, bontà sua, per mia personale edificazione, ecco l'appuntino digitale con le orecchie d’asino: "Modificare. Non si capisce dove oggi è questa località dato che possono confondersi i piani temporali".

L'omarino nuovo abbisogna di termini basici, generici, larghi come i pantaloni di Oliver Hardy. Nulla di definito, di irrefutabile: tutto ciò lo pone in ansia. La responsabilità di comprendere lo turba, meglio prender tutto alla larga e non dare nulla per scontato poichè ciò che prima era scontato (il patrimonio comune del Paese) ora non lo è più. Occorre scrivere per gli Ottentotti, come se gli Italiani fossero Ottentotti. Anche grammatica, lessico e consecutio devono adattarsi: ci si dirige verso l'uso dell'infinito, l'abolizione degli articoli e la sopravvivenza di un unico caso: il nominativo. Invece di dire: "Al confine tra Cilicia e Siria, lungo il Pinaro, Alessandro, attorniato dagli eteri, suoi pari, lanciò le falangi e la cavalleria tessale contro il cuore dell’esercito persiano spezzandone il cuore della resistenza: Dario, visto Alessandro di lontano, l’asta in pugno, fuggì, abbandonando carro e scudo" avremo un "Alessandro allora bum bum, Dario, lontano".
Allo stesso modo regredisce il pensiero, da organizzazione logica a vaga forma in cui si associano idee, mentula canis. L'associazione alogica di idee è, infatti, uno dei maggiori vanti del biglinismo, punta di diamante della controinformazione, nonché, ci tengo a dirlo, dei dissolutori anglosassoni della causalità.

A proposito dell'übermensch in copertina: come si è sempre vaticinato non siamo dalle parti della bestia bionda ... il superuomo non è altro che il giullaresco ultimo uomo inghiottito dalla demenza. Ancora una volta aveva ragione Philip Dick: in Follia per sette clan s'era sbagliato solo nel numero.

25 giugno 2020

Il prete con le scarpe da ginnastica


Roma, 25 giugno 2020

Adesso la controinformazione si è accorta della corsa alla distruzione dei simboli dell'Occidente.
Se ne accorge poiché gli eventi precipitano con una violenza iconoclasta mai vista prima. La furia in essere ricorda i perversi polimorfi per cui nulla deve frapporsi tra il sacco di carne di cui sono detentori e un supposto piacere. Le combinazioni concettuali più bislacche, le più gratuite illazioni, i giudizi più stupidamente avventati, l'arroganza che deriva da una crassa supponenza – tutto ciò si sussegue come una tempesta d'inesauribile forza che solo può placarsi con la rovina completa di noi stessi, dell'Italia, dell'Europa.

Gli attori di tale godimento dissolutorio, lo ricordiamo, non sono niente. Possiamo catalogarli come polveri da crollo. Ma il crollo fu originato da altri cedimenti strutturali, equivocati quali progresso. E pulviscolo è anche la controinformazione, purtroppo, poiché non riesce minimamente ad affrancarsi dall'attualità, dal trito fatto, essendogli negato il privilegio di un'ideologia larga e peculiare. Il distillato di una visione alta: il "saper vivere", in ultima analisi, che corrisponde a un vivere alternativo, cioè a un'etica intransigente.
Inutile, insomma, ordire traballanti requisitorie o larghi fogli excel, scientificamente probanti, se poi, la sera, si gioca a Lara Croft o si ordina da Glovo e Deliveroo per allietare la partita di calcio o di basket tarocche prenotate (con carta di debito) presso Dazn o Sky.

Ciò che mi stupisce di questi tempi è l'infrollimento generale. La mancanza assoluta di spirito di sacrificio, a esempio. Il Covid, da tal punto di vista, è stata una manna per tali ciabattoni della volontà. Ogni minimo impegno umano viene avvertito come una minaccia alla tranquillità della propria esistenza, così fittamente articolata in una serie di inderogabili scadenze. "Ho da fare", "proprio non posso", "mi piacerebbe, ma" sono le nenie più in uso da questi mollaccioni la cui unica mira, par di capire, l'unico scopo sulla terra, consiste nel passare dalla poltrona alla sedia a sdraio: a ristorare chissà quali forze dato che la loro intera esistenza si basa su sciocchezzuole, appuntamenti, incontri e lavoricchi sempre più angusti e umilianti. Ma, per carità, proprio non possono.

C ome
O rganizzare
V acanze
I nterminabilmente
D olci

Il prete scende verso le sue pecore, tra i banchi, pecore disunite come mai furono. Uno o due a banco, al massimo, per non trasmettere il virus, secondo una disposizione sancita da una segnaletica da ufficio postale. L'acquasantiera, questo manufatto che mi vide in prima linea con sbocchi d'ira incomprensibili dai più, sono state finalmente obliterate da inderogabili erogatori di disinfettante all'alcool. L'acquasantiera: litigate, protervie verbali, combattimenti con preti d'ogni risma. "L'acquasantiera non può essere di plastica! Non può trovarsi secca! Non potete mettere un recipiente per conservare le melanzane in frigo dentro una vasca di pietra!".
Bei tempi, si pensava di invertire il corso delle cose, ma il corso delle cose mai s'inverte; a meno di non creare nuove cause, nuovi simboli, suggestioni metafisiche. Il prete scivola tra i banchi, consegna particole, poi ciabatta verso l'altare. Sotto la tonaca s'indovinano le scarpe da ginnastica, Diadora, un po' scalcagnate.

Quando mi prese il ticchio di leggere biglinate, tanti anni fa, dai Dogon alle piramidi, m'imbattevo spesso nella profezia di San Malachia sull'ultimo papa. Secondo accorte ricostruzioni, Giovanni Paolo II sarebbe stato il terz'ultimo Pontefice; Benedetto il predecessore dell'ultimo, l’estremo difensore della fede. Allora pareva una scemenzuola buttata lì; oggi, a bergogliare gli accadimenti, sembra una probabilità di buon peso. La Chiesa, di fatto, è sciolta. Chiunque avverte, a pelle, come gli attacchi più deliranti (vietare il San Michele poiché ricorda Chauvin mentre atterra Floyd; in tal caso, a lume di logica, Floyd personificherebbe Satana) possano avere una benedizione presso il Tevere. Vietare Michele? Perché no? Se spiace a Black Lives Matter ... E poi: abbiamo così tante colpe: Colombo, Cortez ... i roghi di Salem, povere streghe ... giusto pagare ... non in moneta bensì in Storia ...

Leggo che si vorrebbe dipingere Black Lives Matter anche in Italia, a caratteri cubitali ... a Roma, Firenze, Napoli ... Non me la prendo con quell'ammasso di peli e fonemi da bar che ha proposto tale scemenza ... e nemmeno col prete con le Diadora, altra vittima della deculturazione fatta con diserbanti vietnamiti.
La strada per l'inferno non è lastricata di buone intenzioni, ma di continue concessioni all'informale.

L'informale, il senza forma. Dimenticarsi di alzare una bandiera, presentarsi con la barba incolta al commissariato, discutere di diritto commerciale coi jeans sdruciti, quante minuscole concessioni all'informale stanno deflagrando oggi. Antiche istituzioni, una volta seriose e compassate, degenerano in comunità hippie. La disinvoltura, però, non si traduce in maggiore efficienza bensì nell'estinzione dell'efficienza, in ogni ambito.

C erti d'
O norare il
V ibrione
I ndolenti
D ormiamo

L'informale vanta questo pregio agli occhi del potere: rende plasmabile ogni cosa.
Ogni capriccio è consentito, persino una pagina facebook dedicata alle bestemmie.
Non vorrei ingenerare equivoci facendomi passare per beghino. Ciò che vorrei sommessamente significare è che le mura di una chiesa difendono persino gli infedeli. Capisco, però, che è dura accettare un sillogismo che vanta centinaia di premesse.

A vedere il muso anonimo e ottuso d'un Sardino qualunque si ha l'impressione d'una perdita talmente irrimediabile da ingenerare orrore. Qui si è in presenza di un'assenza capitale: la personalità. Ragioniamo. Certamente un Sardino rileva quale somma di funzioni fisiologiche: mangia, beve, defeca e minge. Queste poche azioni sono le uniche che, è solo un esempio, condivide pienamente col sottoscritto. Concediamogli pure una manciata di fornicazioni con regolare versamento di umori. I due insiemi (io e il Sardino) sono ancora blandamente sovrapponibili benché, mi tocca ammetterlo, crepi la modestia, in certi atti sommenzionati mantengo una gravitas raramente raggiungibile da tali esserini. E il resto? Cosa hanno in comune con me? Piaccio a pochissimi, ma nessuno può dirmi ch'io sia un plagiario o un tipo suggestionabile o accomodante o concessivo. Ho una mia propria personalità, ricca di convinzioni, forte di un retaggio antico; una proprietà definita dell'umano che mi distingue anche da animi affini. E questo avviene non perché sia stato educato bene o sia deferente a una ideologia precisa. No, sono portato a credere che tale indipendenza derivi da alcuni libri letti, e poi riletti, libri decisivi, cui si sono accompagnate esperienze inevitabilmente decisive nel formare un carattere che è così e non potrà mai essere altrimenti. Il Sardino, invece, nella versione col cerchietto o senza, è un assemblaggio di dati posticci che, assieme, fingono una personalità: creduta tale sol perché l’accozzaglia suona in concordia col vento dei Tempi. In realtà se un dio maligno gli dicesse: "Vi abbiamo mentito, è tutta una farsa" questa gente sparirebbe, improvvisamente, inghiottita dal caveo nulla che è proliferato in luogo dell'anima. Abituati a ripetere: "Portobello!", ogni giorno, ossessivamente, essi, senza il riferimento del Potere che quel grido chioccio ("Portobello!") giustifica interminabilmente, ammutolirebbero all'istante rimanendogli estranei quei luoghi comuni di cui sono composti quali frankenstein postmoderni.

È raggelante, poi, la cesura col passato. Lasciamo stare i Maggiori, da Giotto a Gadda, da Leon Battista Alberti a Galileo, da Marco Polo a Torricelli. A un Cristian Raimo qualsiasi dicono poco pure Fellini e Alberto Sordi. Questa la tragedia. Si eclissa un mondo, nella sua interezza. Personalmente, come uomo nel guado, con un piede piantato nello ieri e l'altro nel presente eterno, ricordo con vividezza come Fellini, Truffaut o Bergman fossero popolari. In questo senso: c'era una larga fetta di Italiani che il sabato o la domenica decidevano, dopo la compulsazione del giornale locale acquistato in edicola, di spendere qualche migliaio di lire per andare al cinema. A vedere Totò e Milian, fra gli altri, ma anche I quattrocento colpi o La dolce vita, campione d'incassi. Oggi cosa sarebbe d'un film, cito a caso, come Il fascino della borghesia, L’infanzia di Ivan o Nashville? Ma questo è ancora poco. Prendiamo l'attore italiano in cui convive la popolarità, la denuncia sociale e una irresistibile cialtroneria: Alberto Sordi. Cosa sopravvive di lui, oggi, a diciassette anni dalla morte? Ben poco. Nessuna sa degnamente celebrarlo per il fatto, lapalissiano, che pochissimi ne conoscono la reale filmografia, quella decisiva. Il vedovo, Una vita difficile, I vitelloni: che ne sanno di tali pellicole il Sardino, o il Raimo, quello che dileggiava Moravia perché l'aveva sorpreso a usare troppo spesso il passato remoto? Anche i più anzianotti, però, ormai disabituati al bel cinema, come lo furono all'arte, alla scienza, all'archeologia, al civismo, non riescono più a inquadrare una figura un tempo universale come Sordi. Al massimo ricordano le sue prove tarde, Il tassinaro o il citatissimo Il marchese del Grillo, irto di macchiette e grossolanità. Non è un caso se, per i cento anni dalla nascita di Sordi, le bacheche di facebook si siano riempite della triviale battuta "Io so' io e voi non siete un cazzo"; ignorando, peraltro, che tali parole non sono che versi d’un sonetto di Gioachino Belli.

Non sfugga poi l’ennesima mano luciferina. Cambia la definizione di museo. Ecco quella nuova, appena proposta: “I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano reperti ed esemplari in custodia per la società, salvaguardano ricordi diversi per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone.
I musei non sono a scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in partnership attiva con e per le diverse comunità al fine di raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario”.
Forse vi sfugge il senso ultimo di tali ciacole. Ve lo condenso in tal modo: “Accanto alla Tempesta del Giorgione, nei prossimi anni - non c’è fretta - dovranno comparire, quale risarcimento storico, le collanine del Niger o le stupidate di Basquiat. A miscelare suggestioni, a sveltire le sveltine democratiche, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana ...”.

Il prete con le scarpe da ginnastica lo comprendo. È, in fondo, un poveretto. Che lo sia me ne rendo conto quando chiude il Paternoster coll’insopportabile “e non abbandonarci alla tentazione”. Mi ricorda lo stilita di Buñuel che sapeva contrastare al Male e al Maligno, ma non potè far nulla contro il casual. Gli inganni luciferini venivano rintuzzati poiché comandati in nome del Male; l’informale, il mediocre, il piccino, lo sciocco, lo stolido, però, quelli furono invincibili. Tanto da ridurre il povero Simón a ubriacone da discoteca mentre la diabolica Silvia Pinal gli ride in faccia, di gusto: una vittoria così semplice e totale non può che farsi esilarante.

Mille anni e mille anni e mille anni ancora giacciono dietro di noi, in una rovina inimmaginabile sino a poco tempo fa. Davanti non si ha niente, solo qualche resoconto svogliato come questo. In ogni caso: Vade ultra!

18 giugno 2020

Montanelli di statue ne merita due


Roma, 18 giugno 2020

Non dobbiamo dare troppo credito a questi tempi esagitati.
È pulviscolo generato da una più ampia frantumaglia di rovine.
Gli elementi irrilevanti che compongono il pulviscolo credono d'essere loro gli attori di un processo immane; e invece non rilevano che quale ultimo effetto, spettacolare e del tutto inessenziale. Essi sono la calcina che imbianca i cadaveri degli sconfitti dopo un assedio lungo e sanguinoso.
I volti dei morti, si dice, si assomigliano tutti poichè la Morte riunisce a sé, in un grembo comune, ogni uomo.
Ma non è così.
Si muore con fattezze diverse, alcuni nel terrore abietto, altri nella paciosa serenità, o con i grugni tirati, oppure distesi in una fiducia invincibile; ghignanti o pietosamente rassegnati, con un lampo obliquo nella mente o invasi da una verità che, finalmente, muove l'umido rimpianto. 

Molti presunti grandi uomini creparono male, prosciugati dalla sepsi d'una filosofia innaturale; au contraire, certi buontemponi del pensiero lasciarono questa valle di lacrime sicuri d'averla imbroccata, la verità, e trapassarono con un sincero guizzo felice.
Chi ha combattuto muore allo stesso modo, ma con una risolutezza insondabile dai più.
Guardiamo i volti degli sconfitti, di chi è a terra, i Galata morenti di un'epoca. La rovina della famiglia e delle genti cui erano avvinti in un sinolo inconsapevole quanto indissolubile, gordiano, li ha recati a disprezzare l'ultimo barbaro con l'estremo alito di vita. La fuliggine degli incendi, la polvere dei crolli, le farine dei templi atterrati e degli acquedotti tagliati ne bruttano superficialmente le linee indurite del volto. Sotto tali veli transeunti l'anima, però, riposa intatta. La vittoria gli arride, in segreto.

La vernice con cui si è sfregiata la statua di Montanelli, certo, appartiene ai vincitori in leasing del nostro tempo. La distruzione della terra più decisiva di sempre fu ordita nei secoli; che questi squallidi sgavazzatori se ne approprino i meriti fa parte di una recita ignominiosa.

Tutte queste masnade da poltrona, eccitate con due caramelle, non sono niente. Non vantano pensiero proprio, né carattere, né vitalità. Si è riusciti a distillare il nulla, quasi perfetto. Esse concionano all'ombra di un permissivismo totalitario che o non vedono o fanno finta di non vedere. In altri tempi li impiegherebbero come sguatteri o delatori. La loro rilevanza è men che zero. Esserini del futuro, manilopolabili, inconsistenti, eterei, teste impagliate, servi. Il loro numero è sovrastante, tanto da togliere il respiro; l'unica cosa di cui posso degnarli è l'ambizione del loro sterminio.

14 giugno 2020

Cronache dalla fine dell’Occidente [Il Fu Rabal]


 
Il Fu Rabal

Nell’Estremo Occidente tutto si muove rapidamente, il passo è quello di una danza apparentemente caotica a un ritmo che è un misto di rap e canti eleusini (Daemonia Nymphe): siamo passati, in un balzo, dalla fase 1 alla fase 4 della demolizione controllata del Mondo che non sarà più.
Ma andiamo per ordine. Circa un mese fa io e la mia famigliola abbiamo partecipato a una manifestazione anti “lockdown” tenutasi nella capitale della Stato di Washington, Olympia, c’erano circa un migliaio di persone davanti al Campidoglio, la sede del parlamento statale, per lo più provenienti dalle zone rurali, un piccolo palco, uno stand che vendeva hot dog e una serie di oratori, molte famiglie con bambini, un buon numero di chiassosi motociclisti e uomini di tutte le età armati di fucile. La polizia guardava da lontano con un certo distacco, nessuno era mascherato e il distanziamento sociale ignorato, mentre sullo sfondo sventolavano bandiere e cartelli inneggianti a Trump e ad altri rappresentanti Repubblicani. Il fronte della resistenza si espresse in una serie di interventi che si possono riassumere in: vota per me, alle prossime elezioni (previste per l’autunno) manderemo a casa Inslee, il governatore Democratico, e la sua corte, difendiamo la costituzione, rivendichiamo la nostra libertà di espressione e il diritto a portare armi (primo e secondo emendamento della costituzione degli USA), riapriamo lo stato e tutte le attività commerciali. A me sembrava fosse la solita aria fritta, ma forse non lo era del tutto.

08 giugno 2020

L’Arcinemico ci guarda


Roma, 8 giugno 2020 

α. Il volto secolare e scarnificato di Jeremy Bentham ci osserva dai recessi della postmodernità.
Scrive Adan Zzywwurath nel secondo volume della sua Fantaenciclopedìa:
Bentham diede precise disposizioni che riguardavano il futuro del suo cadavere. Lo donò alla Scienza, stabilendo che il suo corpo doveva essere sezionato in una pubblica seduta d’indagine anatomica. Docili alla consegna estrema, gli amici scortarono le spoglie del grand’uomo alla Scuola d’Anatomia di Webbstreet dove, dice il Waree, furono accolte con tutti gli onori. Il dottor Southwood-Smith, prima di squartarlo dinanzi alla platea, dedicò al filosofo un applaudito e commosso discorso di circostanza. 
Bentham dispose nelle sue ultime volontà che il suo corpo venisse poi imbalsamato, imbottito, rivestito con cilindro e bastone da passeggio, e infine posto a sedere su uno scranno e conservato in un’aula dell’University College, in Londra. Ma soprattutto il filosofo diede due direttivi ineludibili: la prima, che la sua mummia fosse mostrata pubblicamente, e per sempre: la seconda, che gli occhi del suo cadavere restassero perennemente spalancati”.

Tale agghiacciante resoconto può costituirsi quale uno dei cippi post quem del Nuovo Mondo; ben prima dei suoi più profondi vaticinatori (Dostoevskij, Zamjatin: entrambi russi) e dei profeti di second’ordine (Huxley, Orwell: entrambi inglesi). Ciò non deve muover la nostra meraviglia poiché se Mosca è una terza Roma, col suo Czar, allora i suoi abitatori non possono che comprendere immediatamente l’intero fenomeno. Gl’Inglesi, invece, poiché coinvolti nel fenomeno, anzi forza attrice e motrice del fenomeno stesso, non ne afferrano l’intima e rovinosa grandiosità. Ma lasciamo perdere tali quiquilie e addentriamoci nell’esame delle precedenti righe.
Chi fu Jeremy Bentham (1748-1832)? Trascriviamo, per comodità, da Wikipedia: “Bentham fu uno dei più importanti utilitaristi, in parte tramite le sue opere, ma in particolare tramite i suoi studenti sparsi per il mondo. Tra questi figurano il suo segretario e collaboratore James Mill e suo figlio John Stuart Mill, oltre a vari politici (e Robert Owen, che divenne poi uno dei fondatori del socialismo). 
Argomentò a favore della libertà personale ed economica, la separazione di stato e chiesa, la libertà di parola, la parità di diritti per le donne, i diritti degli animali, la fine della schiavitù, l'abolizione di punizioni fisiche, il diritto al divorzio, il libero commercio, la difesa dell'usura, e la depenalizzazione della sodomia. Fu a favore delle tasse di successione, restrizioni sul monopolio, pensioni e assicurazioni sulla salute. Ideò e promosse un nuovo tipo di prigione, che Bentham chiamò Panopticon.

01 giugno 2020

La città dalle nove porte [Nachtigall]


di Nachtigall 

Baikal 

Il mozzicone di candela, che si spegneva a poco a poco nel candeliere contorto, illuminava debolmente quella misera stanza, nella quale l'assassino e la prostituta, per una strana combinazione, s'erano uniti nella lettura del libro eterno

F. M. Dostojevskij

Ovunque si volga lo sguardo è deserto di ghiaccio e neve, lo stesso sole, pure bellissimo in cielo, pare da giorni sorgere di controvoglia, con una comprensibile fretta di dileguarsi dietro l'orizzonte. L'elettricità, sull'isola dove mi trovo, non è comparsa che con il nuovo millennio, suggello di fuoco a conclusione definitiva di un'epoca. Nei pochi villaggi, gli alberghi costruiti dai cinesi risaltano come note stonate in una composizione altrimenti divina. In questa terra di confine ancora regnano forze primordiali oscure e l'uomo si inchina alla di loro superiorità. Ma il limite che questa terra segna è nel tempo più che nello spazio: da una parte vi è il passato, dall'altra, oltre, l'oblio. Intorno a me è la stessa pace che si deve provare in fondo all'oceano.Una folata di vento gelido mi scuote dai miei pensieri: presto farà notte. Ne va una buona oretta per tornare al villaggio. Mi metto in cammino, di ottimo umore.
Vedendomi arrivare, L. esce dalla banja e mi si fa incontro. Un brivido mi percorre la schiena, d'eccitazione e di freddo.
Priviet”.
Slacciandomi il colbacco e abbassandomi la sciarpa, avrei sorriso di rimando, se solo la condizione dei muscoli facciali l'avesse consentito. “Già qui? Ho appena acceso. Tra venti minuti possiamo entrare“. Dentro la casetta di legno, anche se non ancora dentro la banja vera e propria, dopo pochi piacevoli attimi, il troppo caldo velocemente diventava fastidioso. Sebbene molto irriggidito mi spoglio rapidamente, rimanendo in magliettina. Mi dò un'occhiata intorno. Sulla mia destra, un appendiabiti e sotto una scarpiera con infilate dentro varie paia di ciabatte di diverse misure e colori. Per quanto mi riguarda – rimango scalzo. Non troppo avanti una porta semisocchiusa lascia intravedere un'altra stanza, un piccolo spogliatoio, con asciugamani e lenzuola pulite e un cesto per la roba sporca, da cui si accede a quella che io chiamo „camera di primo raffreddamento”, quella di secondo essendo il mondo esterno. Il pavimento qui è formato da assi di legno leggermente distanziate fra loro, l'acqua della doccia potendo così direttamente finire sul terreno sottostante, emanante un certo freddo contrastato però abbondantemente dalla prossimità del forno acceso della banja. Oltre alla doccia (un tubo da cui girando una valvola si può far uscire dell'acqua) ci sono dei secchi in metallo, di cui uno appeso in alto alla parete, riempibile all'occorrenza di acqua gelida tramite un rubinetto nelle prossimità e rovesciabile comodamente sulla propria testa per mezzo di una corda. In un altro secchiello ci sono rami secchi di betulla, altri due o tre sono vuoti. Dalla camera “di primo raffreddamento” si accede finalmente alla banja. Alla mia sinistra invece è un salotto: un divano e credo vi fosse anche un televisore. Poi al centro un tavolo abbastanza grande, per otto o dieci persone, delle sedie ed infine una piccola cucina. Nell'angolo, accanto al divano, un lettino per massaggi, di quelli portabili, smontato. Dipinti del lago senza alcun valore ed una riproduzione di un Roerich ci osservano dalle pareti. Sul tavolo ci sono dei cetrioli in salamoia, del salo speziato con abbondante aglio, pane nero e, sovrana, una bottiglia di vodka, la cui forma rassomigliante un fallo eretto non tragga in inganno, giacché si tratta solo del contenitore: non c'è simbolo più loquace per rappresentare la neoprimitiva ginecocrazia odierna. Mi immagino l'etichetta: liquido solvente, versare un po' di volontà e lasciare a macerare per quindici minuti a temperatura né calda né fredda; la dissoluzione è servita, bere, se possibile, tutto d'un fiato. In cucina bolle un samovar. Mi viene in mente un quadro di epoca sovietica nella mia cameretta sull'isola Vasilevskij, a San Pietroburgo, dove mi rinchiusi per un mesetto anni addietro. Vi è rappresentata questa scena: ad un signore distinto viene offerto un bicchierino di vodka e lui scansandolo con un gesto netto della mano e del braccio risponde: niet. Ad un'occhiata più attenta, quasi il ricordo del distinto signore li avesse disintegrati, mi accorgo che non vi è nulla di tutto ciò: niente salo, niente vodka, niente samovar. Sul tavolo c'è solo qualche porzione monouso di miele, di marche differenti, e due tazze sporche del tè del giorno prima.