Appena fuori Roma, sull'antica consolare Flaminia, a pochi passi dal campo di battaglia che vide trionfare Costantino contro Massenzio, si apre la città dei morti.
Il cimitero di Prima Porta.
Il più grande camposanto del Lazio e, forse, dell'Italia centrale.
In questa vasta città deserta si può scorrazzare per ore.
Campi a terra che si stendono per chilometri, lunghe infilate di fornetti a cinque o sei livelli, cappelle gentilizie, tozzi edifici multipiani, labirintici, gravati da decine di migliaia di loculi, ognuno diviso cartesianamente in settori e sottosezioni uniti fra loro da scalinate interne, montacarichi, scale a chiocciola.
D'estate, all’ora di pranzo, durante la canicola che sancisce il riposo da sombrero parastatale, il silenzio è altissimo. Solo un frinire incessante di cicale rompe la quiete, ma presto anche tale rumore si derubrica a sfondo sonoro, inavvertito.
Il cielo è di un azzurro compatto, implacabile.
Alcuni viali sono bordati da pini altissimi e ombrosi, altri sembrano perdersi nella campagna romana, verso la Tiberina; i ruderi di una villa romana interrompono il soliloquio della distesa funebre; stradine secondarie ritagliano larghi prati fitti di croci stitiche, due stanghe di metallo: i funerali di chi è morto povero o, forse, di chi è stato inumato da poco.
I nati morti o i neonati sono sepolti a parte. Un po' di terra anonima li ricopre; a volte i genitori abbelliscono il minuscolo tumulo con una piccola siepe, o con giocattoli, bambole che non saranno mai cullate, o palloni che non saranno mai calciati. Le girelle coloratissime frullano senza posa, agitate da un alito appena di vento; le silenziose stelle filanti, gialle verdi rosso fuoco, si alzano e si abbassano al ritmo della brezza quasi lasciando presagire l'inconsistenza della natura umana.