03 gennaio 2022

La Bestia


Roma, 3 gennaio 2022

Il buon Nachtigall mi chiede: chi sarà mai il Monarca Universale?
Gli rispondo, per puro miracolo, poiché google mi consente raramente commenti in calce al post, che non occorre individuare esseri umani; di ipotesi contingenti, quelle che fanno perdere anni e decenni in chiacchiere, è lastricata la via dell’inconcludenza. É preferibile definire concetti, stati d’animo, concrezioni spirituali, accumuli storico-metastatici. Il Re del Mondo arriverà, di notte, e tutti lo accetteranno con naturalezza poiché il decesso della civiltà vanta cause assai risalenti. Un cedimento strutturale della Chiesa occidentale e orientale e la sua resa al mondo protestante? Una Roma senza Papa, quindi? Un embrassons-nous totalitario e liquidatore? Oppure: un consesso globale che superi ONU, NATO e religioni positive in grado di sussumere al proprio interno esseri di indiscussa e indiscutibile levatura morale che si ponga quale Consiglio Universale di Sapienti? Pax mundi? Di “questo” mondo, e non di altri, poiché l’Altro non è più necessario. L’ex Papa, l’ex Dalai Lama, l’ex Presidente ONU, i rappresentanti temporali dei cinque angoli della Terra … tutti riuniti, in povertà materiale, onde predicare il nuovo verbo: lo spossessamento dell’uomo, definitivo, al termine di una parabola di civiltà ormai sentita come oppressiva e sanguinaria …

Il discorso, da tal punto di vista, è arretrato, quasi trogloditico. Inutile intavolare dibattiti con chi ancora crede che la Rivoluzione Francese fu lo spauracchio del Potere; altrettanto deprimente invischiarsi in colloqui, più o meno digitali, ove il Potere è sentito come criminale. Il Potere, infatti, non è più criminale, bensì totalitario. Esso si pone quale Unico al di fuori del quale nulla sussiste poiché - è questo il punto - nulla di ciò che vive al di fuori è più concepibile e, perciò, oggetto di discorso. E tutto questo lo vediamo avverarsi ogni giorno, quando il passato viene triturato nell’immondezzaio della più anonima irrealtà quotidiana. Ben riassume tale caduta nel totalitarismo Oswald Spengler allorché afferma: “Un giorno l’ultimo quadro di Rembrandt e l’ultima nota di Mozart avranno cessato di esistere pur sussistendo, forse, una tela dipinta e uno spartito: perché l’ultimo occhio e l’ultimo orecchio che potevano cogliere la lingua delle loro forme saranno scomparsi”. Al di là dell’agghiacciante “forse” è appena il caso di notare che ogni occhio e ogni orecchio sono stati, come in ogni rituale magico, liberi di scegliere: e hanno scelto la Bestia.

Più importante del leggere è il rileggere. La rilettura ci consegna un testo, a volte, completamente diverso. Jorge Luis Borges, nel suo Menard, ci parla di riletture. Pierre Menard, protagonista dell’apologo, riscrive il Don Chisciotte, parola per parola, lettera per lettera. Apparentemente i testi sono eguali eppure quello di Menard è assai più ricco delle spagnolate di Cervantes. Perché? Perché fra Cervantes e Menard sono intercorsi diversi secoli e le parole del francese si piegano ora a interpretazioni assai differenti.
 
Rileggevo, in questi giorni apocalittici, un'antologia di Arthur Machen (La polvere mortale, Del Bosco, 1972). Una edizione con fioriture brunastre, un po’ deformata dall’umidità, rinvenuta in una delle ultime librerie d’occasione che ancora s’illudono che la gente legga. La prosa del Gallese è, come sempre, elusiva. Accenna all’orrore, ma resoconta apparentemente fatti che, ai nostri occhi postmoderni (“gli ochi nostri tenebrosi”) sembrano solo un blando sovvertimento del quotidiano. Oggi accade ben di peggio! giudicherà l’ometto postmoderno, l’omiciattolo immerso nel sopore totalitario. L’orrore però è ben indicato; una inavvertita crepa nel muro ne permette l'intuizione. Non so se qualcuno ha più voglia e coraggio di accostarsi a tale crepa: dovrebbe avere il dono della rilettura. Più sconfortante, però, è che nessuno veda la crepa.
 
La polvere mortale contiene tre racconti lunghi: Storia del sigillo nero, La luce interiore e, appunto, La polvere mortale. L’introduzione di Gianna Tornabuoni vanta un pregio, essenza della mia rilettura: nelle ultime righe, infatti, accenna alla magia, alle Tenebrae Activae.

Magia, filosofia naturale, scienza, psicologia, studi sociali. Per l’uomo compartimentale, quasi sempre un tecnico, il sapere è inevitabilmente discreto (ovvero separato, discontinuo, gerarchico); egli nutre la fede incrollabile per cui ogni sua branca gode di vita propria, autonoma. Invece, tale la tragedia attuale, le elaborazioni storiche, pur vaste, sono nient’altro che simboli l’una dell’altra. La biologia opera in simboli e niente di nuovo dice rispetto a Guido Cavalcanti e alla sua teoria degli spiriti; dal canto suo la psicologia aggiorna, per mezzo di certe sue trovate lessicali, ciò che era noto da sempre ai Padri della Chiesa. La natura o scaturigine del Tutto ama nascondersi; vi è chi l’ha rivelata da tempo immemore. L’ometto postmoderno si perita di cambiare nome alle definizioni illudendosi di approfondirle ulteriormente. La sua gloria giace su un accorto travestitismo linguistico, oltre che sull’arroganza.

L’accenno alle Tenebrae Activae rimanda al romanzo più noto di Arthur Machen, The great God Pan. Riassumo brevemente la trama: il dottor Raymond opera un esperimento mentale su una giovane, Mary, aprendole all'invasamento del dio Pan. Mary impazzisce. Anni più tardi, sua figlia, Helen Vaughan, frutto di quell’unione ultraterrena, semina perdizione e follia a Londra. La donna, o forse meglio: l’abominevole essere inconsapevole che ha nome Helen Vaughan è il tramite di un remoto mistero che si manifesta ai giorni nostri, tra le cupe strade di Londra anziché tra i vigneti e le distese di ulivi. Sappiamo cosa è accaduto a coloro che ebbero l’occasione di incontrare il grande dio Pan, e i saggi non ignorano che i simboli indicano sempre qualcosa, non sono mai privi di significato. Ed era davvero un simbolo mirabile quello con cui, in tempi antichi, gli uomini nascondevano la conoscenza delle forze più terrificanti e più segrete che si celano in fondo a tutte le cose ... forze davanti a cui l’anima dell’uomo avvizzisce, muore e annerisce come un corpo straziato dalla corrente elettrica”.

Chiunque venga a contatto con Pan, il Tutto, e vedremo di quale totalità si parla, è impossibilitato a risalire l’Abisso. Una di tali vittime è un tal Crashaw, amante della Vaughan. Il protagonista del romanzo lo sorprende casualmente, di notte, lungo i viali apocalittici di Londra, indistinti per le brume e i vapori industriali:

Il volto di quell’uomo mi gelò il sangue. Non avrei mai pensato che fosse possibile vedere un tale groviglio di passioni attraversare uno sguardo umano; alla sua vista, mi sentii quasi svenire. Compresi di aver guardato dritto negli occhi di un’anima perduta, Austin. La forma esteriore dell’uomo persisteva ancora, ma dentro di lui si era scatenato l’intero inferno. Lussuria sfrenata, odio incandescente come fuoco, la perdita di qualsiasi speranza e un terrore che sembrava gridare di paura nella notte, anche se la sua bocca era chiusa ... e la tenebra impenetrabile della disperazione”.

Machen accenna a qualcosa di indicibile. Cos’è che sconvolge in quel volto? Sono le tenebre, totali e totalizzanti, al fondo dell’esistenza a rendere disperato e pazzo chiunque le guardi. Le orge, la lussuria, l’abbandono della ritenutezza non sono che accenni alla dissoluzione. Quando, nell’ultimo capitolo, Helen Vaughan morirà, la Dissoluzione nell’Indifferenziato si manifesterà nel mondo:

Rimasi calmo, per quanto mi sentissi invadere da un senso di orrore e di nausea ripugnante, e soffocare da un odore simile a quello della decomposizione. Poi ebbi il privilegio – o la maledizione, non oso dire quale dei due – di vedere la cosa sul letto, che giaceva lì come una macchia di inchiostro nero, trasformarsi proprio sotto i miei occhi. La pelle, la carne, i muscoli, le ossa, l’intera struttura del corpo umano, che avevo creduto immutabili, permanenti come il diamante, cominciarono a sciogliersi e a disfarsi.
So che gli agenti esterni possono scomporre il corpo nei suoi diversi elementi, ma ciò che vidi era impossibile da accettare. Qui, infatti, era all’opera una forza sconosciuta, che dall’interno causava la dissoluzione e la trasformazione.
Inoltre, davanti a me, si ripeté tutta l’opera attraverso cui fu creato l’uomo. Vidi la forma oscillare da un sesso all’altro, dividersi da se stessa e poi riunirsi di nuovo. Vidi il corpo scendere allo stato bestiale da cui si era innalzato; vidi ciò che aveva raggiunto il punto più alto sprofondare fino all’abisso più insondabile dell’essere. Il principio della vita che crea gli organismi rimaneva immutato, mentre la forma esteriore cambiava.
La luce nella stanza si era trasformata in tenebra, ma non si trattava dell’oscurità della notte, in cui gli oggetti risultano indistinti, giacché riuscivo a vedere bene, senza difficoltà. Era piuttosto la negazione della luce; gli oggetti si presentavano al mio sguardo, se così posso dire, senza passare per un mezzo fisico, in modo tale che se nella stanza ci fosse stato un prisma, non si sarebbe visto alcun colore riflesso al suo interno.

Continuai a guardare, e alla fine non vidi altro che una sostanza simile a gelatina. Poi la scala fu risalita di nuovo... (qui il manoscritto è illeggibile) ... A un certo punto, nell’oscurità, intravidi una forma che non descriverò ulteriormente. Ma il simbolo che la rappresenta si ritrova nelle sculture antiche, nei dipinti sopravvissuti alla lava, troppo osceno per essere riportato... E mentre una cosa orrenda e innominabile, né uomo né bestia, si trasformava in una sagoma umana, sopraggiunse finalmente la morte”.

La tenebra è in noi. La Bestia è sempre stata in noi e aspetta da sempre di risalire l’Abisso. Questo è l’Indifferenziato, tale il Nulla. Non il Nulla in contrapposizione ontologica all’Essere, ma l’Annichilimento di ogni entità definita: morale, psicologica, civile. La Morte benigna di San Francesco è qui soppiantata dalla Dissoluzione: qui non opera né il Bene e né il Male, ma la Tenebra.

Uno degli ispiratori di Arthur Machen fu l’alchimista e cabalista gallese Thomas Vaughan (1621-1666), esponente dei Rosacroce e primo traduttore dei famigerati libelli rosicruciani della Fama fraternitatis e Confessio fraternitatis.

Noteremo, en passant, a puro titolo di ghiribizzo intellettuale, come Thomas Vaughan, fratello del poeta metafisico Henry Vaughan, sia omonimo della Helen Vaughan del Grande dio Pan; faremo caso, altresì, alla data di morte, 1666: anno del grande incendio di Londra in cui la città avvampò nella distruzione liberandosi delle scorie medievali e classiche (l’antica Londinium) e predisponendosi, perciò, a divenire il Tempio della Postmodernità; e anno della sovversione spirituale russa quando i patriarchi ortodossi, su istigazione esterna, recisero, anche loro, il cordone ombelicale con il mondo della prima Roma.

L’occultista Thomas Vaughan, sotto le spoglie letterarie di Eugenius Philalethes, licenziò nel 1651 il suo più noto libercolino: Lumen de Lumine: Or A new Magicall Light discovered, and Communicated to the World (printed for H. Blunden at the Castle in Corne-Hil, 1651).
A circa metà dell’operina si legge:

When I seriously consider the System or Fabric of this world, I find it to be a certaine Series, a Link or Chaine, which is extended a non Gradu ad non Gradum, From that which is beneath all Apprehension to that which is above all Apprehension. That which is Beneath all Degree of Sense, is a certain Horrible Inexpressible Darknesse. The Magicians call it Tenebrae Activae, and the Effect of it in Nature is Cold, &c. For Darknesse is Vultus Frigoris, the Complexion, Body, and Matrix of Cold, as Light is the Face, Principle, and Fountaine of Heat. That which is above all Degree of Intelligence, is a certain Infinite Inaccessible Fire or Light…The middle Substances, or Chaine between these Two, is That which we Commonly call Nature. This is the Scala of the Great Chaldee, which doth reach a Tartaro ad primum Ignem, from the Subternaturall Darknesse to the Supernatural Fire”.

Le Tenebrae Activae giacciono in noi, Horrible Inexpressible Darknesse,  nella zona più remota dell’anima, inattingibili ai sensi. Renitenti alla Luce, Esse intrappolano oramai il nostro cuore spento nel ghiaccio ché la Tenebra è Vultus Frigoris.

Lucifero si erge per metà dal lago ghiacciato Cocito, sul fondo dell’Inferno, a dilaniare i traditori. Egli è sterile dacché anche il suo sperma è freddo come ghiaccio.

Tali i nostri tempi. Nulla può riscaldare i cuori. La Bestia, in attesa da sempre, risale gli eoni, allaga come un nero inchiostro vischioso l’anima, a bloccare ogni moto e altruismo. Essa è l’Indifferenziato, l’Arcinemico, la Disunione, la Discordia, l’Indefinibile. Legioni di nomi hanno cercato di individuarla. Uomini accorti, come i  Greci, l’hanno accolta nel loro seno e intrappolata a sua volta nelle forme solari doriche; chiuso il ciclo classico, fu il Cristianesimo a sostituirsi nel ruolo di Guardiano. 

Molti presentirono la Bestia; Pan, Lucifero, Azathoth; sotto varie spoglie. Alcuni ne furono inghiottiti. Nietzsche, Lombroso, Stevenson, Huysmans, Benn, Lovecraft, Leopardi, Sade. Incatenata, per millenni, da riti, formule e accorgimenti segreti, tramandati in confraternite e opifici di sapienza, è oggi libera di risalire la feccia che fu la nostra anima. A cosa servono, d’altronde, questi richiami fascinosi alla perversione? Se non a stimolare nuovamente ciò che avrebbe dovuto dormire per sempre?

In un libercolo, per altri versi assolutamente sciocco, dedicato alle parafilie  come espressione di atavismo filetico nella specie umana, rinvengo una citazione da Stumpfl (Die personlichkeit des padophilen, 1965): “[La pedofilia è in] stretto rapporto con l’ermafroditismo cosmogonico quale stato primordiale esistito prima dell’uomo, stato ancora indifferenziato, androgino”. Ma ciò vale per ogni perversione umana, anzi: per tutti i comportamenti che sono stati nel tempo banditi quali perversioni. In nome della civiltà. Le efferatezze che vengono normalmente celebrate oggi, dal sadismo all’incesto, dallo stupro alla necrofilia, sorta di teologia nera della liberazione, mirano, invece, al contrario: alla regressione protozoica, alla caduta nell’Abisso panico.

Comprenderete ora cosa abbia significato per l’umanità la meditazione di John Keats sull’urna greca; o perché Goethe volesse fermare l’attimo; o perché la Bellezza, spesso dispiegata in orpelli apparentemente inutili, abbia risarcito noi tutti con la salvezza dell’anima. L’esorcismo consiste nella persistenza della Forma, non in altro. Quando vollero essiccare definitivamente le fonti della Cristianità operarono con efficacia su due fronti: la tradizione, resa sempre più grossolana nei seminari, e ciò che rimaneva della Bellezza, consegnata nelle mani dei carnefici grazie alle norme estetiche vomitate nel Concilio.

Credere che la Storia non riguardi noi stessi ... ecco, la caduta di questa sciocca illusione un po' mi riconforta, nel sarcasmo. Dopo aver letto, negli anni belli, di torture e intolleranza credendole il sogno universale di un tiranno immaginario ... oppure aver compulsato le biografie di certi letterati, sballottati fra inopia e dimenticanza, ritenendole estranee al mondo nuovo; e ora? Mon semblable, mon frère! Anch'io a morire, come l'ultimo dei fessi, con le tasche bucate! Ma son piccolezze, queste, da riderci su per ore! Ah, la vita!

6 commenti :

  1. "L’esorcismo consiste nella persistenza della Forma, non in altro"

    Prendiamo un leggiadro tema mozartiano e confrontiamolo con uno tormentato e tortuoso costruito su una serie dodecafonica; ai più il primo apparirà "bello", il secondo "brutto". eppure entrambi poggiano su una costruzione formale rigorosa ed al di là di considerazioni estetiche, li percepiamo come dotati di senso.
    Ora consideriamo un lavoro della trans avanguardia post moderna. Non ci apparirà né bello e né brutto ma praticamente privo di senso, in sintesi, non lo giudicheremo neppure musica. manca l'oggettività di una forma e, se c'è, è solo nella soggettività dell'autore.
    è un po' come il discorso delle dottrine gender, ognuno si sente in (o si arroga il) diritto di essere quello che, in quell'istante, ritiene di essere.
    Un esempio di dissoluzione in campo religioso: mia figlia di nove anni frequenta il catechismo e, alla richiesta di quale sia stato l'argomento trattato in una certa lezione, solitamente risponde "niente". Una volta insistetti un po' di più ed ottenni come risposta: "beh, abbiamo cantato una canzoncina (quale? boh...), poi ci hanno detto che i nostri nomi sono scritti in cielo."
    Bello, eh? duemila anni di cristianesimo liquidati con una canzoncina ed una nozioncina che, in quell'oretta di nulla, vagavano nell'ultra vuoto come mosche in una cattedrale deserta!

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    1. Anche la distruzione della Forma, almeno per poco, consente sprazzi di bellezza. Per questo alcune forme di arte moderna "reggono"; mentre gli epigoni di tale arte moderna puntano sui ghiribizzi, sul non sense: hanno smarrito la reale matrice che, invece, caratterizzava i primi eretici.
      Sulla scuola non mi pronuncio. Il disastro è epocale.

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    2. Per distruggere la Forma occorre conoscerla, per essere eretici occorre essere permeati dall'ortodossia.
      L'artista (musicista, pittore, poeta,...) che si è fatto le ossa sulle sudate carte di una certa tradizione si riconosce anche nei momenti di massima trasgressione, quello che è partito dalla trasgressione cosa mai potrà trasgredire?
      Non si può essere artisti senza essere prima artigiani e non si può cominciare dalla fine.
      Qualcosa di analogo è accaduto nella scuola; volendo abolire nozionismo e studio mnemonico non è rimasto che il vuoto.
      Acquisire virtute e conoscenza con questi sistemi è come voler catturare un virus con la rete per prendere le farfalle.

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  2. Noi pochi, noi felici pochi, noi fratelli in armi...

    Chi è che dice così? Mio cugino Westmoreland? No, mio caro cugino.
    Se destinati a morire, siamo già abbastanza numerosi. E se dobbiamo vivere, quanto più in pochi saremo, tanto più grande sarà la nostra parte di gloria. Per amor di Dio, ti prego, non volere un sol uomo di più.
    Io son tutt’altro che avido d’oro; e non m’importa di chi si nutre a mie spese, né me la prendo se c’è chi indossa i miei panni: nei miei desideri non trovano posto le cose esteriori. Ma se è un peccato aspirare alla gloria, io sono il peccatore più incorreggibile che ci sia al mondo.
    No, in fede mia, cugino, non volere un solo inglese di più.
    Proclama piuttosto a tutto l’esercito, che chi non ha abbastanza fegato per questa battaglia può pure andarsene: noi gli daremo un passaporto, e nella borsa gli metteremo anche i soldi del viaggio.
    Noi non vogliamo morire in compagnia di un uomo che teme di essere nostro compagno nella morte.
    Oggi è la festa di San Crispino e San Crispiano: chi sopravvive quest’oggi per tornare a casa sano e salvo, si leverà sulle punte solo a sentire nominare questo giorno, e fremerà al nome di San Crispiano.
    Chi vedrà questo giorno e arriverà alla vecchiaia, ogni anno, alla vigilia, festeggerà coi vicini, dicendo: “Domani è il giorno di San Crispino!”. Poi si rimboccherà la manica e mostrerà le sue cicatrici, e dirà: “Queste ferite le ho ricevute il giorno di San Crispino”.
    I vecchi, si sa, dimenticano; e lui dimenticherà tutto il resto, eppure ricorderà, con fierezza, le gesta di quel giorno.
    Saranno allora i nostri nomi che lui avrà sulle labbra, come persone di famiglia: Re Enrico, Bedford ed Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester, saranno evocati nei suoi brindisi.
    E questa storia ogni brav’uomo insegnerà a suo figlio; e il giorno di Crispino e Crispiano non passerà mai, da questo giorno sino alla fine del mondo, senza che in esso ci si ricordi di noi.
    Noi pochi, noi felici pochi, noi fratelli in armi.
    Poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello: e per quanto sarà di umili origini, in questo giorno si farà nobile la sua condizione. E i gentiluomini che ora, in Inghilterra, si trovano a letto, si danneranno l’anima per non esserci stati, e si sentiranno menomati, quando sentiranno parlare un uomo che combatté con noi il giorno di San Crispino!

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  3. Confermo, un gran bel pezzo. Riesci sempre ad esprimere in maniera esemplare ed originalissima le nostre stesse frustrazioni.

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Siate gentili ...