Il Poliscriba
Qui
non si fanno distinzioni razziali, qui si rispetta gentaglia come negri, ebrei,
italiani o messicani! Qui vige l'eguaglianza: non conta un cazzo nessuno!
Sergente Hartman
Sergente Hartman
Reiterare
questa “santa” parola, democrazia, è lo scopo precipuo dell’ovvio politico, è
il riempire quest’aria di veleni, questo vuoto/pieno normativo, questi codici
che non conosciamo, ma ai quali ci sottomettiamo, questa trappola di leggi che
imbalsama ciò che si sarebbe già decomposto da tempo: il vivere pacificamente,
il sopportarsi reciprocamente, il tollerarsi sfiorandosi per strada,
rispettando le giuste distanze, le linee gialle di cortesia, l’erba del vicino
che è sempre più verde, gli orari notturni, i contratti, le obbligazioni, le
opinioni, la mediocrità della quale non si fa più carico nessuno, o, chi se ne
fa carico, la spaccia per superiorità culturale, artistica, arricchendosi sulla
disperata incapacità individuale di non saper riconoscere i pregi atavici di
una vita semplice, appartata il giusto e anonima.
La
democrazia è il vivacchio costituzionale, uno strascicare i piedi da una stanza
all’altra del Grande Edificio Stato, che è stato, ma non sarà, perché si
consumerà nel privato dei privati, participio passato di privare.
La
democrazia è commedia, la rappresentazione nemmeno tanto sublime di un mondo
drammaticamente buffonesco; è una collisione/collusione di parti sceniche,
phoné, brusio, applausi che sottolineano risse tra potenti, quasi sempre
concertate.
Ma ce
la invidiano, questa recitazione - in Cina forse no, nel Maghreb ci stanno
ancora pensando?, nei paesi in via di sviluppo sarebbe meglio un ritorno al
terzo mondo che un’invasione livellante di stili di vita demonocratici -.
Molti popoli, solo perché affamati, sbavano per quest’agire di attori che si muovono in tondo sulla scena; interpreti che non sono se stessi, che si rappresentano posticipando il soggetto di cui non sono imbevuti; convinti di essere, di esserci, creduloni, fuori di sé comunque e sempre, mai in sé, resi inutili e trasparenti umanoidi dall’ontologia di se stessi e dalla ridda di prodotti che mostrano al loro buonismo e al resto dell’umanità, come suprema conquista del benessere.
La vogliono tutti, la democrazia, tutti quelli che la impongono a chi non sa che farsene; se ne discute in tutte le lingue del mondo, prima e dopo i conflitti armati, tra neo-rivoluzionari, tra proto-legislatori dell’eguaglianza formale tra viventi, vinti e vincenti, che coltivano commi per il bene comune, per omogeneizzare ciò che non deve più essere eterogeneo.
Cos’è la democrazia?
Una colla utopica, una risata di chi non sa, non può, o se sa, non ha nessuna intenzione di rispondere a una stupida provocazione populista.
Forse nella negazione potremmo coglierne il significato?
Solo se la democrazia non fosse un significante, un’espressione di potere che domina i suoi sostenitori/elettori convinti di non trovarsi in una dittatura.
La democrazia non è questo schifo che viviamo ...
Ma stiamo vivendo?
Cosa garantisce una democrazia che una dittatura non possa garantire?
Non lo so, caro Deleuze.
Tu sostieni che garantisce l’invivibilità della vita e ti sei risparmiato di raccontarci che permette la libertà seguita da una preposizione semplice e da un complemento oggetto a piacere.
Affermi che non risolve la vita.
Chi sceglie la democrazia, insisti, sceglie la libertà, sceglie il deserto... se la democrazia fosse mai libertà.
Al contrario asserisci che la democrazia non è niente, è mera demagogia... e qui mi trovi d’accordo, perché lo penso da tempo che sotto il thìpi indiano era un po’ più semplice, o lo era in virtù della mistura sacra fumata con il calumet della pace.
Ma qualora noi meritassimo una libertà, continui, dovrebbe essere affrancamento dal lavoro e non occupazione sul lavoro, anche se non si scappa mai... e questo sarebbe il tuo discorso sulla letteratura minore, su Kafka e su tutti i suoi anti-eroi, per metà bipedi e per metà insetti.
Non si scappa dalla catena di montaggio, non ci si libera mai.
Non si sfugge a/dalla macchina: il dimenarsi cede alla rassegnazione, all’immobilità che anticipa il successivo movimento lento, ritmico, automatico, rassicurante delle pecore guidate dal buon pastore.
La macchina che ha il suo ciclo, produttivo e distruttivo, dentro e fuori di noi.
Deleuze, tu ci strappi al sonno della nostra pseudo-vita simile a una drammatica ironia chapliniana, ricordandoci che, uscendo dalle otto ore di catena di montaggio, non si vive il tempo liberato; uscendo dalla catena di montaggio, l’infernale macchina ringhia, si fa ancora più minacciosa: nella strada che percorriamo, in auto, nel metrò, fino a casa, dentro casa, in famiglia, e aumenta ancora, e si fa sentite l’oppressione, il nulla della vita dentro di noi e negli occhi smarriti degli altri.
Il suo metallico clangore è sottofondo disarmonico della rivoluzione tecnologica, dell’amore, soprattutto quello umano; così intendi, caro Deleuze, e maggiormente, la catena di montaggio si estende nell’entusiasmo, nel selfie obbligatorio e nella fine stessa del lavoro produttivo (che in verità non finisce, ma viene trasferito in ghetti sempre più vasti e possibilmente invisibili alle sensibili anime democratiche, alla loro delicata vista, al loro olfatto), spezzata solo dalla possibilità, sempre a portata di mano, del suicidio personale ante quello collettivo.
Ecco perché la macchina-democrazia ci istupidisce, ci rende falsi, deboli, inutili, anemici, egoisti, diffidenti, superbi, arroganti, razzisti, schiavi, padroni, disoccupati, lavoratori, pensionati, non pensionabili e ci dissangua più della guerra.
La democrazia ci ha stancato, in fondo, ci annoia di un tedio mortale questo sequel che ha largamente saturato il cielo sempre più blu, la soglia dell’attenzione vigile, per insinuarsi ben al di sotto dell’astratto astruso inconscio collettivo pacificamente accettato.
Eccola sul palco, paludata come una butirrosa (s)fashon lady ricchissima, acefala, tirata a lifting. Single perfettamente integrata in ogni rappresentazione sociale arcobaleno.
Ospite fissa di Chiambretti che la presenta al suo parterre di animali diversi – ignoranti, dossografi officianti dell’opinione, che rivendicano la propria normalità - come la signora del freak, la regina del cattivo gusto, il trans-politico, la pornomaniaca goth, adoratrice snob delle urne elettorali, depositarie delle ceneri del consenso: “Buonasera, Democrazia... si dice che lei abbia miliardi di follower… può spiegarci come ha fatto?”.
Molti popoli, solo perché affamati, sbavano per quest’agire di attori che si muovono in tondo sulla scena; interpreti che non sono se stessi, che si rappresentano posticipando il soggetto di cui non sono imbevuti; convinti di essere, di esserci, creduloni, fuori di sé comunque e sempre, mai in sé, resi inutili e trasparenti umanoidi dall’ontologia di se stessi e dalla ridda di prodotti che mostrano al loro buonismo e al resto dell’umanità, come suprema conquista del benessere.
La vogliono tutti, la democrazia, tutti quelli che la impongono a chi non sa che farsene; se ne discute in tutte le lingue del mondo, prima e dopo i conflitti armati, tra neo-rivoluzionari, tra proto-legislatori dell’eguaglianza formale tra viventi, vinti e vincenti, che coltivano commi per il bene comune, per omogeneizzare ciò che non deve più essere eterogeneo.
Cos’è la democrazia?
Una colla utopica, una risata di chi non sa, non può, o se sa, non ha nessuna intenzione di rispondere a una stupida provocazione populista.
Forse nella negazione potremmo coglierne il significato?
Solo se la democrazia non fosse un significante, un’espressione di potere che domina i suoi sostenitori/elettori convinti di non trovarsi in una dittatura.
La democrazia non è questo schifo che viviamo ...
Ma stiamo vivendo?
Cosa garantisce una democrazia che una dittatura non possa garantire?
Non lo so, caro Deleuze.
Tu sostieni che garantisce l’invivibilità della vita e ti sei risparmiato di raccontarci che permette la libertà seguita da una preposizione semplice e da un complemento oggetto a piacere.
Affermi che non risolve la vita.
Chi sceglie la democrazia, insisti, sceglie la libertà, sceglie il deserto... se la democrazia fosse mai libertà.
Al contrario asserisci che la democrazia non è niente, è mera demagogia... e qui mi trovi d’accordo, perché lo penso da tempo che sotto il thìpi indiano era un po’ più semplice, o lo era in virtù della mistura sacra fumata con il calumet della pace.
Ma qualora noi meritassimo una libertà, continui, dovrebbe essere affrancamento dal lavoro e non occupazione sul lavoro, anche se non si scappa mai... e questo sarebbe il tuo discorso sulla letteratura minore, su Kafka e su tutti i suoi anti-eroi, per metà bipedi e per metà insetti.
Non si scappa dalla catena di montaggio, non ci si libera mai.
Non si sfugge a/dalla macchina: il dimenarsi cede alla rassegnazione, all’immobilità che anticipa il successivo movimento lento, ritmico, automatico, rassicurante delle pecore guidate dal buon pastore.
La macchina che ha il suo ciclo, produttivo e distruttivo, dentro e fuori di noi.
Deleuze, tu ci strappi al sonno della nostra pseudo-vita simile a una drammatica ironia chapliniana, ricordandoci che, uscendo dalle otto ore di catena di montaggio, non si vive il tempo liberato; uscendo dalla catena di montaggio, l’infernale macchina ringhia, si fa ancora più minacciosa: nella strada che percorriamo, in auto, nel metrò, fino a casa, dentro casa, in famiglia, e aumenta ancora, e si fa sentite l’oppressione, il nulla della vita dentro di noi e negli occhi smarriti degli altri.
Il suo metallico clangore è sottofondo disarmonico della rivoluzione tecnologica, dell’amore, soprattutto quello umano; così intendi, caro Deleuze, e maggiormente, la catena di montaggio si estende nell’entusiasmo, nel selfie obbligatorio e nella fine stessa del lavoro produttivo (che in verità non finisce, ma viene trasferito in ghetti sempre più vasti e possibilmente invisibili alle sensibili anime democratiche, alla loro delicata vista, al loro olfatto), spezzata solo dalla possibilità, sempre a portata di mano, del suicidio personale ante quello collettivo.
Ecco perché la macchina-democrazia ci istupidisce, ci rende falsi, deboli, inutili, anemici, egoisti, diffidenti, superbi, arroganti, razzisti, schiavi, padroni, disoccupati, lavoratori, pensionati, non pensionabili e ci dissangua più della guerra.
La democrazia ci ha stancato, in fondo, ci annoia di un tedio mortale questo sequel che ha largamente saturato il cielo sempre più blu, la soglia dell’attenzione vigile, per insinuarsi ben al di sotto dell’astratto astruso inconscio collettivo pacificamente accettato.
Eccola sul palco, paludata come una butirrosa (s)fashon lady ricchissima, acefala, tirata a lifting. Single perfettamente integrata in ogni rappresentazione sociale arcobaleno.
Ospite fissa di Chiambretti che la presenta al suo parterre di animali diversi – ignoranti, dossografi officianti dell’opinione, che rivendicano la propria normalità - come la signora del freak, la regina del cattivo gusto, il trans-politico, la pornomaniaca goth, adoratrice snob delle urne elettorali, depositarie delle ceneri del consenso: “Buonasera, Democrazia... si dice che lei abbia miliardi di follower… può spiegarci come ha fatto?”.
Democrazia significa che chi e' piu' feroce (lupo) e controlla: la moneta, i media, le universita', la magistratura, l'esercito, dirige la massa (le pecore) senza che queste se ne rendano conto. Se qualche leader carismatico e forte riesce a prendere il controllo di un popolo, indirizzandolo verso un fine "alto" o quantomeno "altro", allora la democrazia diventa fascismo. La democrazia e' la forma innocua ed impotente del fascismo. E' il maschio politico castrato. La storia, sia quella occulta e satanica che quella visibile, e' sempre stata mossa da uomini straordinari. La democrazia e' un "archetipo freudiano". Un feticcio da usare per "prendere il potere". E' la copertina di Linus per le pecore che lavorano per i lupi ed il travestimento dei lupi in pecore. Sto leggendo un libro straordinario. Julius Evola. Rivolta contro il mondo moderno.
RispondiEliminaAnonimo di nome R