22 maggio 2017

Siamo noi i brutti, gli sporchi e i cattivi


Pubblicato su Pauperclass il 27 agosto 2015

Mi ha molto colpito l’articolo di Eugenio Orso sul film di Ettore Scola, Brutti, sporchi e cattivi.
Innanzitutto parla di Roma, la città in cui vivo. Non una città, ma una regione dell’anima.
E parla, inoltre, proprio di quella parte di Roma dove abito da sempre: non molto lontano dai luoghi in cui la pellicola fu girata, presso Monte Ciocci.
E tali luoghi hanno una propria storia che, forse, nel mio intendimento, possono dare una risposta alla domanda dell’articolo di Eugenio Orso: chi sono, oggi, i sottoproletari di allora?
Monte Ciocci è una modesta altura che si eleva nei pressi della stazione della metro A di Roma, Valle Aurelia. Dopo il repulisti del campo baraccati esso rimase incolto e abbandonato per quasi tre decenni; è stato recentemente bonificato, dietro la pressione dei comitati cittadini, ed oggi ospita un bel parco, con una pista ciclabile che si snoda per diversi chilometri sino all’altra gloriosa collinetta romana chiamata Montemario.
A Monte Ciocci ci si arriva seguendo il nuovo tracciato, pulito e asfaltato, che gira attorno alle sue brevi pendici; il nostalgico può arrivarci, però, anche salendo una stretta scalinata in mattoncini, anch’essa restaurata: la stessa che si vede nel film.

Dalla sommità, circa ottanta metri, ogni suono arriva smorzato in un brusio indistinto e sommesso; vi si può scorgere, a ristoro delle fatiche dell’ascesa, un bel panorama della città, torpida e infinita, appena velato da una bruma. Sulla destra spicca nitidamente la cupola di San Pietro, distante poche centinaia di metri.
Da questa altezza si può gustare un po’ di storia. Con una sola occhiata, infatti, siamo in grado d’abbracciare ben quattro linee ferroviarie: una, dismessa negli anni Trenta, dalle ampie campate in muratura, ospita sui binari secolari alcuni senzatetto; un’altra, costruita in occasione dei Mondiali di calcio del 1990 (Stadio Olimpico-Vigna Clara), è completamente abbandonata (entrò in funzione per circa una settimana, giusto per scarrozzare qualche tifoso e far incassare copiosissime tangenti); e poi abbiamo la linea A della Metropolitana, come detto, nonché la fatiscente stazione del treno regionale Roma-Viterbo.
Se lo sguardo si volge verso Montemario, lasciando la cupola vaticana alle spalle, si potranno intravedere, in basso a sinistra, i residui d’un borgo ottocentesco: il borgo dei fornaciai di Valle Aurelia, oggi quasi del tutto demolito e in attesa di una risistemazione urbanistica.
La storia del borgo e dei suoi abitanti è stata raccontata in due post (affetti da velleità letterarie e nostalgie personali) che potete trovare qui:



Qui vi basti questo estratto:

Valle Aurelia. Non la borgata di recente costruzione, ovviamente, ma ciò che resta di una comunità popolare ottocentesca ancora attiva nei primi anni del dopoguerra.
Valle Aurelia nacque come agglomerato di operai delle fornaci. 
Attorno agli opifici di mattoni e laterizi, all'ombra delle ciminiere, i lavoratori delle ceramiche (braccianti che sfuggivano alla fame dalle regioni attorno alla capitale, ma vennero giù pure dal Nord), presero a tirar su, come animali stanziali, le proprie tane, i propri rifugi. Non si limitavano a dormire e lavorare. Sentivano, con quella vaghezza teorica che forma, spesso, nella realtà vissuta, le legioni più quadrate, che il destino dell'uomo era in una patria superiore. Erano socialisti, comunisti, e piantagrane assortiti. E se la grande patria era avvolta nelle nebbie dell'avvenire (custodita dalle menti dei compagni che ne sapevano di più), la piccola patria dei lavoratori era lì, a portata di mano. E infatti la costruirono proprio lì, pietra su pietra: mattoni, calce, malta, intonaco, non elementi estranei, ma gli stessi oggetti e lo stesso prezzo delle loro fatiche. Sorsero prima baracche, poi abitazioni vere e proprie, un vero borghetto di lavoratori. Valle Aurelia, già Valle dell'Inferno, secondo un'etimologia falsa, ma profondamente cara, che associa la terra del diavolo alle fiamme di quelle fornaci”.

La comunità dei fornaciai di Valle Aurelia-Valle dell’Inferno diede anche cinque martiri alla Resistenza. La targa che li ricorda è apposta nella vecchia Casa del Popolo, nel borgo.
La storia di uno dei martiri di Valle Aurelia,Vittorio Mallozzi (di cui parlò anche Pratolini), la potete leggere nei post. Vittorio Mallozzi e i fornaciai sarebbero piaciuti anche a Eugenio Orso: da quel mucchio selvaggio potevano pescarsi elementi davvero rivoluzionari, senza remore o ripensamenti, granitici o, per dirla con Nietzsche, “intagliati in un legno odoroso”.
Un’umanità oggi irreperibile. 
Il borghetto andò declinando nei decenni successivi alla guerra. Le fornaci chiusero. La comunità si disperse, come i sindacati e il grande Partito Comunista. La cittadella fu abbandonata. Gran parte dell’abitato venne spianato agli inizi degli anni Ottanta. A testimoniare quel tempo rimangono alcuni caseggiati, un paio di ciminiere, una fabbrica, e, soprattutto, la resilienza della toponomastica, davvero commovente nel proprio anacronismo: Via dei Laterizi, Via delle Ceramiche, Via degli Embrici, Via delle Campigiane.
L’Italia entrava definitivamente nel nuovo mondo mirabile del turbocapitalismo.
Dileguati i sogni dei fornaciari, rimanevano i baraccati di Scola. Un filo logico univa quelle due realtà: ed era proprio la progressiva scomparsa dell’impegno politico, dei partiti strutturati di sinistra e del sindacalismo autentico. Pochi sanno che lo stesso Ettore Scola scrisse, nel 1976, assieme a Bernardo Bertolucci ed Enzo Siciliano, un documentario in onore di Pier Paolo Pasolini, assassinato l’anno prima: Silenzio è complicità, diretto da Laura Betti.
Leggo dal libro di Ettore Masi su Ettore Scola:

“[Silenzio è complicità] … era una rivisitazione dei luoghi che avevano ispirato a Pasolini il romanzo Ragazzi di vita ... nelle borgate Scola non trovò nessuna pietà per la morte del poeta ... ma piuttosto pregiudizio, condanna dell'omosessualità, diffidenza, paure e atteggiamenti tipici della piccola borghesia, a conferma delle tesi pasoliniane riprese da Brutti sporchi e cattivi sul genocidio culturale del sottoproletariato, ormai appiattito sui valori della società del benessere”.
In altre parole: a Vittorio Mallozzi, che morì per l’idea d’un mondo altro, si sostituisce Giacinto Mazzarella, il baraccato già sussunto, di fatto, nell’ideologia capitalista. E aggiungo: non solo lui; il genocidio culturale, infatti, non era solo del sottoproletariato, ma dell’Italia tutta. E ciò fu detto chiaramente dallo stesso Pasolini: il professionista e il pezzente avevano, al fondo, gli stessi desideri e la medesima libidine di oggetti e comportamenti.
Se Ettore Scola avesse girato un seguito del proprio film, insomma, avremmo assistito alla lenta trasformazione dei discendenti di Manfredi-Mazzarella in piccolo borghesi, voraci consumatori di televisione e gadget tecnologici, attorniati da una mandria di nipoti e bisnipoti mazzarelliani, stupidi, sboccati, fitti di tatuaggi e piercing, e prossimi alla trasmutazione nel novello lumpenproletariat che seguirà la dissoluzione dell’Occidente turbocapitalista.
Perché una cosa è sicura: la Bengodi di carta iniziata negli anni Ottanta è finita. Gran parte dei Mazzarella di questi anni torneranno poveri. Con questa differenza: che, oggi, i nuovi poveri non custodiscono più la sapienza di arrangiarsi. L’ho già detto. Non sanno fare niente: coltivare la terra, rubare, spennare un pollo, fare a pugni, accendere un fuoco, caricare un’arma. Diventeranno un esercito di disperati ben peggiore di quelli del film. Alcuni  torneranno a prostituirsi, altri ingrosseranno la malavita: i più si lasceranno morire per le strade. 
In altre parole, se nulla cambia: i baraccati di Scola siamo noi fra trent’anni.
Certo, ci sono differenze, ma sono secondarie. Siamo più scolarizzati, ma tale acculturazione non è più sinonimo di cultura: un tredicenne che esce dalla terza media è spesso più ignorante d’un analfabeta d’antan; abbiamo alti sogni e aspirazioni, ma questi, senza soldi, spariranno ben presto onde far posto all’impellenza del quotidiano: la pagnotta; sembriamo più civili, ma anche ciò è una biacca culturale che si scioglierà ben presto. E senza soldi diventeremo più brutti (i poveri imbruttiscono velocemente e si accoppiano inevitabilmente fra loro), più sporchi, e sicuramente molto più cattivi: il che, forse, sarà un passo avanti per l’Italia poiché segnalerà una calda passione per l’esistenza, superiore all’odierna abulia politica e sociale.
Le avvisaglie della débâcle già ci sono, peraltro negli stessi luoghi in cui Brutti, sporchi e cattivi fu girato:

http://www.romafaschifo.com/2014/09/tornati-mille-volte-gli-accampamenti.html
http://www.romatoday.it/cronaca/bonifica-baracche-monte-ciocci.html
Anche le pendici del parco della Pineta Sacchetti, a ridosso proprio di Monte Ciocci, sono un fitto ricettacolo di baraccati e disperati. Centinaia di disgraziati. Fra di loro alcuni italiani, i primi.
Qualcuno potrà obiettare che questa mia visione è ridicolmente catastrofica: in fondo tutti noi viviamo in case sicure, calde, con tiepidi computer pronti a collegarci al mondo civilizzato.
Ma è lo stesso Eugenio Orso, nella sua analisi, a offrirci la semplice chiave del nostro futuro:

… il sotto-proletariato urbano di marxiana (e pasoliniana) memoria si è formato nel corso di lunghi decenni …”.

Lunghi decenni. Forse neanche troppo lunghi. La tomba dell’Euro, la folle tassazione, la corruzione dilagante a ogni livello, la mediovalizzazione dei servizi essenziali (dolosamente spinta in vista delle ‘inevitabili’ privatizzazioni di massa), già ora cominciano a disciogliere gli strati più deboli per tramutarli in materiale sociale di risulta buono per le baraccopoli del futuro.
Qualche decennio in più e saremo di nuovo Giacinto Mazzarella e Accattone; e Lenzetta, Piattoletta, il Riccetto.

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