07 agosto 2017

Le rovine


Roma, 7 agosto 2017

Centinaia di artisti e viaggiatori si son sempre interrogati sulla campagna romana.
Miglia e miglia di deserto brullo in cui campeggiano mozziconi di torri, fondamenta di ville rustiche, mura sbriciolate, casali dalle finestre mute, antiche chiesuole sbarrate, resti di tombe protocristiane . 
Un senso di mistero e inquietudine grava sui cuori dei viaggiatori.
Dove siamo qui?
Gioachino Belli così descriveva tale luogo insondabile:

"Fà ddiesci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com’un ojjo,
che ssi strilli nun c’è cchi tt’arisponna!
              
Dove te vorti una campaggna rasa
come sce sii passata la pianozza,
senza manco l’impronta d’una casa!"

Il silenzio è gonfio di fantasmi. 
Il disagio è generato dall'assenza.
La campagna romana è una misera pergamena sui cui s'intuisce una scrittura flebile: i versi di un capolavoro grandioso.
Tutto fu ordine qui: le strade si intersecavano con logica, le costruzioni erano pensate con perizia, le torri punteggiavano il territorio nei luoghi strategici.
Ritroviamo l'opera consunta di decine di generazioni che hanno operato con intelligenza, dedizione, genio, per accumulare il sapere che ha formato la tradizione.
Ecco perché qui la solitudine non è mai tale.
Non si passeggia in solitudine fra l'erba vitriola, il porrazzo o i cardi; il passato incombe: ogni dosso o curva o una collinetta anonima rappresentano le evanescenti linee del volto di una divinità. 
Nulla è innocente e tutto parla a chi sa intendere.

Mi mandano le foto (dedotte da un social media) di una vecchia conoscenza di scuola. Un cinquantenne italiano. Uno come tanti.
Lo si intuisce al mare. A parte il costume (nero) e un paio di ciabatte, è in completa libertà. L'aria stolida, insieme vacua e soddisfatta; l'arroganza di chi crede di sapere; le trippe debordanti. L'orango ride verso l'obiettivo. 
Da una foto ch'egli allega deduciamo che si sta preparando una braciolata. In quella successiva, infatti, sta di profilo, come un cercopiteco famelico, il muso in alto, avido, pronto all'ingurgitazione di una salsiccia che fa pendere con voluttà dalla zampa sinistra.
Nell'immagine seguente ha la bocca piena e soddisfatta; mostra il dito medio: come a dire: guardate come me la godo.
Le ultime due diapositive dall'inferno significano rispettivamente, al potenziale spettatore, il piatto vuoto, lordato da qualche salsa innominabile, e il nostro eroe stravaccato su un materassino: di fianco, a smaltire il bagordo squallido, satollo pitone del nulla, le gambe piegate leggermente sotto il petto, l'adipe che cola immondo verso il basso subendo anch'esso, come ogni grave, il richiamo della forza gravitazionale.
Mi chiedo: questa è una rovina, indubbiamente, ma di cosa?
Quale deità ha potuto annientare del tutto ogni barlume di intelligenza? Quale demonio è riuscito a trasformare questa umanità in un triviale ammasso di inutili detriti? Come è possibile che un popolo come quello italiano, con una tradizione millenaria, sia stato spazzato via in pochi decenni tanto che, ora, non ne rimane nulla?
Abbattete un tempio, una biblioteca, una chiesa: le sue vestigia, pur labili, continueranno a irradiare bellezza e logica. 
Ma questa umanità cos'è?
Questi non sono i ruderi morali e psicologici di un passato recente, ma la testimonianza nuovissima di una civiltà ormai impossibile.
Come si può recuperare un barlume di decenza e saviezza da tali corpi e menti sfigurati, resi nulli dalla crapula, dall'insignificanza dei gesti quotidiani e prossimi a una de-evoluzione senza speranza? Come parlare a tali oranghi buoni per il tam tam, tutto stomaco e idiozia?
Questi non sono più nemmeno italiani, sono sacche rancide di materiali purulenti.
Che vuoi fare, cosa vuoi recuperare, aizzare, convincere?

01 agosto 2017

Il sangue delle bestie


Roma, 1 agosto 2017

Si legge nel De esu carnium (Del mangiare carne) di Plutarco:

Plut I: "Io mi domando con stupore in quale circostanza  e con quale disposizione spirituale l'uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano. Come poté la vista tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì l'olfatto a sopportarne il fetore? Come mai quella lordura non stornò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali?".

E quindi, poco più avanti:

Plut II: "Tuttavia, sebbene sia ormai impossibile mantenerci immuni dall'errore per la consuetudine che ci lega a esso, provando vergogna agiremo male secondo ragione. Mangeremo sì la carne, ma spinti dalla fame e non per ingordigia. Uccideremo sì un animale, ma provando per esso pietà e dolore, non usando la violenza né torturandolo".

Abbiamo qui un bell'esempio di come si esercitasse la ragione e il discorso nel vecchio ordine morale.
Nulla di troppo.
Ecco, in Plut I, il filosofo di Cheronea, erede di Empedocle e Pitagora, descrivere con orrore l'uomo che mangia carne macchiandosi di un peccato contro la natura e la vita. Il tono è alto, di quella forza assieme trattenuta e intensa che caratterizza i trattati etici dell'età classica. Solenne e perentorio, eppur sorvegliato: l'eccesso e la foga, pur se fanno il gioco di ciò in cui si crede, sono peccati anch'essi.
In PL2 lo scrittore offre apparentemente una scappatoia alle sue ferme convinzioni: l'uomo è debole, infatti, e per ciò stesso gli è difficile liberarsi dall'errore (mangiare carne impura); se cadrà in tale colpa dovrà farlo con vergogna, senza arrecare ulteriore dolore, e solo per soddisfare l'impulso della fame e non quello dell'ingordigia.
In entrambi i passi c'è tutta la razionalità e la compostezza logica del mondo classico e cristiano come l'abbiamo conosciuto sin in epoche recenti.
Poi vi fu la deformazione.
Entrambi i corni del discorso appena accennato, e che non significano semplici trincee concettuali, bensì poli dell'animo e regioni della sensibilità, subirono una dolosa forzatura, sin al grottesco.
L’astensione dalle carni sconfinò nei capricci del politicamente corretto ed ebbe a degenerare nel veganesimo a oltranza, nell’antispecismo e nel feticismo animalista; la colpa del mangiar carne si corruppe in senso opposto: caduta la vergogna (anche per la lontananza fra carnefice e vittima), residuò la gozzoviglia da supermercato, il junk food, la foia da ingurgitazione e la proliferazione chic dei programmi culinari.
Entrambi, il politicamente corretto e la crapula consumista Cracco/McDonald's, sono i nuovi corni degenerati del dilemma; o meglio, le due nuove facce malsane di un unica putrefazione: quella del capitalismo senza più lacci morali (e vergogne) che genera sia mostri capaci di ingoiare l'universo, sorta di lamprede esistenziali, sia i loro apparenti oppositori (emunti vegani, cenobiti del cavolfiore, feticisti del guinzaglio).
Se il PolCor è il braccio ideologico del capitalismo terminale, l'eccesso ne è la concrezione economica. Ambedue i fanatismi, per quanto contradditori sembrino a un primo esame, rampollano da tale unica pozza malarica. Fuor di metafora: tra le proliferanti legioni di obesi che si ingozzano di hamburger puzzolenti pur di soddisfare la coazione a ripetere d'una ingordigia malsana e fine a sé stessa, e il loro contraltare (i nuovi stiliti dei germogli di soia o gli antispecisti isterici, per cui un agnellino è pari a un neonato umano) non vi è che un saltello.
Entrambe le posizioni sono, come detto, degenerazioni dell'antico sentire, estremizzazioni, devastazioni della logica e di ciò che potremmo definire “sorgiva ragionevolezza”.
Un vegano radicale e un sacco di lardo americano sono affratellati nella parodia che scaturisce dal "troppo": ambedue sono gl’inconsapevoli araldi di una visione postmoderna nettamente antiumana, e in loro instillata.
Ci sono voluti millenni di metafisica per ammazzare Dio; poche centinaia d'anni per sfregiare l'uomo di Vitruvio leonardesco e liquidare la prudenza e la nobiltà dell'etica classica e cristiana.
Siamo divenuti talmente frettolosi, nella nostra ansia di depotenziare l'uomo, e di criminalizzare il suo passato, che non ci accorgiamo di venerare un altare vuoto: il nulla e la dissoluzione.

Qualche tempo fa vidi un cortometraggio di George Franju, Le sang des bêtes (Il sangue delle bestie, 1949). In esso il grande regista francese documenta una sua visita ai mattatoi di Parigi.
La compassione verso gli animali qui si effonde in un più vasto sentimento di pietà che deriva dalla nostra comune appartenenza all'ordine naturale; l'uomo e l'animale convivono sotto lo stesso cielo e sono parte di una creazione inscindibile: nel film ecco perciò apparire i simboli del miracolo della vita: un albero, le rondini che, libere, inseguono le segrete vie dei cieli, alcuni bambini che inscenano un girotondo, due innamorati che si baciano. È la vita che avanza, inarrestabile e caduca, con le sue repentine esplosioni di terrore e felicità. Un placido bue, un ariete o un cavallo - tutti partecipano a tale immane flusso: ed è quindi un'ingiustizia privarli sia pure di un micolo di tale gioia: Eppure occorre essere realisti; l'uomo è ciò che è, imperfetto; la sua vicenda terrena, breve e intensa, non può che errare: egli può uccidere e recare la morte: sarà la ragione a gettare la luce della verità su tali atti e imporre la vergogna e l'espiazione.
Sì, gli animali sono esseri senzienti e che patiscono. La loro morte, però, non è presa alla leggera dagli uomini che sanno. Il dolore degli innocenti avrà il risarcimento del nostro stesso dolore: dolci nell'aria, ecco i rintocchi lenti di una campana: uno due sei otto dodici: un compianto funebre che si dilata lento nel cielo parigino. Al bisogno umano di sopprimere i viventi corrisponde il lutto: "agire male secondo ragione", ma comprendere, perdonare, lenire gli eccessi della parola e dei gesti.
Franju e Plutarco si abbeverano allo stesso filo di pietà.
Sono europei dell'antico ordine: in loro mi riconosco.

24 luglio 2017

Mortacci


Roma, 24 luglio 2017

Appena fuori Roma, sull'antica consolare Flaminia, a pochi passi dal campo di battaglia che vide trionfare Costantino contro Massenzio, si apre la città dei morti.
Il cimitero di Prima Porta.
Il più grande camposanto del Lazio e, forse, dell'Italia centrale.
In questa vasta città deserta si può scorrazzare per ore.
Campi a terra che si stendono per chilometri, lunghe infilate di fornetti a cinque o sei livelli, cappelle gentilizie, tozzi edifici multipiani, labirintici, gravati da decine di migliaia di loculi, ognuno diviso cartesianamente in settori e sottosezioni uniti fra loro da scalinate interne, montacarichi, scale a chiocciola.
D'estate, all’ora di pranzo, durante la canicola che sancisce il riposo da sombrero parastatale, il silenzio è altissimo. Solo un frinire incessante di cicale rompe la quiete, ma presto anche tale rumore si derubrica a sfondo sonoro, inavvertito. 
Il cielo è di un azzurro compatto, implacabile.
Alcuni viali sono bordati da pini altissimi e ombrosi, altri sembrano perdersi nella campagna romana, verso la Tiberina; i ruderi di una villa romana interrompono il soliloquio della distesa funebre; stradine secondarie ritagliano larghi prati fitti di croci stitiche, due stanghe di metallo: i funerali di chi è morto povero o, forse, di chi è stato inumato da poco.
I nati morti o i neonati sono sepolti a parte. Un po' di terra anonima li ricopre; a volte i genitori abbelliscono il minuscolo tumulo con una piccola siepe, o con giocattoli, bambole che non saranno mai cullate, o palloni che non saranno mai calciati. Le girelle coloratissime frullano senza posa, agitate da un alito appena di vento; le silenziose stelle filanti, gialle verdi rosso fuoco, si alzano e si abbassano al ritmo della brezza quasi lasciando presagire l'inconsistenza della natura umana.

19 luglio 2017

Il plebeo Bossetti


Roma, 19 luglio 2017

Massimo Bossetti è stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, ma è innocente.
Massimo Bossetti non fa parte di nessuna clientela, gruppo, associazione, massoneria. Nell'Italia del 2017 è, quindi, pura carne da cannone, sacrificabile.
Nell'Italia del 2017, che è una galera a cielo aperto, come scrissi in Prigione Italia, occorre appartenere a qualche consorteria altrimenti si è spacciati: il medesimo destino che tocca ai detenuti di una vera galera. Consorterie, a scelta: statali, banche, camorra, partiti, mafia, confindustriali, ring pedofili, giornalisti, lobby sioniste, ONG, servizi natoamericani, pretame, sindacati, militari, vacche sacre del politicamente corretto.
Se si è davvero scaltri o abili è possibile rientrare in più di un gruppo di tale patriziato dominante: questo spiega le porte girevoli fra partiti e magistratura, tra banche e mafia e vertici globalisti, fra pretame e pedofili, fra camorra e ONG.

16 luglio 2017

L'italiano: piccolo, sempre più piccolo. Microscopico


Roma, 16 luglio 2017

L'ho sempre detto: si getti a mare l'accademia e si torni alla fenomenologia più acuta. Basta panegirici: osserviamo la dura realtà. E la realtà è questa: l'italiano sta scomparendo. Non solo l'italiano che intratteneva con la propria lingua e il proprio passato un rapporto fecondo; l'italiano acculturato, in grado di compitare con sicurezza Petrarca, Leopardi e Machiavelli; che aveva ben chiare le geografie e i luoghi dell'anima (torri, casali, mura, canali, monasteri). No. A decadere è pure la figura fisica dell'italiano. Non sembra quasi più tale. Non vanta più distinzione. La forma del suo vivere è sciatta. Si veste male, casual, ciabattone, menefreghista; è loffio nei movimenti, calvo, oppure, al contrario, ostenta proliferazioni pilifere da turcomanno o un'artificiale complessione da palestra; tatuato come un maori, con movimenti da orango, maleducato, stupido come zucca lessa. Maschi e femmine tendono ad assomigliarsi nei modi: ciò che li differenzia è il diportamento da gradasso nel maschio (a simulare una virilità inesistente) e la sfacciataggine nella femmina, declinata o nei modi della donna-manager, padrona di sé stessa, indipendente e altera, o nelle smorfiosaggini da zoccola.

12 luglio 2017

Allegri ragazzi, tutto il mondo ci deride


Roma, 12 luglio 2017

Gli Italiani vogliono false speranze, le bramano, vivono per esse.
Da ogni parte.
La falsa speranza induce l'individuo a tirare avanti per un po', senza scadere nella disperazione che, latente, lo attanaglia giorno dopo giorno: una sorta di costante depressione che prepara a concretarsi come nuovo abito del cittadino futuro.
Latente, seppur non manifesta violentemente. A quiet desperation.
A destra sinistra al centro nei gruppi d'opinione nei gruppuscoli.
La falsa speranza è molto allettante.
In primo luogo allontana definitivamente l'azione salvaguardando l'individuo da ogni assunzione di responsabilità.
E permette, poi, di azzuffarsi dolcemente al ritmo di "l'avevo detto che ..." e "come scrissi in un post di due anni fa ...".
Queste false speranze riposano sul nulla sottovuoto. Come se un sistema gigantesco, perfettamente oliato, con capitali infiniti a disposizione possa autodistruggersi per far contento qualche coglione della controinformazione.
Se non contrastato dagli uomini, il potere si trasforma, non muore. Sta sottilmente mutando anche ora, sotto i nostri occhi. Verrà sacrificata qualche testa, alcuni popoli, si insceneranno nuovi conflitti (etnici, religiosi, economici) e tutto procederà a gonfie vele.
D'altra parte sono gli Italiani stessi a reclamare questi andirivieni.
La risalita alla considerazione generale di Prodi e Berlusconi è lì a confermarcelo.
Invece di penzolare da qualche quercia se ne vengono, alle soglie del 2018, sotto ai microfoni a fare i padri nobili.

10 luglio 2017

Piccola fenomenologia del fascismo a venire


Pubblicato il 13 ottobre 2013

Scrissi le sciocchezzuole qui sotto riportate nell'ottobre 2013.
Siamo nel 2017: ci siamo quasi. Di fronte al fascismo finanziario e al fascismo PolCor, il fascismo classico diviene un'alternativa credibile e, soprattutto, desiderabile.
Che dire?
Meglio Caradonna di Draghi, meglio Francisco Franco di Saviano e Repubblica.

* * * * *


Nello straordinario film di Billy Wilder, Vita privata di Sherlock Holmes, il dottor Watson, chirurgo militare in congedo dalla seconda guerra anglo-afgana (la storia si ripete), così celebra il proprio amico: "Era l’agosto del 1887 ed eravamo di ritorno dallo Yorkshire dove Holmes aveva risolto il controverso caso dell’ammiraglio Abernethy. Ricorderete che egli aveva infranto l’alibi dell’assassino calcolando di quanto era affondato un gambo di sedano in un panetto di burro, in una giornata particolarmente calda …".

Ovvio, Holmes era inglese e per gli inglesi (e gli imbecilli di talento) il particolare vale più dei concetti.
Sono d'accordo, limitatamente alle scienze in generale (la letteratura è altro).
E col tempo ho anch’io sviluppato uno spirito d'osservazione per le minuzie, una sorta di microfenomenologia che porto spesso a conferma di eventi di ben più ampia portata. Tra i sorrisi degli astanti, parecchie volte.
Questa volta ho deciso di condividere con voi questa ricognizione del quotidiano.
Elencherò tre fatterelli che mi hanno colpito assai. Non per la singola pregnanza, ma per il fatto che si sono succeduti in un breve lasso di tempo (quattro giorni) ad opera di tre lavoratori di uno specifico ambito, quello del trasporto pubblico.

02 luglio 2017

Lasciate che i bambini vengano a noi


Roma, 2 luglio 2017

Migranti visigoti. Leggo da un libro di storia delle medie, a caratteri cubitali: “LE MIGRAZIONI BARBARICHE”. E sotto: “Fra il IV e il V secolo numerose popolazioni barbariche varcano, a ondate successive, i confini dell’impero romano. Persino Roma, l’antica capitale, viene attaccata e saccheggiata due volte. L’impero d’occidente, più debole ed esposto di quello d’oriente, si avvia verso il declino”.
Faccio notare, oltre al vezzeggiativo ‘migrazioni barbariche’ in luogo del vetusto ‘invasioni barbariche’, l’uso del minuscolo per le parole ‘impero’, ‘occidente’, ‘oriente’. Ma il bello arriva ora. In verde, poco sotto: “L’idea chiave”. Ancor più sotto, in neretto: “Integrazione”. E quindi il testo: “Fra i regni nati dalla divisione dell’impero d’occidente, durano di più quelli in cui Romani e barbari si integrano fondendo le rispettive culture e vivendo pacificamente. Un esempio positivo è il regno dei Franchi”. A latere la rubrichetta “Ciak, si impara”: probabilmente i pargoli dovranno connettersi a internet e assistere a un videospettacolino PolCor: il testo, poco sotto, recita infatti: “Le migrazioni, ovvero gli spostamenti di popoli, sono un fenomeno antichissimo …”. Siamo in piena zona Boldrini.
Par di capire, insomma, che Alani, Visigoti, Alemanni, Pitti, Sassoni, Burgundi non fossero che Risorse (in maiuscolo) dell’impero (in minuscolo) invitate a una bella cooperazione culturale (un immane déjeuner) foriera di altissimi Esiti Culturali, Artistici, Urbanistici e Umani (in maiuscolo), e che la fine della latinità (in minuscolo) rilevi quale inevitabile e auspicabile evento lungo le Strade del Progresso e della Libertà della Storia (in maiuscolo, stavolta). Che l’occidente (in minuscolo) abbia cominciato a riallacciare lentamente le proprie fila culturali solo sei secoli più tardi (grazie ai testi greci e latini ritradotti dall’arabo) è una cosa che non tange gli estensori del sussidiarietto MinCulPolCor.
Vengo a sapere, peraltro (poiché sono ignorante come una zucca) che il concetto “migrazioni barbariche” riscuote già da anni un certo successo, tanto che i crucchi, sempre loro, hanno già coniato un bel termine: Völkerwanderung, ovvero “migrazioni di popoli”. Noi, certo, ancora applichiamo l’odioso sostantivo “barbari”, ma date tempo al tempo … Anche quel testo “Roma … viene attaccata e saccheggiata due volte” lo trovo sovraccarico di acrimonia, ma, anche qui, lasciamo scorrere lento il miele sotto i ponti dell’ecumenismo e della filantropia … Per l’intanto propongo, dal basso della mia modestia, un più conciliante: “Le carestie e la crescente sovrappopolazione dell’Europa del Nord e dell’Est crearono, in modo perfettamente naturale, il fenomeno dei migranti visigoti e longobardi che si riversarono pacificamente (spinti dai migranti Unni) per le strade dell’impero apportando la ricchezza della varietà culturale ai brutale retaggio imperiale romano e fondendosi irresistibilmente in una miscela di più larga e comprensiva umanità”.

De Maistre?Dateceli dai cinque ai dieci anni: saranno nostri per sempre”.

Evgenij Zamjatin, Noi


01 luglio 2017

Idioti in marcia (la merde)


Pubblicato il 7 maggio 2017

Raspail. Sulle recenti elezioni presidenziali francesi non si può che citare, a spanne, Jean Raspail: "I Francesi di fegato? Gli ultimi sono morti in Algeria". L’eventuale vittoria della Le Pen, pur benvenuta, è solo un sassetto in una macina da mulino.

Barbie. C'è poco da dire o fare. Il primo turno l'ha vinto la Barbie del potere, l'asessuato Macron. Anch'egli un vizioso, ne sono certo. Il potere seleziona con cura i suoi pupazzi: li vuole fotogenici e ricattabili. E loro si prestano, ovviamente, sempre meglio che lavorare. Il numero di pervertiti in politica è ormai una solida maggioranza. 
Sorprende, a riguardare le statuine politiche al soldo delle oligarchie, l'insulsaggine di tali figure. Personaggi che sembravano imprescindibili, buoni a riempire le prime pagine per anni, lontani dai riflettori sembrano inghiottiti dal nulla, come certe meteore pop che vissero brevi attimi di gloria e oggi svernano come casalinghe o prostituti o drogati cronici. Blair, Schroeder, Bush, lo Smutandato Clinton, Sarkozy, Zapatero. Che fine ha fatto Zapatero, l'uomo eletto col Partito Operaista Spagnolo, alfiere dei diritti dei gay e delle scimmie antropomorfe, e nuovo araldo della nuova sinistra?

Inutile sperare nella democrazia degli idioti, inutile sperare che le elezioni cambino il corso degli eventi.