13 maggio 2017

Gli Italiani e la finta di Garrincha


Pubblicato il 5 maggio 2015

Alle centinaia (migliaia, decine di migliaia) di analisi, a volte acute, talvolta profonde, che possiamo leggere sull'attuale crisi politica, economica e morale dell'Italia, manca sempre la coda: che fare?
Lo dissi anche a Eugenio Orso, in un commento a un suo post, perso nella notte dei tempi: dopo tutta la nostra sapienza, la nostra acribia, il sarcasmo, la rabbia ... che fare? Allora, piuttosto ingenuamente, citavo l'omonimo romanzo antizarista di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij: Che fare?
Ora la situazione è molto più chiara di qualche anno fa, ma la risposta rimane sostanzialmente inevasa.

Manoel Francisco dos Santos, in arte Garrincha, la più grande ala destra della storia. Basso, storto, con una gamba più corta dell'altra, tabagista e alcolista sin dall'età scolare, puttaniere, ingestibile, autodistruttivo.
Eppure vinse due Mondiali, nel 1958 (decisivi in finale i suoi assist), e nel 1962, stavolta da dominatore assoluto.
Il suo dribbling era semplice, ma irresistibile: puntava il terzino, si fermava, fingeva la penetrazione al centro e, invece, scattava bruciante sulla destra. Una due tre volte. Garrincha poteva dribblare, tornare indietro, e ridribblare il malcapitato, se gli andava, perché no. Lo fece pure in una amichevole con la Fiorentina: dribbling su Robotti, dribbling sul portiere: porta vuota. Tira? Macché, aspetta ancora Robotti, lo rimette col culo a terra, poi segna sghignazzando.
Il segreto del dribbling era vellicare l'istinto dell'avversario. Il difensore sapeva che Garrincha avrebbe fatto ciò che avrebbe fatto, ma il suo corpo, e i muscoli, in quelle frazioni infinitesime di secondo, obbedivano a impulsi ciechi, sedimentati nella massa del paleoncefalo, e sdegnavano la ragione, e tutti i buoni consigli che la ragione si porta appresso.
E l'istinto lo portava a sbagliare, catastroficamente.
L'istinto ha un doppio taglio.

La generazione dell'impotenza



Pubblicato su Pauperclass il 21 aprile 2015

É male ignorare la storia del proprio clan. Ma ci sono circostanze in cui anche una conoscenza approfondita diventa un ostacolo. Una persona dovrebbe usare discrezione. Un sapere eccessivo può essere un impedimento anche nella vita quotidiana. Si mediti su questo principio senza dimenticarlo mai.

Yamamoto Tsunetomo, Hagakure, II, 95

Studiare non ci ha resi migliori.
Anzi, ha trasformato l'anima degli italiani più giovani in una pozza gretta, superba, narcisa.
E quindi impotente.
Impotente a qualsiasi azione.
La verità è che non sappiamo più fare niente. Sappiamo solo chiacchierare, ciarlare, dare sulla voce a qualsiasi altra voce che non sia la nostra; oppure ergerci a professori del nulla, pontificare, riandare colla mente alla nostra miserabile tesi di laurea, alle nostre minuscole convinzioni; oppure rinchiuderci in una conventicola, di gente a noi affine, in cui ognuno passa il tempo, oziosamente, a darsi a vicenda pacche digitali sulle spalle: sono d'accordo, bravo, è così, quei coglioni non capiranno mai, solo noi ci capiamo etc etc; oppure ritirarsi sull'Aventino del nulla, la torre d'avorio in cui crogiolarsi nella rassegnazione - rassegnazione che non è altro che somma alterigia: non mi date ragione? E io mi tolgo dalla lotta! Come se a qualcuno fregasse qualcosa ...

Studiare ... studiare: elementari medie d'un soffio; poi, come in una bella ricreazione estiva, le superiori; quindi i brevi inciampi degli esami di laurea ... davvero piccoli: ormai la corona d'alloro se la mettono tutti: un popolo di dottori, dottorati, specializzati, masterizzati.
Diciamolo chiaramente: in due generazioni la pace ha prodotto un'umanità acculturata, profumata, corretta, interconnessa - antropologicamente diversa dai propri antenati di appena quarant'anni fa.
Impotente, però.

Storia di due barbieri


Pubblicato su Pauperclass il 14 aprile 2015

Il mio barbiere di fiducia chiude i battenti.
Un vecchio immigrato siciliano a Roma, fine anni Sessanta.
Negli ultimi anni s’era un po' intristito.
Ogni volta che entravo nella bottega (dieci-quindici metri quadri) vedevo sul tavolinetto plichi rigonfi e candidi, con caratteri regolari stampigliati sopra. Giacevano lì, uno sopra l'altro, squarciati con modesta regolarità. Non c'era bisogno di leggervi intestazioni o contenuti; già sapevo di cosa si trattava. Anche a distanza quelle missive trasudano la copiosa e burocratica ferocia nichilista propria degli apparati statali o parastatali quando si rapportano all'utente o al cittadino, il loro servo della gleba.
Quasi parallelamente i nostri brevi dialoghi avevano mutato indirizzo e tono; dal calcio e dai pettegolezzi s'erano spostati prime a vaghe considerazioni politiche (genere: va tutto a rotoli), quindi a tematiche da commercialisti.
Ogni bimestre aveva la sua pena. Rimborsi, Inps, Irpef, AMA, intimazioni di chiarimenti, richieste di dichiarazioni. Ogni tanto, nella concitazione, fermava pettine e forbici per inseguire un pensiero, poi ricominciava, quindi, preso da un'ispirazione incontrollabile, abbandonava i ferri per prendere i faldoni burocratici e squadernarmeli davanti. Come a dire :”Non ci credi? Ecco qua!” e aggiungere, di soppiatto: “Vedi un po' cosa si può fare!”.
E io leggevo, ma, mi tocca ammetterlo, non capivo nulla. E non è un modo di dire: non capivo assolutamente nulla di quel gliuommero di citazioni e rimandi da leguleio psicopatico. Nonostante mi picchi di vantare un'intelligenza dei testi superiore alla media, a fronte a quell'intrico di “ex art” o “in seguito all'avvenuta approvazione …” mi sentivo sfiorare, per usare un'espressione di Baudelaire, dall'ala dell'imbecillità.
Di fronte a quel siciliano antico gettare la spugna era però difficile senza gettar via anche un po' d'onore. Quindi, spesso, tergiversavo, cambiavo discorso, o rimandavo al giudizio degli organismi competenti - quegli organismi, insomma, che, essendo competenti, avrebbero tagliato il nodo di Gordio dell'incomprensibilità.
E mentre mettevo in atto questa tattica dilatoria (facevo ammuina, insomma) mi veniva in mente un periodo della mia vita in cui avevo persino cercato di capire. Le procedure Equitalia, ad esempio; mi ero persino provveduto di un bel volume delle edizioni Simone: ero insomma deciso a fare chiarezza in quell’intrico di norme prassi e iter della burocrazia italiota; un tempo felice, in fondo: corrispondeva a un certo ingenuo illuminismo del mio animo teso ancora a credere in una buonafede delle istituzioni - buonafede macchiata (peccato!) solo dal consueto gergo fantozzian-impiegatizio … solo col tempo capii che l'essenza di quei mandala esattoriali risiedeva nella totale incomprensibilità ... ovviamente dolosa ... e passai dall'illuminismo a una sorta di odio permanente verso ogni formalismo ... (a puro titolo di cronaca: il volume della De Simone lo mollai a pagina 60).
Ma ritorniamo al nostro barbiere.

12 maggio 2017

L'ISIS, Mussolini e l'Italia profonda


Pubblicato su Pauperclass il 30 marzo 2015

Siamo nella provincia profonda, profondissima.
Mi fermo a parlare un po' con mio cugino, uno che conosco da quando è nato e con cui, in tempi felici, intrattenevo gare a chi pisciava più lontano. Ha sempre lavorato, da quando aveva quattordici, quindici anni. "Se viene l'Isis mi arruolo con tutte le scarpe. Subito". "Mmmm ... va bene ... ma così a tua moglie le tocca mettere il velo" gli dico. "E allora? Tanto i preti il lavoro loro non lo fanno più, meglio quello, no?". "Eh, se l'Isis esiste sul serio un pensiero ce lo faccio anch'io. Ci pigliano insieme" scherzo. Ma lui non scherza mica: "Almeno si crede a qualcosa. O no? Almeno credono a qualcosa. Ma questo ..."; e prende tempo agitando le mani, " ... questo ...", come a dire: questo spappolamento generale, quest'oggi, questo schifo di situazione, "questo che è? Che rappresenta? Questo che è?".

Ho visto morire un poveraccio


Pubblicato su Pauperclass il 10 marzo 2015

Una strada del quartiere. Sono abbastanza vecchio da ricordare i prati che c'erano qui.
Poi, in due anni, una serie di palazzine si mangiarono tutto; edilizia anni Settanta: né brutte né belle. O meglio: appena fatte, rispetto alle nostre, dall'intonaco scialbato, sembravano residenze di pregio. Viste adesso mostrano tutta la meschinità di chi le progettò: segnate dallo scolo delle piogge, senza vita, anonime; d'uno squallore che non riesce a farsi malinconia.
La via che scorre fra di esse è quella di sempre. Solo, m'appare più piccola. Allora era uno stradone di campagna, poco frequentato. Ora è un mezzo budello, con l'asfalto sbrecciato in più punti, i due sensi resi faticosi da una doppia fila ininterrotta di macchine in sosta.
La percorrevo qualche tempo fa, con la mente in automatico, come spesso accade con certi atti della vita quotidiana che siamo costretti a eseguire.
Improvvisamente un automobile davanti a me, d'una qualche decina di metri, cominciò a sbandare: dopo un breve zig zag tamponò un'altro auto in sosta, alla sua destra, e infine si ribaltò, al centro della strada.
Nessun altro fu coinvolto nell'incidente.
Successe tutto in pochissimi attimi, quasi irreali.
Il guidatore riuscì a cavarsi fuori dall'abitacolo, da solo. Un tipo comune, sui sessanta, sessantacinque, un po' male in arnese. Si teneva una spalla. Lo sguardo era allucinato. Qualcuno si fece da presso per accertare le sue condizioni. Lui rispondeva meccanico: "Sì, sì ...", come a dire: "Sto bene", senza nemmeno guardarci. Poi: "Aiutatemi a rimetterla su ...". Alle rimostranze che no, si dovevano chiamare i vigili e, forse, un'ambulanza, sembrò scuotersi: "No, no ... dai .. rimettiamola su ..."; e ancora: "Rimettiamola su", con un tono fra implorante e stizzito; e si mise a spingere, con un solo braccio, la sua automobile, capovolta come uno scarafaggio morto, che si mise a dondolare inutilmente.
Faceva scuro. Ci si limitava ad aspettare l'arrivo della municipale.
Il tizio diede altri due scrolloni, uno più deciso dell'altro, ma non ottenne risultati. Si girò, pallidissimo, e disse qualcosa a mezza bocca che non si capì; poi, come affaticato da quella sconfitta, col cielo che gli pesava addosso, si diresse verso il marciapiedi: si chinò, appoggiandovi la mano buona, come a sostenere il corpo nell'atto di sedersi; la mano, tuttavia, scivolò ed egli cadde bocconi, la testa sul marciapiede, le gambe fuori, rattrappite fra lo spazio di due macchine in sosta.
Credemmo fosse svenuto. Non si sapeva cosa fare; eravamo come inebetiti da quella manifestazione sincera di dolore, dalla troppa umanità. L'ambulanza arrivò quindici minuti dopo, la sirena che lentamente aumentava d'intensità, avanzando con cautela nella carreggiata ristretta, occupata dai curiosi smontati dalle macchine.
Gli infermieri armeggiarono per un po' attorno al corpo, intralciati dal poco spazio. S'intuiva il peggio.
Lo adagiarono di peso sulla lettiga. Stretto fra le coperte, ne vidi solo la nuca, il volto rivolto altrove, immobile.
Era morto.
Arrivarono, con molto agio, anche le gendarmerie locali. Dopo due ore di attesa, il relitto fu portato via, la circolazione riprese. S'era fatta notte.

Come distruggere l'economia locale


Pubblicato il 12 marzo 2015; ripubblicato su Pauperclass il 17 marzo 2015

Olio con sapiente arte spremuto
Dal puro frutto degli annosi olivi,
Che cantan -pace! -in lor linguaggio muto
Degli umbri colli pei solenti clivi,
Chiaro assai più liquido cristallo,
Fragrante quale oriental unguento,
Puro come la fè che nel metallo
Concavo t’arde sull’altar d’argento,
Le tue rare virtù non furo ignote
alle mense d’Orazio e di Varrone
che non sdegnàr cantarti in loro note ...

Una poesiaccia di Gabriele D'Annunzio sull'olio. L'olio d'oliva, quello spremuto dalle olive, i frutti che crescono sugli olivi, insomma. Ho voluto esser didascalico per tema d'un fraintendimento. Pochi sono avvezzi alla terra ormai; pochi oggi hanno visto dal vivo un pollo o un coniglio o un castagno (anche se li pappano regolarmente); la natura, anche la nostra, la mite natura mediterranea, entra in rapporto con l'uomo postmoderno solo traverso la mediazione del supermercato; o della boutique alimentare. Anzi, molte volte l'uomo di tal fatta crede la natura - quella vera - sia tale e quale come appare dagli involucri dei prodotti commerciali. Ha una fede inestinguibile in tale bric a brac di folclore disneyano: crede che le mucche ridano; i maiali si rotolino nel fango profumato agitando la coda a cavatappi per la contentezza; che le pecore sia come Shaun, quella del cartone animato; e che i villici siano uomini con appena un velo di barba incolta, sorridenti pure loro, al massimo con un cappello floscio alla Antonio Misseri; e che le campagnole siano o villiche in carne, fresche e sorridenti, o foresette col canestro appresso, pronte a far ingurgitare gelatine ai cavalli. Spesso, quando tale arcadia si infrange sulla verità, l'uomo postmoderno ha un moto di ripulsa: ad esempio quando scopre che le villiche sono omicide seriali di animali da cortile (cruente quanto indifferenti), che il contado bestemmia sovente e vanta una igiene, come dire, poco igienica; e via così. Conoscevo un tale che era ghiotto di zabaione; tutte le mattine si faceva preparare un bell'uovo fresco (davvero fresco: ancora caldo di gallina) con caffè e latte; ah, che goduria! Poi si rese conto che l'uovo (l'interno dell'uovo, quello che lui sorbiva) proveniva da un uovo (col guscio, tutto intero) e che quell'uovo (il secondo che ho detto) aveva tale guscio, come dire, tutto chiazzato dai recenti sforzi della gallina ovipara - sforzi volti a estromettere, in ultima analisi, lo stramaledetto uovo testé menzionato (nella seconda accezione). Lo shock di quell'uovo garbatamente smerdato fu una scena primaria così forte che il nostro per poco non cadde in deliquio; e mai e poi mai volle più assaggiare uova fresche che, lo seppi de relato poco tempo dopo, secondo lui "puzzavano". Questo per dire che il cittadino della società digitale vive in una landa tutta sua e mai esperisce la reale realtà che produce, volente e nolente, il cibo e le leccornie da lui gustate. Egli ha in mente Dulcinea del Toboso, bellissima e olente: mai si sognerebbe una solida massaia, colle maniche rimboccate e il culo basso; rischierebbe la pala del mulino sulla zucca.
E così per l'olio. Se lo chiede mai l'italianuzzo chi lo fa l'olietto? Chi lo produce? Chi lo materializza tutte le mattine presso il locale (super)mercato o boutique alimentare?

Reclamo dignità, voglio essere uno schiavo


Pubblicato il 2 ottobre 2014; ripubblicato su Pauperclass il 16 marzo 2015

1. Dono tutti i beni, mobiliari e immobiliari, materiali e immateriali, a me variamente riconducibili, al mio nuovo padrone (dominus)

2. Rinuncio a tutti i diritti democratici, attivi e passivi, transeunti e imperituri, garantiti dalla cosiddetta Costituzione della Repubblica Italiana (1946-2014 circa)

3. Rinuncio a qualsivoglia garanzia esplicita o implicita annidata nei vari codici, pandette, regolamenti, testi unici, emendamenti, integrazioni, usi, della poliforme legislazione nazionale (1946-2014)

4. Rinuncio a qualsiasi diritto e garanzia promanante da atti, proclami, legiferazioni, dottrine, flatulenze e spetezzi liberali e libertari, approvati, a vario titolo, da organi internazionali, transnazionali, sovranazionali, extranazionali, negli ultimi tre secoli.

12 dicembre 2016

Annegare nella libertà


Pubblicato su Pauperclass l'11 marzo 2016

Quasi tutti hanno sentito parlare del delitto del Collatino (un quartiere di Roma).
Due pervertiti hanno irretito, seviziato e assassinato un ventitreenne, Luca Varani.
Il loro gesto era premeditato. “Volevamo provare l’effetto che fa“, ha dichiarato uno di loro, in una grottesca parodia del classico di Jannacci. Premeditato, benché attuato sotto il pesante effetto delle droghe.
Alcuni opinionisti (fra questi Maurizio Blondet) hanno evocato le categorie di Bene e Male.
È logico che Blondet lo faccia: è cristiano e cattolico; giudica secondo la morale cristiana e cattolica.
Credo, tuttavia, ch’egli sia fuori strada.
Fare appello a un sistema di valori (qualsiasi esso sia) rende necessariamente incapaci alla comprensione della vicenda. Parimenti inadeguato è riferirsi agli autori dell’omicidio quali “annoiati figli di papà”: il censo, o la noia, qui, entrano poco o nulla.
Meno fuorviante è il richiamo alla pazzia; a patto che con tale termine s’intenda un tipo di pazzia del tutto inedito: una affezione nichilista dell’animo.
Ritengo, infatti, che l’assassinio di Varani sia avvenuto in una zona al di là del Bene e del Male.
Stragi, torture e delitti son sempre avvenuti. Tutti, però, originavano o da una morale o da una visione dell’esistenza o quale reazione all’infrazione delle stesse (erano, quindi, accettati o riprovati in nome di un codice superiore).
Persino l’act gratuit di Gide ne I sotterranei del Vaticano ricade in tale categoria: nel romanzo vi è sì un gesto omicida insensato (poiché senza movente), ma questo è pur sempre la negazione di un’etica dominante ancora valida e riconoscibile da tutti.
L’assassinio del festino omicida del Collatino, però, si invera nella più totale assenza d’una morale. Interna ed esterna. In esso non rinveniamo, come vuole Blondet, il Male, come antitesi al Bene, ma nel vuoto: esso ha la propria radice nel Nulla (degli animi e della società).
Qui hanno patria i nudi fatti: abbiamo agito così.
Questo è accaduto. E basta.

Ahi serva Italia, prigioniera della falsa coscienza e della paura


Pubblicato su Pauperclass il 27 agosto 2016

Non c'è nulla da fare.
Non si muove foglia.
L'Italia è ferma, irrigidita, bloccata.
In egual modo raggelata da una falsa coscienza; e dalla paura.
Sì, l'Italia non si ribellerà: morirà, molto semplicemente. Pian piano, rassegnata, e ferma, inchiodata alla visione masochista della propria disfatta da una coscienza non sua - abilmente instillata nei decenni - e dal terrore, un terrore abietto, il terrore di infrangere i comandamenti di questa coscienza posticcia.
Il cuore antico dell'Italia, i suoi usi, le tradizioni, la psicologia di un popolo, tutto ciò che, in ultima analisi, è contrassegnato come cultura giace negli strati profondi dell'animo del paese, dimenticato; ogni tanto emana bagliori, sussurri inquieti, echi quasi inaudibili. È la nostra coscienza, quella vera, ciò che noi siamo stati, quello che ci ha fatto sopravvivere come entità attraverso i millenni. È una voce che vorrebbe stimolarci all'azione, alla verità (non c'è azione senza verità), che vorrebbe salvarci, perché in quella voce ci sono le esistenze di chi ci ha preceduto, e in qualche modo amato ... ma noi siamo sordi, la rifiutiamo ... oppure la tradiamo ... perché abbiamo paura.
E chi tacita questi richiami dal profondo che potrebbero farci scampare un destino da reietti?
La falsa coscienza.

25 aprile: come siete diventati brutti e stupidi, cari compagni


Pubblicato su Pauperclass il 27 aprile 2016

Scruto l'avvenire dal fondo d'un passato nerissimo, e trovo che nulla mi è permesso, tranne la fedeltà a una causa assolutamente perduta"
Joseph Conrad, lettera a Cunningham Graham

Sono nato a sinistra. Feci in tempo, per due volte, a votare Partito Comunista Italiano. Alla fine degli anni Ottanta.
In altre parole: ero comunista.
Queste non sono affermazioni politiche: sono prese d'atto. Ero così. Essere comunista! Confesso che c'entrava poco la collettivizzazione della terra, il Soviet e l'abolizione della proprietà privata. Credevo in uno Stato totale, benigno e regolatore, questo sì, e nell'onestà di fondo dei dirigenti di partito, individui pronti a trasferire questa loro inclinazione a livello nazionale, una volta vinte le elezioni. 
Per il resto non m'interessavano granché le riunioni, le candidature, i programmi, i preamboli, le intenzioni; le sale fumose, i dibattiti, le mozioni.
Amavo la burocrazia attiva: l'assegnazione dei libri scolastici gratuiti, ad esempio. Cosa bisogna fare? ... ci domandavano. E si spiegava alla mamma il passo necessario. L'otturazione del molare all'Enpas: è possibile? Certo, si può fare, ma devi riempire il modulo tale e presentarlo in talaltro posto. E le esenzioni per la borsa di studio? Quest'anno è cambiato tutto: devi fare così e così et cetera. Una volta, al liceo, tentai di organizzare pure una biblioteca gratuita, ma andò a schifio.
Al contrario mi trovavo a disagio (a dire il vero lo trovavo insopportabile) con il lato sessantottino e movimentista del PCI: l’esistenza bohemienne, la scapigliatura di sinistra, il cantautore barbuto col lambrusco sul tavolo, gli artisti off e ‘de sinistra’ (tanto più arroganti quanto più insulsi), i brindisi, le canne, le iniziative estemporanee. Una volta, a una festicciola per l'elezione di non so chi, di fronte all'ennesima birretta stappata sotto il ritratto di Enrico Berlinguer e del fesso che imbracciava una chitarra per declinare (ancora!) De André o Guccini, mi sorpresi a pensare con forza: "Mi sa che io, alla fin fine, sono fascista" (i populisti, nei primi anni Novanta, erano ancora merce rara). La mia vita è ricca di queste rivelazioni improvvise: si scorre tranquilli per anni, poi, come se avessi lentamente sovraccaricato di tensione una linea, avviene l'inopinato corto circuito: "Mi sa che io, alla fin fine, sono fascista".