Il Poliscriba
Nell'intero gelso onirico
a corto d'estate è il pozzo
… vecchio vuoto d'acqua
la pergola indora d'ambra i guanti fiori
e nei fianchi delle robinie e dell'acacia
nel furore invetrato dei rumori
sgrana mela l'apribocca
sepalo bruciato d'una cosa in te
… tra rose, rosa
(quando il Poliscriba si dilettava in poesie bucoliche)
Devo
ricordarmi di pomeriggi in fuga dalla città impazzita, prima che fosse il
mercato delle vigne a mutare il paesaggio vitivinicolo delle Langhe, a maturare
per marcire d’egoismo agroindustriale le colline, i rabbocchi terreni pennellati
di stracci verdi, non ancora coltivati intensamente dopo l’omicidio dei boschi
profetizzato dal Cassola.
Si
sorseggiava allegramente e gli occhibuchi mi guardavano come fossi un bambino,
io ch’ero un giovane bipede inesperto, contento di essere accolto tra bevitori
incalliti di rossi genuini, non strutturati, lasciati macerare nei loro roveri,
talmente a buon prezzo che, il presente etichettato DOCG, sembra un cattivo
plagio, un logoro rubino presagio di morte dell’amicizia consumata, noia dopo noia,
con accompagnamento di ricordi di vite strappate alla morte.
Le
mani aggrinzite, rapaci sui vetri ricurvi, sporchi di depositi viola; sugheri
sui tavolini e intonazione di canti montanari.
In
quali uteri nuotavamo, noi, generazione X, quando quegli esseri sdruciti di
fuoco e vento sminavano i passaggi tra le valli, lottavano per la pace
portandosi a spalle i cadaveri?
Ero
solo un infantile ascoltatore di reduci, un osservatore stupito di macchie
senili, un fuggitivo che lasciava il suo precario futuro e i suoi vent’anni a
coetanei confinati nei fine settimana tra le spire elettroniche e ipnotiche
della tecno-dance.
Mi
prendevano per matto, così, in risposta al dileggio per la mia precoce
misantropia, ficcavo nello zainetto tutto il tempo necessario per andarmene
con una stramazzante 127 a sbronzarmi di
dolcetto e di antica felicità, oltraggiando con famelica ignoranza ammuffiti
formaggi, crostini salati,
ricevendo pacche sulle spalle se
imbroccavo la sparigliata a carte.
E non
sempre mi andava bene.
Le
memorie ossute, ai bordi del biliardo, mi facevano a pezzi e, pur esibendo le
mie evidenze muscolari, nulla potevo contro le loro estenuanti costole, quelle
forze contadine nascoste sotto ruvide flanelle, ma forti nelle mani da
spezzarmi i polsi quando le stringevo per convenevole saluto.
Ed
anche i loro sguardi erano più buoni dei miei e il dialetto mi fregava la
comprensione da sotto il naso; si prendevano gioco di me, mi chiamavano vitello
senza coda, con bontà, per ristabilire quella giusta gerarchia che, per le loro
canizie, doveva legare i vecchi ai giovani.
E le
anziane signore erano ancora ombra nei biascicati consigli di starmene alla
larga da quei perdigiorno; i vedovi sapevano, conservavano segreti e un certo
apparente potere da pater familias, e le vedove, che ogni tanto si aggregavano
a noi, ricordavano a tutti che gli stupidi uomini spesso campano meno delle loro donne.
E mi
canticchiavano, stonati, giorni su schiene storte che si raddrizzavano in balli
al palchetto.
In
strofe dal labiale difficile parlavano di quelle belle che si cucivano fiori
tra i capelli, delle loro gambe desiderate, nascoste sotto le vesti che, a
metterci le mani callose in mezzo, scoprivi a stento che non erano lisce. E insistevano sull’acqua
delle risaie alle quali affidarono mal volentieri le figlie giovani; sulla
polvere delle mietiture; sulle stoffe grezze che rendevano le loro femmine simili a legno chiaro di betulla, nulla di
sensuale, ma non per questo respingenti gli assalti primitivi e privi di
romanticismo letterario delle loro voglie maschili.
Per
lunghe ore estive, scodellavano nelle mie orecchie, poco avvezze al patois
langarolo, racconti di lavoro e logorio di ossa e nervi “... sempre meglio della guerra”,
confermavano tra loro, che non ha fatto più bravo nessuno, ma almeno ha donato
amicizie eterne in cambio di una sopravvivenza inaspettata, consumata con
inamovibile ciclicità tra le quattro del mattino e le otto della sera, a
dispetto di fortuna e sventura, oltre le malattie incurabili accettate come
fatalità prima dell’avvento della prevenzione e della diagnostica medica.
Ed
erano stati bambini, tutti quanti, irrimediabilmente fanciulli, la cui unica
prospettiva era il duro spaccarsi le ossa sulla bassa terra, interrotta da
giochi nella polvere, fionde rudimentali, paletti lanciati contro muri stremati
di sole, batraci cacciati senza dolo ecologico, scoppole sulla testa e fughe
nei granai a ginocchia sbucciate sotto corti calzoni, prima che gli stessi
diventassero asfittici rifugi antiaereo.
La
scuola dell’obbligo, che mi ha reso molle, per le loro intelligenze da calcolo
ristretto e osservazioni di cielo e semi, era il ricordo vago di poesie
imparate e declamate sulle sedie impagliate, da figli e nipoti, ai matrimoni,
davanti agli scemi del villaggio, dopo gli aborti, le violenze domestiche, gli
incesti per non mollare le terre a nessuno.
Intuivo
le invidie accatastate come legna da ardere sopra virtù sbandierate in piazza o
nascoste nei fienili di cascina “… perché i panni sporchi si son sempre
lavati in famiglia”, mugugnavano, e “... i confini si misurano al centimetro,
si difendono sempre e, comunque, come i figli che sbagliano” e, se
necessario, si ritracciano partendo dai grandi fichi che non bastano a
raffreddare, con la loro ombra, gli atavici odi contadini che nemmeno le mappe
catastali sono riusciti a placare.
Loro
che stavano ritorti sotto il peso della falsa umiltà in mezzo a parroci,
sindaci e carabinieri come felci ondeggianti tra tronchi stabili, mi formavano
nell’arte di tacere per affermare, nell’arte di sorridere a denti stretti per
negare.
Un
tempo, non oggi, erano ospitali con gli stranieri una volta all’anno, a Natale,
per poi, diffidenti, ritirarsi dietro persiane chiuse; spie dietro a feritoie,
come ci si appostava durante la guerra; finestre aperte soltanto per stendere a
lutto drappi neri, sbiancati da roventi graffi solari.
Quando
me ne ritornavo in città, mi salutavano con un arrivederci, perché mi avevano
“fatto amico”, e speravano di rivedermi presto.
Non
erano incuriositi dal mio modo di vivere i miei giovani giorni, ma dalla mia
disponibilità ad ascoltare il reiterato racconto del loro passato che i loro
nipoti diplomati, pronti ad entrare alla Ferrero Spa, non avevano più voglia di
sentire.
Mi
ficcavano una bottiglia tra le mani “... gaute la nata!”, ridevano: “… e
cerca di goderti la vita, bambin, tu che studi e non devi spezzarti la schiena
per sudarti il pane”.
Bello scritto, amo Silone proprio perchè da uno spaccato completo delle mille sfaccettature di quel mondo, sono cose dell'altro ieri in Piemonte come altrove ma è bastata una generazione generata dall'inurbamento di massa a spazzarle via.
RispondiEliminaSitka
Grazie Poliscriba caro! GRAZIE!
RispondiEliminaDicevi Cassola, Sitka dice Silone e io ti dico Buzzati, sei la sua saudade e come il suo bosco, sei il segreto del mondo perduto.
Un abbraccio
ró
Grazie a voi che avete la costanza di leggermi contro la frenesia dell'oggi.
RispondiEliminaGrazie a te che hai la costanza di scrivere!
RispondiEliminaGrazie Poliscriba
RispondiEliminascritto stupendo e in effetti molto fenogliano come suggerito dal titolo. Nel mio piccolo io qui in Valtellina produco vino, credo di poter dire col minimo possibile di lavorazioni in cantina - forse per compensare il mazzo che ci si fa in vigna. Se passa in zona i calici per un assaggio ci sono sempre.
Guido Bulgarelli
Per Guido Bulgarelli
RispondiEliminaTi ringrazio per l'apprezzamento. Ho fatto un giro per la blogosfera e ho visto quante attività sono legate alla tua passione per la terra e l'agricoltura. Sei un agronomo sensibile e ricco di iniziative per la salvaguardia del grande patrimonio italiano che non a caso i latini, per quanto attiene al vino, definivano Enotria. Un caro saluto.
Per il Poliscriba:
RispondiEliminaaggiungerei che c'è un altro aspetto della viticoltura valtellinese che, se ben arguisco, potrebbe risultare interessante per la tua sensibilità: è del tutto anti-utilitaristica, direi anzi anti economica tout court. Migliaia di ore di lavoro, vini ostici che vanno aspettati in cantina perchè da giovani sono intrattabili, un sistema delirante di muri a secco, costruito nei secoli al prezzo di innumerevoli schiene spezzate, che impedisce l'accesso ad ogni mezzo meccanico, oltre che al capitalismo in marcia trionfante. Tutti aspetti che scoraggiano i più e che per me, invece, sono il vero carburante che mi spinge quassù.
Grazie, continua a scrivere. Le sacche di resistenza ci sono, anche se comunicano poco tra di loro.
Guido Bulgarelli