Soriano nel Cimino, 21 agosto 2017 Si rimane sempre sbigottiti davanti agli attentati: le nostre preziose vite falciate da bestie senza pietà! La vittima bambina, la vittima ragazza, la vittima giovane ed ebbra di speranza nel futuro! I giornali grufolano e si rivoltano nel brago dell'angoscia occidentale, declinata secondo lo stile puerile e piagnucoloso degli occidentali alla fine dei tempi. Il sangue, il sangue! Ma di sangue ne abbiamo visto poco dal '45 a oggi. L'Italia ha vantato lievi increspature, durante i Settanta, e poi più nulla. Si sta abbastanza bene nell'Occidente, senza guerre carestie malattie. Anche la violenza è più esibita che reale. La violenza reale dov'é? Tutti noi sciaguattiamo senza sosta nel brodo tiepido di un'esistenza insulsa. La violenza fa raramente capolino nella vita; temiamo la violenza, la aborriamo; anche uno schiaffo, ormai, o un calcio in culo son vissuti come affronti intollerabili, da tribunale: la querelo la querelo! Non sia mai che si risponda con un bel pugno nei denti.
Siamo tutti pacifici, paciosi, pacifisti, antistalking, antifemminicidi, antivivisezionisti. Prima o poi anche zanzare e pappataci accamperanno i loro diritti. Il Dalai Lama già rispetta quelle nobili vite, ogni cosa è illuminata. Formiche, libellule, ma anche gerani e cavolfiori (ci si tranquillizzi) avranno la loro leggina MinCulPolCor.
Siamo stati poveri, pezzenti e luridi, ma siamo rimasti noi stessi.
I soldi non sono il problema, l'economia non è il problema. È l’acculturazione coatta il problema, l'indottrinamento. I soldi neanche esistono; se esistono, son solo il mezzo per distorcere l'umanità, sradicarla da ciò che è sempre stata e volgerla in barzelletta.
L’usura è usata per ridurre il vecchio ordine a un balocco in disuso, altro che ricchezza.
Dominare culturalmente reca il vero potere, e il potere, eventualmente, i soldi, la parte più evidente e meno importante tanto che i veri potenti i soldi manco se li portano appresso.
Gianni Agnelli girava (giustamente) senza portafoglio.
L’economia è il sicario della nuova etica al contrario.
Non è questione di bene o di male, bensì di sopravvivenza. La morale e l'etica nacquero per conservare, non per giudicare. Essere razzisti, avere costumi razzisti, misogini, antisemiti, omofobi significa essere sopravvissuti come italiani ai millenni. Solo un imbecille può credere che i comportamenti di un popolo obbediscano a moti reazionari o progressisti. Un popolo non è mai crudele invano, o spietato o dolce o babbeo perché, come credono su commissione i Saviano, i Mentana, i Lerner, le Gruber, vi è una sorgente favolosa di retrogradi e sciovinisti in grado di far sgorgare italiani retrogradi e sciovinisti.
Un italiano odiava certi individui o etnie o comportamenti per istinto; e quell’istinto era istinto di sopravvivenza, consolidato nel tempo.
Se obbediamo alla nostra natura conserviamo noi stessi; se la rinneghiamo in nome di una nuova etica imposta con l’inganno saremo perduti.
I tempi attuali hanno questo di particolare: dovremo viverli sino in fondo e berne la coppa sino alla feccia.
Uno dei maestri residui del pensiero italiano (un altro, celebratissimo, è crepato recentemente), il nababbo Eugenio Scalfari, nei giorni scorsi se ne è uscito con tale argomentazione: i poveri soddisfano esclusivamente i loro istinti e voglie primari; non ne hanno di secondari: la ricerca di Dio, ad esempio; collezionare ceramiche Ming; leggere trattati di socialisti tedeschi dell’Ottocento; scrivere per il teatro; occuparsi di lirica et cetera.
Il loro mondo (il mondo dei poveri) è chiuso, basico, animale.
I poveri, ne consegue, dei bruti.
Ovviamente Scalfari ha ragione. Tutta la mia famiglia, ad esempio, in particolar modo i miei ascendenti diretti (nonni materni e paterni), son lì a confermare le sue tesi.
Aggiungo di più.
I poveri, quelli veri, quelli che ben presto popoleranno la nazione, sono pure brutti, sporchi e cattivi.
Brutti poiché le privazioni imbruttiscono; e un lavoro non intellettuale (lavoro intellettuale: scrivere articoli da quattro soldi con l’aria condizionata, i piedi sul tavolo e le sfogliatelle alla propria destra, ad esempio) non regala tempo per curarsi la barba come un orticello (altro esempio).
In quanto brutti i poveri attirano altri brutti: ne nascono, a meno di un terno secco cromosomico, figli brutti.
Le probabilità di fare 6 al Superenalotto sono di 1 su 622.614.630. E di un 5+1? 1 su 103.769.105. E di un più umile 5? 1 su 1.235.346.
Il banco, insomma, vince sempre. E perché? Perché è il banco a dettare le regole. Credete che i gonzi si scoraggino per questi incontrovertibili dati sulle probabilità? Manco per idea. Gli Italiani sono i più accaniti giocatori europei.
Miliardi di euri, ogni anno, affluiscono nelle casse del banco senza più fare ritorno. Se non in minima parte.
La speranza è una droga potente ed è arduo rinunciarvi a favore di un ragionamento logico.
Anche il conformismo è una droga potente: gli Italiani ci credono nelle regole del banco. Prima o poi toccherà anche a noi di vincere! Ovviamente sragionano.
C’è poca differenza, ormai, fra il Superenalotto e la democrazia.
Il voto democratico, quale speranza di cambiamento, riposa, come nel gioco d’azzardo, su speranza e conformismo. Vale a dire: sul nulla.
Inoltre le regole del voto democratico sono decise dal banco. Inutile sedersi al tavolo democratico con un full: loro già hanno in mano la scala reale. Il banco vince sempre.
Dopo la morte di Carlo Azeglio Ciampi, l’unico politico che abbia pronunciato una frase degna di una mia (modesta) approvazione è Matteo Salvini: “Al di là del cordoglio … è stato uno dei traditori dell’Italia e degli Italiani … al pari di Napolitano e Prodi come gli altri si porta sulla coscienza il disastro … sulle spalle di 50 milioni italiani … Politicamente parlando, è stato uno dei complici della svendita dell’Italia ai poteri forti, ai massoni, ai banchieri e ai vecchi finanzieri … quindi … lontanissimo da quello era l’interesse dei cittadini”.
Ineccepibile.
Tanto ineccepibile che la dichiarazione ha subito fatto insorgere i pasciuti difensori dello status quo, da Grasso (nomen omen) a Letta, da Fiano a Zanda sino a Maurizio Lupi e al seduttore Casini. Lo sdegno di disapprovazione sincrona ca-cantato da questi satolli eunuchi dell’harem italico (che fanno volentieri entrare cani e porci per fottere le ultime nostre bellezze) ha raggiunto vertici di compiacimento mistico.
Il M5S non ha partecipato. Se queste cose le pensa (come la maggior parte del loro elettorato), però non le dice. E perché? Per il solito motivo: la paura. Sì, il potere fa paura e allora è meglio non prenderlo per le corna. Ragionano gli stellati: i tempi non sono maturi, meglio aspettare, far decantare e usare altri toni. È così, non c’è niente da fare. È già tanto che abbiano trovato il coraggio di gettare nel ventilatore la merda del “no” alle Olimpiadi, anche se l’hanno dichiarato dopo mille cautele e tentennamenti. Sì, il potere fa paura, i linciaggi ti rovinano la vita e aspettare il cadavere del nemico sul fiume è la scusa buona per chi il coraggio politico non ce l’ha. Peccato che nella realtà il cadavere del nemico non arrivi mai; più probabile che il detto nemico sia dietro di te, con un randello in mano.
Ma torniamo a Salvini, unico spetezzo dissonante nel coro angelicato di elogi al Salmone Ottimo Massimo.
Centinaia di artisti e viaggiatori si son sempre interrogati sulla campagna romana.
Miglia e miglia di deserto brullo in cui campeggiano mozziconi di torri, fondamenta di ville rustiche, mura sbriciolate, casali dalle finestre mute, antiche chiesuole sbarrate, resti di tombe protocristiane .
Un senso di mistero e inquietudine grava sui cuori dei viaggiatori.
Dove siamo qui?
Gioachino Belli così descriveva tale luogo insondabile:
"Fà ddiesci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com’un ojjo,
che ssi strilli nun c’è cchi tt’arisponna!
Dove te vorti una campaggna rasa
come sce sii passata la pianozza,
senza manco l’impronta d’una casa!"
Il silenzio è gonfio di fantasmi. Il disagio è generato dall'assenza. La campagna romana è una misera pergamena sui cui s'intuisce una scrittura flebile: i versi di un capolavoro grandioso. Tutto fu ordine qui: le strade si intersecavano con logica, le costruzioni erano pensate con perizia, le torri punteggiavano il territorio nei luoghi strategici.
Ritroviamo l'opera consunta di decine di generazioni che hanno operato con intelligenza, dedizione, genio, per accumulare il sapere che ha formato la tradizione.
Ecco perché qui la solitudine non è mai tale.
Non si passeggia in solitudine fra l'erba vitriola, il porrazzo o i cardi; il passato incombe: ogni dosso o curva o una collinetta anonima rappresentano le evanescenti linee del volto di una divinità.
Nulla è innocente e tutto parla a chi sa intendere.
Mi mandano le foto (dedotte da un social media) di una vecchia conoscenza di scuola. Un cinquantenne italiano. Uno come tanti.
Lo si intuisce al mare. A parte il costume (nero) e un paio di ciabatte, è in completa libertà. L'aria stolida, insieme vacua e soddisfatta; l'arroganza di chi crede di sapere; le trippe debordanti. L'orango ride verso l'obiettivo. Da una foto ch'egli allega deduciamo che si sta preparando una braciolata. In quella successiva, infatti, sta di profilo, come un cercopiteco famelico, il muso in alto, avido, pronto all'ingurgitazione di una salsiccia che fa pendere con voluttà dalla zampa sinistra.
Nell'immagine seguente ha la bocca piena e soddisfatta; mostra il dito medio: come a dire: guardate come me la godo.
Le ultime due diapositive dall'inferno significano rispettivamente, al potenziale spettatore, il piatto vuoto, lordato da qualche salsa innominabile, e il nostro eroe stravaccato su un materassino: di fianco, a smaltire il bagordo squallido, satollo pitone del nulla, le gambe piegate leggermente sotto il petto, l'adipe che cola immondo verso il basso subendo anch'esso, come ogni grave, il richiamo della forza gravitazionale.
Mi chiedo: questa è una rovina, indubbiamente, ma di cosa? Quale deità ha potuto annientare del tutto ogni barlume di intelligenza? Quale demonio è riuscito a trasformare questa umanità in un triviale ammasso di inutili detriti? Come è possibile che un popolo come quello italiano, con una tradizione millenaria, sia stato spazzato via in pochi decenni tanto che, ora, non ne rimane nulla?
Abbattete un tempio, una biblioteca, una chiesa: le sue vestigia, pur labili, continueranno a irradiare bellezza e logica. Ma questa umanità cos'è? Questi non sono i ruderi morali e psicologici di un passato recente, ma la testimonianza nuovissima di una civiltà ormai impossibile.
Come si può recuperare un barlume di decenza e saviezza da tali corpi e menti sfigurati, resi nulli dalla crapula, dall'insignificanza dei gesti quotidiani e prossimi a una de-evoluzione senza speranza? Come parlare a tali oranghi buoni per il tam tam, tutto stomaco e idiozia?
Questi non sono più nemmeno italiani, sono sacche rancide di materiali purulenti. Che vuoi fare, cosa vuoi recuperare, aizzare, convincere?
Si legge nel De esu carnium (Del mangiare carne) di Plutarco:
Plut I: "Io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l'uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano. Come poté la vista tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì l'olfatto a sopportarne il fetore? Come mai quella lordura non stornò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali?".
E quindi, poco più avanti:
Plut II: "Tuttavia, sebbene sia ormai impossibile mantenerci immuni dall'errore per la consuetudine che ci lega a esso, provando vergogna agiremo male secondo ragione. Mangeremo sì la carne, ma spinti dalla fame e non per ingordigia. Uccideremo sì un animale, ma provando per esso pietà e dolore, non usando la violenza né torturandolo".
Abbiamo qui un bell'esempio di come si esercitasse la ragione e il discorso nel vecchio ordine morale.
Nulla di troppo.
Ecco, in Plut I, il filosofo di Cheronea, erede di Empedocle e Pitagora, descrivere con orrore l'uomo che mangia carne macchiandosi di un peccato contro la natura e la vita. Il tono è alto, di quella forza assieme trattenuta e intensa che caratterizza i trattati etici dell'età classica. Solenne e perentorio, eppur sorvegliato: l'eccesso e la foga, pur se fanno il gioco di ciò in cui si crede, sono peccati anch'essi.
In PL2 lo scrittore offre apparentemente una scappatoia alle sue ferme convinzioni: l'uomo è debole, infatti, e per ciò stesso gli è difficile liberarsi dall'errore (mangiare carne impura); se cadrà in tale colpa dovrà farlo con vergogna, senza arrecare ulteriore dolore, e solo per soddisfare l'impulso della fame e non quello dell'ingordigia.
In entrambi i passi c'è tutta la razionalità e la compostezza logica del mondo classico e cristiano come l'abbiamo conosciuto sin in epoche recenti.
Poi vi fu la deformazione.
Entrambi i corni del discorso appena accennato, e che non significano semplici trincee concettuali, bensì poli dell'animo e regioni della sensibilità, subirono una dolosa forzatura, sin al grottesco.
L’astensione dalle carni sconfinò nei capricci del politicamente corretto ed ebbe a degenerare nel veganesimo a oltranza, nell’antispecismo e nel feticismo animalista; la colpa del mangiar carne si corruppe in senso opposto: caduta la vergogna (anche per la lontananza fra carnefice e vittima), residuò la gozzoviglia da supermercato, il junk food, la foia da ingurgitazione e la proliferazione chic dei programmi culinari.
Entrambi, il politicamente corretto e la crapula consumista Cracco/McDonald's, sono i nuovi corni degenerati del dilemma; o meglio, le due nuove facce malsane di un unica putrefazione: quella del capitalismo senza più lacci morali (e vergogne) che genera sia mostri capaci di ingoiare l'universo, sorta di lamprede esistenziali, sia i loro apparenti oppositori (emunti vegani, cenobiti del cavolfiore, feticisti del guinzaglio).
Se il PolCor è il braccio ideologico del capitalismo terminale, l'eccesso ne è la concrezione economica. Ambedue i fanatismi, per quanto contradditori sembrino a un primo esame, rampollano da tale unica pozza malarica. Fuor di metafora: tra le proliferanti legioni di obesi che si ingozzano di hamburger puzzolenti pur di soddisfare la coazione a ripetere d'una ingordigia malsana e fine a sé stessa, e il loro contraltare (i nuovi stiliti dei germogli di soia o gli antispecisti isterici, per cui un agnellino è pari a un neonato umano) non vi è che un saltello.
Entrambe le posizioni sono, come detto, degenerazioni dell'antico sentire, estremizzazioni, devastazioni della logica e di ciò che potremmo definire “sorgiva ragionevolezza”.
Un vegano radicale e un sacco di lardo americano sono affratellati nella parodia che scaturisce dal "troppo": ambedue sono gl’inconsapevoli araldi di una visione postmoderna nettamente antiumana, e in loro instillata.
Ci sono voluti millenni di metafisica per ammazzare Dio; poche centinaia d'anni per sfregiare l'uomo di Vitruvio leonardesco e liquidare la prudenza e la nobiltà dell'etica classica e cristiana.
Siamo divenuti talmente frettolosi, nella nostra ansia di depotenziare l'uomo, e di criminalizzare il suo passato, che non ci accorgiamo di venerare un altare vuoto: il nulla e la dissoluzione.
Qualche tempo fa vidi un cortometraggio di George Franju, Le sang des bêtes (Il sangue delle bestie, 1949). In esso il grande regista francese documenta una sua visita ai mattatoi di Parigi.
La compassione verso gli animali qui si effonde in un più vasto sentimento di pietà che deriva dalla nostra comune appartenenza all'ordine naturale; l'uomo e l'animale convivono sotto lo stesso cielo e sono parte di una creazione inscindibile: nel film ecco perciò apparire i simboli del miracolo della vita: un albero, le rondini che, libere, inseguono le segrete vie dei cieli, alcuni bambini che inscenano un girotondo, due innamorati che si baciano. È la vita che avanza, inarrestabile e caduca, con le sue repentine esplosioni di terrore e felicità. Un placido bue, un ariete o un cavallo - tutti partecipano a tale immane flusso: ed è quindi un'ingiustizia privarli sia pure di un micolo di tale gioia: Eppure occorre essere realisti; l'uomo è ciò che è, imperfetto; la sua vicenda terrena, breve e intensa, non può che errare: egli può uccidere e recare la morte: sarà la ragione a gettare la luce della verità su tali atti e imporre la vergogna e l'espiazione.
Sì, gli animali sono esseri senzienti e che patiscono. La loro morte, però, non è presa alla leggera dagli uomini che sanno. Il dolore degli innocenti avrà il risarcimento del nostro stesso dolore: dolci nell'aria, ecco i rintocchi lenti di una campana: uno due sei otto dodici: un compianto funebre che si dilata lento nel cielo parigino. Al bisogno umano di sopprimere i viventi corrisponde il lutto: "agire male secondo ragione", ma comprendere, perdonare, lenire gli eccessi della parola e dei gesti.
Franju e Plutarco si abbeverano allo stesso filo di pietà.
Sono europei dell'antico ordine: in loro mi riconosco.