14 gennaio 2020

Merda eris


Orvieto, 12 gennaio 2020

Da una delle tante gazzette digitali:

Lo stato di Washington ha legalizzato il compostaggio dei cadaveri: è il primo stato degli Stati Uniti in cui si potrà scegliere di trasformare i propri resti in terriccio, da far consegnare ai propri cari per essere usato per piantare fiori o alberi. Il processo è considerato dai suoi sostenitori come un’alternativa alla sepoltura e alle cremazioni più rispettoso dell’ambiente, oltre che vantaggioso per le città dove ormai lo spazio per i cimiteri è molto ridotto ...

Da subito, l’excusatio non petita … l’ecologismo straccione e il baluginio del vantaggio: lo spazio in più, addirittura, in uno Stato in cui la densità di scarafaggi per chilometro quadrato è 40,77 (in Svezia, invece, l’unica altra porzione di merda sulla Terra in cui ciò è permesso, equivale al 23,1; in Italia è del 199, 82).
Si continui la danza:

A fare pressione per l’introduzione della legge è stata Katrina Spade, fondatrice dell’azienda Recompose, che sarà la prima a fornire il servizio di compostaggio dei cadaveri nello stato di Washington. Il metodo proposto da Recompose funziona così: il corpo della persona morta viene messo all’interno di un contenitore di acciaio esagonale riempito con erba medica, schegge di legno, paglia, altri materiali organici e batteri; il contenitore viene poi sigillato e riscaldato a 55°C: nel giro di 30 giorni si decompone naturalmente, trasformandosi in un terriccio ottimo per concimare. È lo stesso metodo già usato da anni da molti allevatori per gestire i resti del bestiame”.

Si noti come le parole rivelino a chi si predispone alla rivelazione: "i resti del bestiame". Mi pare sia stato Marco Della Luna a coniare il neologismo “governo zootecnico”; ora siamo all’upgrade: Monarchia Zootecnica.

08 gennaio 2020

È presente un problema che impedisce l’avvio dello strumento di risoluzione dei problemi


Roma, 8 gennaio 2020

ERRORE. Risoluzione dei problemi. È presente un problema che impedisce l’avvio dello strumento di risoluzione dei problemi”: occorre divenire dei sommelier dell’idiozia per assaporare a pieno il retrogusto di tale notifica del PC.
Si tratta di uno dei numerosi contrattempi che ostacolano il buon vivere di ogni professionista (stavo per dire: d’ogni essere umano) postmoderno.
La sua disperazione d'uomo consiste in un calcolo assai prosaico: rispetto al 1923 o al 1672 o al 132 a.C. la giornata ammonta sempre a ore 24 (ventiquattro, pari a minuti 1440 -  millequattrocentoquaranta - e a secondi 86400 - ottantaseimilaquattrocento -). Il tempo riservato a gesti o lavori utili, però, si è drasticamente ridimensionato. Oggi si dedicano alle attività più proficue un paio d’ore al giorno, sì e no.
Le ore e i minuti perduti a favore di una sempre più pervasiva imbottitura fàtica (il cui unico scopo è di mantenere in vita un simulacro di comunicazione umana: i messaggini, le mail, i salutini whatsapp) o di ovatta digitale (password, connessioni perdute e riguadagnate, portali istituzionali e privati) salgono a percentuali spaventevoli: sino a cannibalizzare l’ex orario di lavoro o il tempo da dedicare alla libertà dal lavoro.
Per tale motivo nessuno ha più un minuto da dedicare al prossimo: l’ha già sprecato tutto. Si tenta di profanare, quindi, la notte; invece di riservarla al riposo, queste ore vanno usate per fare ciò che non si è fatto di giorno, confidando che l’ossessività diurna plachi le sue ganasce almeno durante le tenebre antimeridiane.

03 gennaio 2020

Vanitas vanitatum et omnia vanitas [Il Poliscriba]

Il funerale del povero, immagine custodita da Ludwig van Beethoven in ricordo di Mozart

Il Poliscriba

2 gennaio 2020

Da alcuni anni ho preso l’abitudine, non so se sana, di leggere il Qoelet ogni primo di gennaio, in qualunque luogo mi trovi.
In genere, accompagno la lettura ascoltando la Messa di requiem in Re minore K 626 di W.A.Mozart, l’ultima sua opera incompiuta, portata a termine dal suo allievo e amico, forse l’unico vero amico, Franz Xaver Süssmayr.
Deceduto alcuni giorni dopo la stesura parziale del Requiem che, si dice, interruppe considerandola una
funesta premonizione su di sé, fu inumato in una fossa comune il 6 o il 7 dicembre 1791, secondo un decreto regio, allora vigente, voluto da Giuseppe II d’Asburgo-Lorena.
Nessuno è mai riuscito a rinvenire le spoglie del musicista, deceduto, probabilmente, a causa di una grave nefrite.
Morto a 35 anni: una bella età per lasciare il mondo quando questo è stato il tuo nemico, l’Arcinemico.

30 dicembre 2019

A chi si appartiene


Orvieto, 30 dicembre 2019

Me lo domando spesso.
La vita si riduce, a volte, a tale banale considerazione: a chi si appartiene?
Si dice che il destino atterri alcuni, esalti gli altri e che solo il Tempo intervenga a sedare l’ingiustizia permettendo la verità: sono d’accordo, a patto di non chiamarlo destino.
In realtà ciò che amiamo appellare destino, nel breve margine che la Morte ci concede, non è che una scelta d’appartenenza. La schiavitù a un ordine, a una setta, a un pensiero prestabilito. Ciò determina il nostro essere nel mondo, la fatuità del vivere, i successi, le soddisfazioni.
Chi è estraneo a questo viene estromesso, di fatto, dal consesso sociale. Ora più di prima, molto più di prima. La libertà, di cui si ciancia, è davvero un fantasma sul proscenio del postmoderno. E chi se ne accorge? Nessuno, poiché ognuno, o la maggior parte di noi, appartiene a qualcosa o qualcuno.
Ci si affatica a osannare il Tale; a denigrare il Talaltro: entrambi, però, appartengono a qualcuno; o a qualcosa; se non fosse così non ci sarebbe da osannarli o denigrarli dacché non esisterebbero su nessun palco della venerazione o della disapprovazione.
Persino certi salvatori della patria appartengono a qualcuno o qualcosa: lo so, li vedo; noto dei particolari, ai più indifferenti, che loro, invece, pongono in sobrio risalto, come a dire: ecco, io appartengo a questo o a questa cosa.
Chi non appartiene a niente rimane solo. La solitudine, che è altro dalla vita solitaria, bramata e necessaria all’autentica meditazione, schianta l’individuo e lo rende, alla lunga, sterile. La sconfitta, continua, bestiale, feroce, ci trasforma in esseri muti e rassegnati oppure in personaggi queruli e degni di un sorriso di compatimento o scherno.
Ammetto che rendersi schiavi abbia un risvolto assai desiderabile. Il conformismo o la catena o la compiaciuta volontà di sottomettersi a una signoria intellettuale addolcisce il quotidiano: cedevole, soporoso, ricco di prebende materiali o puramente immaginarie. Com’è felice il mendicante quando gli si allunga un tocco di pane!
Il merito, la più fantastica sciocchezza del politicamente corretto, è, da quando vige il politicamente corretto, sempre sulla bocca. Si inventano database, graduatorie, divieti, obblighi, carte bollate per certificarlo, questo merito: in realtà, a ben guardare, qui si mette nero su bianco, o rosso su bianco, la propria appartenenza.
Si ha un bel guardare la catena: la si ama davvero, dà sicurezza, oltre a stipendi e onori.
Io, per me, non appartengo a nessuno.
Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per l’Italia. Certo, tale confessione sembra incredibile. Eppure è così. La mia vita l’ho passata, al di là delle occupazioni per metter assieme i pasti, al servizio di questa idea. Ma, poiché non appartenevo a nessuno, la mia opera è lentamente svanita, o passata nell’imperio di altri, quelli che, invece, appartenevano a qualcuno o qualcosa; oppure è stata mistificata; altre volte, invece, l’ho rinnegata io stesso perché vedevo che serviva Mammona: è perciò stata distolta dal mio merito anche se di ciò poco m’importava: non appartengo, infatti, a nessuno.
Di sconfitta in sconfitta pure il mio nome sembra scritto sull’acqua.
Dei miei sforzi, dell’abnegazione, delle fatiche e delle notti insonni rimane un pulviscolo anonimo che non serve a sporcare nemmeno la prima riga di un curriculum infimo.
Di ciò che sono poco importa; non appartengo a qualcuno o qualcosa; ogni mia opera, perciò, è niente.
Molte volte ho visto imbecilli passarmi avanti, cialtroni amorali appropriarsi di ciò che non era loro. Non ho protestato. Non avrei ottenuto molto, peraltro: io, infatti, non appartengo a nessuno. Buffoni scrivono libri, articoli, collezionano onorificenze e le utilizzano per umiliare.
C’è da dire che molte volte, del pari, ho avuto occasione di rinnegare l’attitudine alla libertà, e vendermi, ma ho rinunciato. Non per eroismo; non per un alto senso morale; forse per istinto autodistruttivo. Vedete come voglia, anche qui, rinunciare a esaltarmi e perdere tutto.
E, infatti, alle soglie del 2020 posso dire di aver perso tutto. O quasi.
Residuano due affetti, e non altro.
La mia solitudine è totale, cosmica. Il buio grava sul petto, le vie d’uscita sono sbarrate. Nemmeno le antiche consolazioni, la lettura, il piacere di ascoltare musica, funzionano più.
Si vive: in quale attesa non saprei. Un respiro tira l’altro.
La sensazione che il proprio mondo sia in rotta ha inasprito lo sguardo e calcificato la passione.
Cosa sopravvive se non un disperato sarcasmo e poco altro?

Di notte, in campagna, c’è ancora un buio perfetto, assoluto. Il cielo limpidissimo rende quasi vive alcune combinazioni di stelle: Cassiopea, Sirio. L’emisfero non consola, però; passato è quel tempo; un refolo freddissimo spira da lontananze ormai insensate.

Ieri me ne sono andato sui campi; gli olivi sembravano stecchiti. So che, tuttavia, in primavera rifioriranno. Ma hanno bisogno anch’essi di cura. Senza l’uomo cresceranno disordinati sino a morire di selvatichezza. La vigna di Renzo Tramaglino è l’epitome simbolica dei nostri tempi. Abbiamo lasciato entrare la falsa libertà, abbandonando la cura della Patria, e ora i barbari bivaccano nelle nostre case.
Nessuno combatte perché ci si accontenta di appartenere a qualcosa e qualcuno. Si campa per compiacere nullità. E le nullità avanzano, senza volto, a reificare il paese più bello.

Gli storni, intanto, a centinaia di migliaia, si gettano sugli oliveti, a strappare i residui dei raccolti. Improvvisamente, contro il lapislazzulo del tramonto invernale, appaiono nugoli di scuri uccellini: uno d’essi li guida e plasma lo stormo. La picchiata, radente al suolo, il saccheggio, la risalita, ordinatissima, implacabile, che sfiora, con leggiadro sincronismo, un’altra formazione. Sembrano esseri eterni, di grazia inesplicabile. Forse un’impronta metafisica risiede in questi volteggi innumeri. In tale spettacolo ha dimora, forse, il residuo d’un balsamo per il cuore.

24 dicembre 2019

Buon San Marco Cappato a tutt*



Tempi nuovi esigono auguri nuovissimi.
Marco Cappato prosciolto dalle accuse a Natale è segno, infatti, di tempi ferini e di conio nuovissimo in cui anche il sedicente Pontefice non osa nominare il Cristo (lo chiama “Il Festeggiato”; ammesso che nelle sua anima il festeggiato sia davvero Lui e non Altri - doppiezza gesuitica).
Prosciolto nei pressi del Natale: a Natale, infatti, la Giustizia Italiana va in vacanza.
Ciò sacrifica un pochino la potenza del simbolo, ma le ferie sono l’ultimo recinto sacrale.
Per tutti gli altri, circa Diecimila: buon Natale.

PS

A chi si interroga sulla rivalutazione della figura di Giuda Iscariota da parte dell’argentino Jorge Mario Bergoglio, consiglio, per intrattenersi durante le festività, la lettura di Tre versioni di Giuda, racconto dell’argentino Jorge Luis Borges.
Poiché i grandi scrittori ragionano sub specie aeternitatis, repellendogli la cronaca, ecco che qui rinverrete l’inversione teologica massima. 
Bergoglio, invertito massimo e guida spirituale degli invertiti, ha colto le bolas concettuali al volo.

19 dicembre 2019

Le elezioni perfette

Il Presidente della Provincia di Viterbo e Sindaco di Capranica Pietro Nocchi
Roma, 19 dicembre 2019

La scorsa domenica si sono svolte le elezioni nella Provincia di Viterbo.
Con tutti i crismi (crisma è l’unzione dei Sacramenti, qui come sacramenti civili): convocazione dei comizi, liste, comitati elettorali, approvazioni, conteggi, riverbero dei conteggi sull’assegnazione dei seggi et cetera.
Nessuno ne era al corrente. O meglio: pochissimi. Queste, infatti, sono state elezioni perfette. Prefigurazioni del futuro. Elezioni senza elettori. O meglio: gli elettori c’erano, ma consistevano in individui già eletti. Da chi? Dagli elettori, ovviamente, quelli veri, cioè i tipi come voi, voi che mi state leggendo (almeno: la maggior parte d’essi). Si è, insomma, in pieno gnosticismo (la purezza di Dio, come la democrazia, si deteriora a mano a mano che cola giù verso l’Ignobile Materia): l’elettorato attivo elegge democraticamente alcuni rappresentanti (ai consigli comunali); tali rappresentanti divengono, a loro volta, sul vento del democraticissimo aire iniziale, un novello elettorato attivo che elegge, altrettanto democraticamente, par di capire, ulteriori rappresentanti (provinciali, stavolta).
Il primo elettorato attivo è composto da micchi, il secondo da compari.

13 dicembre 2019

Note invernali


Roma, 12 dicembre 2019

Ignorare il tifo, i partiti, le prese di posizioni consunte e consolidate equivale a orizzontarsi in un bosco, di notte. Non è facile, se manca la luce della luna. Ci ho provato, alcune volte; il corpo reagisce dapprima goffamente, a cercare riferimenti non più esistenti; quindi l’occhio si abitua, anche nel fitto delle tenebre, il piede prende confidenza col terreno, si conforma agli ostacoli, le braccia si mutano in tentacoli sensorii; l’orecchio capta sonorità dapprima insondabili. Certo, c’è da vincere la paura. Lo sfiorare d’un ala sconosciuta o lo smuovere delle frasche atterriscono; una sorgente d’acqua, e le sue cascatelle, nel buio, il fragore che ingigantisce nella testa, possono addirittura gettare nel panico più abietto. Perché questo è: panico, come se la Natura volesse possederci e perderci definitivamente, in Sé. Eppure occorre tener duro, a costo di appiattirci al terreno e restare lì, immobili. No, non è facile; il conformismo è una droga potente; il sentiero stabilito dal potere invita a proseguire, sempre: perché inoltrarsi nel bosco?

Siamo talmente assuefatti a prendere posizione all’ombra di tali mascherine - la destra la sinistra la libertà il progresso la reazione - da nemmeno immaginare un mondo deciso da noi stessi, in cui le biforcazioni, i sentieri più sicuri e i pericoli vengono individuati da cippi e segni escogitati dall’esperienza della vita e del passato, senza il comodo di tali meschinità.

06 dicembre 2019

Quante stupide galline che si azzuffano per niente

 

Roma, 6 dicembre 2019

A Parigi c’è lo sciopero generale.
Incendi, tumulti. Presso la Senna? Smoke on the water.
Sembra un indizio preciso di sollevazione popolare, eppure non lo è.
Tutto appare anacronistico.
La parola “sciopero” è la più datata di tutte, fuori sincrono, risibile.
Si sciopera astenendosi dal lavoro. Ma, poiché il lavoro è sempre più residuale, lo sciopero, inevitabilmente, appartiene sempre meno al corpo sociale. Senza tener conto che la maggior parte dei lavoratori, che diverranno una minoranza, non scioperano di sicuro. O perché lo ritengono inutile, o perché non gliene frega nulla o perché non possono permetterselo, per vari motivi. Chi sciopera, già oggi, è una  minoranza nella minoranza, hai voglia a spaccare qualche vetrinetta.

03 dicembre 2019

Belle Époque


Roma, 3 dicembre 2019

Mi è capitato di assistere a una retrospettiva dei fratelli Lumière.
I signori Lumière, distillando il lavoro dei decenni precedenti, sgomentarono le platee parigine alla fine del 1895 (28 dicembre) proiettando, nel Salon Indien du Gran Café de Paris, L’uscita degli operai dalle Officine Lumière e il fatidico Arrivo del treno alla stazione de La Ciotat.
Da quella data ogni fotografo, curioso o artista anela la cinepresa.
Centinaia di operatori, più o meno improvvisati, si sguinzagliano per il mondo, ormai ridotto a sgabuzzino dell’essere umano, piazzando i nuovi occhi a registrare il quotidiano.
Mosca, Roma, Vancouver, New York saltano dalla realtà all’immagine divenendo fruizione: per il pubblico sempre meno scelto: alla fin fine per il mondo tout court.

Già nel 1896 abbiamo una vasta scelta di immagini. I Francesi conoscono in diretta le capitali d’Europa, gli Americani i sobborghi londinesi, i Canadesi il Ponte Ripetta a Roma; l’Occidente si fa stretto, l’Atlantico si prosciuga, l’Europa si rimpiccolisce a vista d’occhio. Decadono la meraviglia e l’arte, subentra la cronaca minuta.

26 novembre 2019

Pausa caffè



Roma, 26 novembre 2019

Sarà più facile di quanto si pensi. Abituarsi alla monarchia degli sfaccendati e dei pezzenti che si credono benestanti. Sarà ancor più facile che fare il callo papillare al gusto degli insetti tostati e delle alghe liofilizzate.
Voglia di lavorare saltami addosso. Sì, vi è la costante, pervicace, inaffondabile, idea che il lavoro più non renda. A che pro lavorare? E allora, pian piano, ci si sprofonda nel miele accumulato da madri padri e nonni, quegli orsi selvatici; e si succhia, lentamente, con un occhio, atterrito, a imposte e balzelli e cedole condominiali, e l’altro, speranzoso, alle mirabilie della tecnica finanziaria che promette, caschi il mondo, cospicui interessi; sotto forma di paghetta digitale; ogni tre mesi, direttamente sul conto in banca: ventotto euri, quattordici euri, ventisette euri: a rimpinguare le scorte dei sommenzionati orsi.

No, non si ha più voglia di lavorare. È un complotto? In effetti, a compulsare le orge statistiche, pare proprio un complotto più che un trend. Lavorare equivale innanzitutto a essere qualcosa. Il lavoro identifica. Il lavoro, poi, specie quello artigianale o altamente professionistico, immette in una considerazione di sé stessi più alta: il restauratore, il geometra, il falegname, l’avvocato, il ragioniere: ecco le corporazioni. La corporazione è, come la si consideri, un’entità sovraindividuale, appena al di sopra della famiglia; e al di sotto della Patria: entità che spiacciono ai dissolutori.