29 marzo 2018

Elementi di critica protozoica


Roma, 29 marzo 2018

Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, Einaudi, 1977.
Dalla premessa a una edizione digitale del libro estraggo:
Apro una pagina a caso - davvero lo faccio in questo momento - e casco sul capitolo quinto ‘Mens sana in corpore perverso’; il paragrafo 1 si intitola Il ‘non-desiderio’ e la negazione. I desideri coati; basta, è un esempio di un linguaggio che nel far reagire saperi disparati, nel piacere dell’ 'inversione', del calambour, crea, e crea contestazione. Come se quel gusto tipico della checca di tutti i tempi di rovesciare il linguaggio, di appropriarsi di un mondo fantastico (divenendone la regina, insieme a tutte le altre), di inventare un mondo diverso, di vivere finalmente, fosse giunto a un grado di consapevolezza, RIVOLUZIONARIA questa volta”.

Giusto per annusare alcuni afrori.
Ed ecco Mieli:

Ho messo a confronto col mio punto di vista, maturato e ringiovanito nell’ambito del movimento gay, molti dei luoghi comuni antiomosessuali diffusissimi e alcune delle più note teorie psicoanalitiche inerenti all’omosessualità. L’ho fatto perché ritengo ancora opportuno contrapporre, anche in 'sede teorica', i pareri di noi gay a quelli tradizionali degli etero, i quali di solito condividono - più o meno volentieri o più o meno consapevolmente - i (pre)giudizi di certa canaglia reazionaria, di tutti quei medici, psicologi, sociologi, magistrati, politici, preti ecc. che spacciano per verità sulla questione omosessuale le più grossolane - o, rarissimamente, sottili - menzogne. Noi, che non ci identifichiamo con la loro ‘Scienza’, facciamo riferimento a una gaia scienza”.
Siamo nell’ordinario piagnisteo. Mieli, però, va subito al sodo:

… quello omosessuale sarà un problema riguardante tutti, dal momento che il desiderio gay è presente in ogni essere umano, è congenito, anche se attualmente, nella maggior parte dei casi, viene rimosso o quasi-rimosso”.

Poi ammette:

I movimenti gay contemporanei sono sorti nei paesi in cui il capitale è pervenuto alla fase del proprio dominio reale

La fase trionfale del capitalismo coincide col trionfo dell’omosessualismo tanto che “[il] nuovo movimento gay [risorge] come Gay Liberation Front negli Usa nel 1969”. 

Coincidenze significative. La rivelazione, vera, segue poco dopo:

La psicoanalisi perviene alla constatazione del polimorfismo ‘perverso’ infantile e riconosce la presenza in chiunque di una disposizione erotica rivolta verso le persone dello stesso sesso. Secondo Freud, il bambino è 'costituzionalmente qualificato' al polimorfismo ‘perverso’: tutte le cosiddette ‘perversioni’ fanno parte della sessualità infantile (sadismo, masochismo, coprofilia, esibizionismo, voyeurismo, omosessualità ecc.)”.

a cui fa da corredo la capitale citazione freudiana:

La disposizione alle perversioni è l’universale disposizione originaria della pulsione sessuale umana, dalla quale si sviluppa il comportamento sessuale normale in seguito a mutamenti organici e a inibizioni nel processo di maturazione”.

Il bambino, insomma, è naturaliter perverso e polimorfo. Un neonato che si agita nella culla, secondo Mieli e Freud, desidera naturalmente, quale plasmabile grumo di fango, sfruttando la propria indifferenza sessuale fisica, giacere con adulti animali e cose in un naturale tripudio di penetrazioni lappamenti escrezioni. Solo il maledetto sviluppo fisico (quei membri quelle vagine) e l’educazione (una mera costruzione umana, ovviamente repressiva) sviano un così perfetto androgino fisico psicologico dalla gioiosa verità primigenia. Uno stato edenico rovinato  dai bacchettoni. Adama ed Evo, pansessuali, se la spassavano, poi arrivò il Gran Barbogio, capitalista e fallocrate, con l’uzzolo della società e del lavoro.

La maggior parte degli psicoanalisti riconosce manifestazioni sessuali già nei primissimi mesi e nei primi anni di vita ed elenca tappe evolutive di tendenze più o meno coscienti che si possono riassumere nello schema: autoerotismo-omosessualità-eterosessualità”.

Arrestare la differenziazione dei caratteri primari maschili e femminili (magari intervenendo chimicamente o geneticamente: oggi lo si può fare) e annientando l’educazione classica (definita, con un simpatico neologismo, educastrazione): questa l’utopia. A un genere oltreumano di tal fatta arriderà, quindi, compiuta, la felicità. Siamo qui in presenza di un dionisismo originario, assoluto, una volontà di perdersi e di auto annientarsi nell’apeiron dell’infinità possibilità: garantita da ciò che, oggi, con le lenti ingannevoli dell’educastrazione, viene considerata perversione.
L’orgia, in tal senso, è l’unica istituzione invocata da Mieli. O il sabba. Tutto il resto è un impaccio o nemico. E ciò che è nemico è la definizione, la solarità, la civiltà, la rinuncia al magma in nome della legge, del dovere, della disciplina: ciò che consente l’etica, l’arte e lo sviluppo dell’anima. Al nemico si son dati tanti nomi: patriarcato, fascismo, fallocrazia, militarismo, nazionalismo et cetera. Sotto tale uragano di parole si cela un programma d’esilissima concezione seppur grandioso nella sua attuazione.
Io l’ho sempre chiamato il mondo al contrario. Poiché amo Philip K. Dick ho coniato il neologismo UDW (Upside Down World): le rivoluzioni, quelle vere, vantano un impianto elementare (il programma neocon, concepito a fine anni Novanta e ancor oggi operante, constava di poche paginette): solo i loro effetti appaiono immani.
Al Cristianesimo o all'Islam è preferibile il buddismo, pratica senza dei, tarda, rinunciataria, fatalista, dove l’increspatura arrogante dell’uomo è destinata a perdersi come nei mandala di sabbia che significano la futilità.
Al mondo muliebre il sabba femminino, col bacio al culo del demonio, la Bonino che strappa neonati dalle trippe delle liberate per gettarli nel calderone della libertà totale.
Alla disciplina l’anarchia (via il servizio militare, via la scuola, via il paziente apprendistato della bottega per il manufatto anonimo e seriale, via ogni gerarchia che configuri una comunità).
Al simbolismo figurativo l’astrattismo o l’iperrealismo dissacratorio o il commercio pop.
Alla famiglia i falansteri da discoteca.
Al paradiso promesso dopo l’espiazione il godi finché puoi e vuoi.
Riconosceremo, in tale esigui lumeggiamenti, una filosofia della dissoluzione, ricca di una propria tradizione carsica (delineata da Giorgio Galli in Occidente misterioso), fatta propria, con uno scatto di reni propagandistico e tecnocratico, dalla controcultura dei Sessanta e poi dal generone turbo capitalista liberale e libertario.

Ma [l’]'evoluzione' [autoerotismo-omosessualità-eterossessualità] non è naturale: essa riflette l’influenza repressiva dell’ambiente socio-familiare sul bambino … io chiamerò transessualità la disposizione erotica polimorfa e «indifferenziata» infantile, che la società reprime e che, nella vita adulta, ogni essere umano reca in sé allo stato di latenza oppure confinata negli abissi dell’inconscio sotto il giogo della rimozione”. 

Mieli ha il pregio della chiarezza e della concisione.
Egli anela al protozoo.
E il brodo primordiale ad affascinarlo.
Sull’orlo dell’abisso sente il richiamo più irresistibile. E si getta voluttuoso.
Nuotare in quell’oceano dove non arrivano i comandamenti del fallo (ben altro è il pene, come ammetterà in altro luogo dell’opera) sarà meraviglioso; sciogliersi nel tutto; misticismo protozoico; indiarsi plotinianamente in ciò che mai trattiene.
In luogo di ammoniaca, polimeri, ossigeno, azoto e anidride carbonica, la calda poltiglia s’identifica, infatti, con la possibilità infinita, scevra di qualsivoglia costruzione morale o etica; nello sciaguattìo originario si può essere tutto: omosessuali, eterosessuali, androgini, zoofili, coprofagi, pedofili, interraziali, incestuosi, assassini, sadomasochisti e cultori dell’innesto inorganico: il programma “A New Mankind for a New Century” è qui riassunto con accecante semplicità.
In tali brevi righe, sostanziate dai maestri riconosciuti della dissoluzione, si ha il primo postulato del Nuovo Ordine, ribattezzato PolCor da qualche buontempone.
Da sole quattro righe possiamo inferire il resto del libro che, con caparbia tenacia e insolita coerenza, riecheggia e definisce (sic!) tale intuizione: la storia della civiltà è storia della repressione sessuale. Ciò che si credeva progresso è, per Mieli, regresso; dobbiamo, perciò, regredire e devolvere storicamente per poterci davvero evolvere e progredire in armonia con la natura; nella piena consapevolezza di ciò che si è; nella gioia della Gaia Scienza.
Da tali considerazioni ne derivano altre, inoppugnabili:

1. Mario Mieli non era comunista. Il comunismo vien qui sfruttato (più o meno consciamente) quale fenomeno storico contingente: crollato quello, infatti, si è passati al suo opposto: il turbo capitalismo. Si spiega in tal modo l’attrazione di tanti sinistrati (devoti alla Stimmung del Mieli pensiero più che alla centralità sovversiva d’esso) per Washington; dopo aver elevato peana per Mosca, Pechino, Ulan Bator e L’Avana. A ben vedere Mieli non è neppure di sinistra, ma solo l’araldo dell’Ultimo Credo Possibile.

2. Mario Mieli non era omosessuale. Come i sinistrati anche i gay sono individui alla moda. Si limitano a leccare la Nutella di alcune affermazioni. L’arroganza che deriva dal loro surf sull’onda del conformismo imperialista (oggi dominante) li esime da ogni confronto con personalità intelligenti (che, nel fronte opposto, peraltro, latitano: almeno qui da noi). No, il povero Mario amava i maschi, ma, allo stesso modo, come Dioniso, poteva amare un ramo di fico, vestirsi da donna, partecipare a riti iniziatici e alchemici con sacrifici immondi, bere sangue, mangiare merda. Se lo fu, omosessuale, e ne dubito, mancando egli del pathos dell’omoerotia tradizionale, ricca di ruvidezze ben più virili dell’eterosessualità, visse tale inversione incidentalmente, nel quadro di una più vasta e spaventevole perdizione.
In lui era potente l’Indifferenziato, senza remore o divieti; ambiva, sempre e comunque, l’acte gratuit. Dilaniarsi all’infinito, brandelli di Sé nella libertà assoluta. Ci si comprende? Si intuisce il gigantesco programma? La soppressione definitiva dell’umanità presagita e preparata da secoli di lavori sotterranei? Guardatevi addietro. Cosa sono questi ratti, le talpe della morale, i tarli del buonsenso? In ogni campo. Deformazioni, inversioni, distruzioni di senso. Per questo prendo d’acido quando mi si parla di cambiamento per un presidente del consiglio “nuovo” … o di politica monetaria “nuova” … sono tutte cianfrusaglie, minuterie, pinzellacchere.

3. Mieli era ebreo, certamente. Dal genio del suo popolo derivava la concezione inestirpabile del mondo al contrario, come spiegato nell’omonimo post (Il mondo al contrario). Gli Ebrei volevano vivere, come nel film di Lubitsch, e, per ottenere la sopravvivenza, inventarono un mondo fittizio in cui gettare i propri nemici. E funzionò. Millenni di storia e letture al lume di candela non si tradiscono dall’oggi al domani. Riconosciamo all’ebraismo tale sublime tendenza alla commedia. Ogni tradizione è una volontà di potenza. Rinunciarvi o rimanervi fedeli denota la salute di una cultura. L’Europa vi rinuncia: le macerie sono fra noi. Les décombres.

4. Mieli e l’Italia. Nel libro tale nome (Italia) ricorre solo quale individuazione geografica o per meglio disprezzare. Giusto. Egli non era italiano. Apparteneva a un generico cosmopolitismo nichilista. Credeva d’essere tutto (buono, ecumenico, comunista, rivoluzionario, orgoglioso), ma, al fondo delle cose, non era nulla. Una solitudine diabolica, equivocata quale libertà, lo attendeva nei recessi del quotidiano, pronto ad avvinghiarlo come una teratologia proteiforme di Lovecraft. E così fu.

5. Palese la sterilità dell’atto rivoluzionario di Mario Mieli. Sterile non certo per l’eventuale vittoria delle sue posizioni. Egli ha vinto, finora. Il libro è una celebrata tessera del mosaico della propaganda trionfante. Finora. La sterilità, la piattezza, la petulanza sciocca, l’arroganza del vittimismo (condensata nell'iconico culturista San Sebastiano) celano altre gravi patologie. Mieli (e i suoi figliocci, tutti, uno dietro l’altro, in fila) mai evocano il nome principe della lingua materna, Italia, con amore o rallegrato affetto. Allo stesso modo egli preterisce i frutti e le arborescenze immani della nostra cultura. Mai (e dico mai) ho ascoltato un sessantottino discorrere de le superne cose dell’etternal gloria: che noi vantiamo; in quanto italiani; noi, l’Italia. Mai. La pagina culturale de Il Manifesto è un preclare esempio di ciò.
La mancanza di senso storico; anzi: l’incapacità a commuoversi di fronte a tali mirabili concrezioni dell’animo italiano e, in quanto italiano, universale: questo è il più chiaro indizio di possessione nichilista.

6. Alcune figure sorgono d'improvviso, senza alcun motivo. Esaurito il loro compito svaniscono nella mediocrità. A girarsi indietro ci si sorprende della canea suscitata. "Perché?", si chiede lo sprovveduto.

7. Per Mieli civiltà e sol dell'avvenire risiedono nella rimozione dell’Indifferenziato. Quel "rimosso" equivale alla luce del progresso. Sono d’accordo con lui. L’Indifferenziato, il rimosso, è con noi, sempre, nel paleoncefalo. Incatenare il primo demone: tale è, in effetti, la storia dell’Occidente e dell’umanità tutta. 
Traggo da tale analisi, tuttavia, auspici irremovibilmente contrari.

Per me la finzione e la menzogna che rimuovono tale mostro sono la solarità. Esorcizzare ciò che sobbolle nell’oscurità.
Ma cos'è menzogna e, quindi, argine?
Tempo fa rinvenni, nei miei campi, un muro di contenimento di tarda epoca medioevale. Apparteneva, probabilmente, a un convento benedettino. Una pietra, una sola pietra di quel muro, sbozzata rudemente: ecco l’argine. Quanto ha dovuto penare l’umanità per arrivare a quella pietra? Meditiamola in silenzio, senza arroganze. Quante menzogne giuste e desiderabili, quale sforzo di definizione e fede si è dovuto esercitare per far sì che un artigiano sentisse il bisogno di prendere lo scalpello e lì porre questo esiguo terrapieno contro la dissoluzione? Era in quell’uomo, probabilmente un benedettino o un secolare dipendente da Farfa, latente l’Indifferenziato? Sì, certo, ma quello sconosciuto deteneva le difese giuste. Viveva. Costruiva, teneva lontane le bestie, credeva, allontanava, giudicava, predicava, bestemmiava. Il mondo contenuto in quell’atto ci parla di un perentorio “non serviam” contro la disfatta che circonda la breve vicenda umana. Quanto dolore, speranza, abnegazione, iniquità, morte e sangue sono serviti onde distillare questa pietra? Quale l’immane fardello dell’essere umano per rendere accettabili i suoi passi sulla terra? Per solidificare un senso? Un qualsiasi senso!
Léon Bloy disse che l’intera storia dell’umanità convergeva in una strozzatura metafisica inevitabile: la nascita di un albero e la concrezione di materiali ferrosi: il primo servì a sbozzare la Croce, il secondo a temperare i chiodi del Golgota. Cicerone, Alessandro Magno, Nefertiti, Gilgamesh e milioni di uomini e sconfitte e stragi e costruzione celesti rilevano solo quali servitori materiali e inconsapevoli del sacrificio di Cristo.
Allo stesso modo si concepì quella pietra. Ogni cosa, in realtà, persino la più idiota, è stata concepita per rimuovere l’Indifferenziato e consentire la vita. E quanto è costata! Senza tali menzogne, di cui rivendico la bellezza e di cui sono custode indegno, il nostro per-durare non ha senso.
L’omosessualità di Mario Mieli è solo un ghiribizzo. Egli deriva l’orgoglio gay, una sciocchezzuola paludata negli abiti rosa del comunismo rivoluzionario morente, da una scaturigine ben più infernale: devastante. Da un mondo che imporrà il nulla perché nulla è, massima entropia morale e psicologica. In luogo della liberazione si avrà il suicidio di massa.
Che il povero Mario Mieli, questo Dioniso da operetta, si sia ammazzato è inevitabile.
Fra il gelo delle cime la vita degli uomini è difficile sino allo stremo; a tali bassezze impossibile.
Così come si è ammazzato Marco Prato, il seviziatore del Collatino. Nessuno può vivere nel paradiso evocato da Mieli. Un paradiso al contrario, ovvio. Un’utopia che provoca i brividi della trasgressione sol perché è vivo l’Antico Ordine. Quando verrà meno tale dialettica ingannatrice si raggiungerà l’entropia massima: l’umanità stazionaria. Nessuno saprà se ridere o piangere poiché avrà disimparato tali atti. Le polle della disperazione e della felicità, osmotiche, saranno, peraltro, essiccate. Si annegherà in sé stessi (cfr. Annegare nella libertà), nell’ebetudine, fermi, impotenti, privi di riferimenti, eguali gli uni agli altri in un folle pervertimento di falsa eguaglianza; i liquidi amniotici del nichilismo allagheranno i cuori rendendo indifferenti piaceri e scelte. Quale libertà se tutto è permesso? Il declino delle arti e del fare sarà completo. Come nell’operetta (morale) di Giacomo Leopardi un folletto potrà dire:

Gli uomini son tutti morti e la razza è perduta … ora che sono tutti spariti la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non son stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi … il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo”.

A whimper. Ecco perché insisto: torniamo italiani. Torniamo indietro. Qualche attraversamento ancora resiste. I difetti dell’italiano nacquero per difendere gli italiani. Sono formazioni millenarie. Persino i peccati più triviali sono difese contro il nulla. Per tali motivi (ancora!) venero il passato sin nelle più minute e trascurabili manifestazioni.

Ho acquistato da poco tempo il Canzoniere armeno, opera del trovatore Sayat-Nova (1712-1795). Sayat-Nova conosceva quattro lingue: l’armeno, sua lingua materna; il georgiano, il turco dell’Azerbaigian e il russo. Gli dedicò un film, omonimo e impervio, Sergej Paradžanov; pellicola nota come Il colore del melograno.
Apro a caso il libro e cerco rime già note.
Leggiamo:

Vestita di raso ricco di ricami d’oro fino, flessuoso ramo di cipresso,
hai una tazza nella tua mano, colmala, dammela, a quella coppa m’immolo.
Fai pure a pezzi il tuo Sayat-Nova, purché tu venga nel mio giardino.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni
”.


Tali parole, apparentemente estranee, mi ha ricordano una ragazza che amai, invano, in una perduta reincarnazione di me stesso.
A commuovermi, però, non è solo la nostalgia personale: per voi, giustamente, irrilevante e patetica.
Sono alcune parole: oro fino, cipresso, coppa. Le identiche parole, persino i giri metaforici, li si ritrova nella poesia italiana delle origini, nei provenzali o in alcuni canzonieri centroasiatici e persino di lingua indiana.
Più che parole sono le scaglie metalliche di una lorica che dovremo reindossare se non vogliamo morire.
Antiche, consunte, levigate, irrefutabili. 
Ha giustamente notato Antonia Arslan come ogni singolo componimento di Sayat-Nova sia il castone di una trama d'oreficeria priva di cesure melodiche o d'ispirazione.
Ognuna si congiunge all’altra in un mosaico continuo che riflette bagliori mai sopiti. Mille individuano un uomo. Ma ogni uomo forma un esercito accecante.

Lo speculatore edilizio Marco Licinio Crasso fu annientato dalla cavalleria catafratta dei Parti nel 55 a. C. 
La sua vicenda è quella d'un altero arricchito. Non segue i consigli del re armeno Artavasde e decide di attaccare i Parti entrando nella Mesopotamia. Non tien conto nemmeno dei consigli di Cassio Longino, suo luogotenente e futuro cesaricida: sì, proprio lui, Cassio, lo sparuto, inquieto e febbrile Cassio del Giulio Cesare di Shakespeare.
Crasso persegue negli errori: fa bruciare un ponte, si fa beffe dei presagi.
Presso la guarnigione di Carre cade, infine, nella trappola partica. I fanti sono lentamente falcidiati dalle saette degli arcieri a cavallo, in un continuo gioco di attacco e fuga. I Romani vengono letteralmente inchiodati: le frecce trapassano braccia, cosce, piedi infiggendosi al terreno; le truppe si sbandano. La disperata sortita si rivela disastrosa; l'esercito, infatti, si sfilaccia negli inseguimenti; eccolo inerme di fronte alle incursioni della cavalleria catafratta le cui picche, agganciate al cavallo, sono in grado di trapassare due o più uomini come in una fantastica incisione del Doré, più veritiera dell'irreale.
A nulla vale l'audacia delle milizie galliche. Testimonia Plutarco nelle vite parallele di Nicia e Crasso:

"Dardi alati precedevano la ... apparizione [dei Parti], e prima che si vedesse il lanciatore avevano trapassato il bersaglio; le armi dei catafratti, poi, erano fatte le une in modo tale da penetrare attraverso qualsiasi oggetto, mentre le altre non cedevano a nulla ... Tutto a un tratto ... apparvero ... sfolgoranti negli elmi e nelle corazze, perché acuto e chiaro splendeva all'intorno il ferro della Margiana. Anche i cavalli erano avviluppati in gualdrappe di bronzo o di ferro. Più alto e più bello di tutti, il Surena, sebbene la femminilità della sua bellezza non si confacesse alla fama di valoroso, poiché alla maniera dei Medi era imbellettato in volto e con una scriminatura nei capelli, mentre gli altri Parti portano ancora, alla scitica, un ciuffo di capelli sulla fronte per incutere timore".

Crasso non può tornare indietro (il ponte verso la ritirata, da lui stesso bruciato); i feriti romani sono abbandonati e, in numero di quattromila, trucidati agevolmente. Presso una gola vengono sorprese altre quattro coorti: sopravvivono venti uomini. Gli sbandati sono abbattuti dagli Arabi come selvaggina.
Surena cattura Crasso e lo fa schernire da uno stuolo di cantatrici di Seleucia abili a intonare "canzoni composte di frasi scurrili e burlesche"; si deridono anche i gusti letterari dei Romani allorché si rinviene una copia delle Milesie di Aristide nel bagaglio di Rustio.
In una baruffa Crasso è ucciso da un tal Essatre.
La mano e la testa, mozzate, sono inviate in dono a Orosde.
Surena, non pago, "fece sparger [poi] la voce che Crasso [fosse] vivo, e organizzò una mascherata che per scherno chiamò trionfo. Prese fra i prigionieri quello che più assomigliava a Crasso ... lo vestì d'una veste regale femminile e lo ammaestrò a rispondere e a chi lo chiamasse Crasso e generalissimo".

Durante l'epoca adrianea anche l'esercito romano si dotò di una cavalleria catafratta: Ala I Gallorum  et Pannionorium cataphractata.
Vennero altri crepuscoli e nuovi scontri, vividi e perfetti.
La letteratura suggellò il declino, come sempre.

19 commenti :

  1. Scritto meraviglioso come sempre. Una domanda: ho rilevato più volte qui e spesso in altre tue riflessioni l'allusione alla "meravigliosa menzogna", concetto col quale usi riferirti alla "cultura", alle credenze tradizionali, all'"antico ordine" che, d'altra parte, esalti. Le neuroscienze hanno, con meno poesia, lo stesso approccio alle strutture mentali consolidate nei gruppi umani; poiché il creatore della pietra di cui parli "credeva", tra le altre qualità che gli attribuisci, non pensi che il nocciolo della questione sia proprio qui? Vedere o anche solo sospettare una menzogna, seppur funzionale in opposizione al nulla, non è anch'esso un sentimento nichilistico? Se l'uomo contrappone ovunque e da sempre un sistema di credenze, il "senso comune" alla minaccia del vuoto non sarà perché intuisce l'esistenza di un significato profondo della propria esistenza?

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  2. Adriano:

    Il problema risiede lì. Se scorgi la menzogna, pur vitale (e quindi "bella"), come puoi andare avanti? Lo stesso problema affliggeva Leopardi. Grazie alla redenzione estetica? Non lo so. Credo che la storia delle civiltà sia l'elaborazione continua di difese e argini contro il nulla (che,però, non è un nulla metafisico, ma, concretamente, il ritorno all'indifferenziato che abbiamo già vissuto come specie).
    Dovremmo ricreare miti. Per questo la controinformazione dovrebbe puntare sull'arte, la letteratura, il cinema in luogo delle analisi (per tacere della cronaca minuta, ormai insopportabile). Le analisi sono già state fatte: occorrono nuove illusioni.

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  3. "Per questo la controinformazione dovrebbe puntare sull'arte, la letteratura, il cinema in luogo delle analisi (per tacere della cronaca minuta, ormai insopportabile). Le analisi sono già state fatte: occorrono nuove illusioni"... Si, Alceste, sarebbe bello, solo che l'arte è morta, rimangono pochi spazi di novità e di crescita, di rielaborazioni. L'uomo è un essere finito, sono finiti i suoi mezzi fisici, non potrà saltare 4 metri in alto e 15 in lungo, come sono finiti i suoi mezzi mentali. L'uomo non è che una scimmia appena più strutturata. Non ci saranno infinite opere mirabili, pittori migliori di Leonardo, poeti migliori di Dante, scultori migliori di Michelangelo. Non ci saranno nuove illusioni. Scienze, religioni, ideologie, filosofie, arti, sono limitate come acquari e terrari, si potranno uguagliare le punizioni di Maradona o i tiri di Michael Jordan o la guida di Ayrton Senna ma non si potrà mai fare "troppo" di meglio, così in qualsiasi altro campo delle scibile. Solo la bellezza potrà salvare il mondo. Essa è una sorta di messaggio immanente, un faro, un inafferrabile concetto afferrabile da tutti, essa è il giusto, la via!

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  4. Forse è così. Solo la guerra potrebbe rimettere in circolo alcuni umori, rinverdire i sentimenti. Dobbiamo augurarci il peggio o marcire. Spiace dirlo, ma è così. Basti vedere una scolaresca all'opera per rendersi conto del disastro.

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  5. I filosofi, morti in cammino verso il nulla proteiforme, non sono mai stati all'altezza di quella ciotola di riso che sostenne il giovane Gautama strappatosi, senza voglia, dal suo perfetto nirvana. Il dado l'hai tratto da un pezzo, mio caro Alceste, caro come un ermo colle, dissolvendoti nel sangue dei poeti scellerati a causa della loro lucidità nel rinominare il mondo dell'afflizione o della gioia, quella valle di lacrime non ancora redenta, quel fiume impetuoso che solo Un bateau ivre può solcare sferzato dal vento di una prosodia impossibile.

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  6. Ma anche per andare in guerra devi "credere", tutte le guerre in questo senso sono crociate, devono far leva su idee forti e condivise. Nel Vangelo le parole "credere" e "fede" ricorrono più della parola Dio.

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  7. Le guerre si possono anche subire. Lo so, è da pazzi dirlo, ma una guerra dura, e le privazioni che ne conseguono, rimetterebbe in gioco le vere esistenze dell'italiano. La semplificazione di sentimenti, l'altruismo, la riscoperta di terreno comune, l'arte d'arrangiarsi ... ecco perché vogliono non l'eliminazione dell'umanità attraverso i conflitti sebbene la sua zombificazione sino alla stazionarietà.

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  8. Ho capito cosa intendi...Mia nonna mi diceva quando la facevo arrabbiare: "te ghe volessi la guerra"

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  9. L'elogio della guerra è stupido e, soprattutto nel 2018, e lo si confonde con una cultura bellica, positiva se attuata in tutti i campi delle società. Anche io però quando sento le parole gay e rivoluzionario nella stessa frase cerco la 7,65!

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  10. Per questo, stimato Alceste, tante persone si rifugiano bella pratica di una arte marziale e di quella disciplina contemplativa cui lá stessa puo' accompagnarsi. Ti garantisco per esperienza personale che immergersi in una attivita' del genere, laddove dentro ad un ring, tatame etc... Ti ritrovi occhi negli occhi col tuo compagno\avversario, può, per mezzo di un misto tra allegoria e combattimento reale, donarti quella visione, quella consapevolezza che, altrimenti solo una bella guerra guerreggiata potrebbe fornire oggi.

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    1. Giusto. Una disciplina è indispensabile, una definizione, un argine.

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    2. Grazie. E, comunque, riflettendo su questi temi, mi ritrovo spesso a leggere il tuo fantastico post del settembre scorso intitolato " I diecimila" e mi convincono sempre più che per far parte di quei diecimila non sia necessario trovare un condottiero, riunirsi e nemmeno conoscersi ma sia essenziale farne parte. Ciascuno la propria.

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  11. E poi a ben vedere in guerra ci siamo già, solo che nessuno se ne accorge, eccetto forse chi prova ad andare avanti, in territori ignoti e sotto controllo nemico, le cosiddette Avanguardie, ecco il nostro ruolo nella società, il nostro scopo di vita, la ragione per andare avanti e continuare a combattere, ognuno con le armi comuni verso l'obiettivo comune, ma queste cose le sapete già.

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  12. Se può essere gradito e utile allo scopo comune, ho del materiale da me redatto, ma non voglio dar fastidio o imporre alcunché a così nobili Italiani, senza ironia, sia chiaro!

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  13. Per fortuna che esiste Alceste, perché se dovessimo star dietro ai "controinformatori" impegnati a spaccare il cappello in quattro ci sarebbe da piangere, come se l'avvenimento dell'ultimo minuto possa cambiare qualcosa nelle nostre vite. Piuttosto, è interessante analizzare piccoli episodi di vita quotidiana: oggi per esempio al pranzo di Pasquetta ho ascoltato una ragazza di 15 anni che, parlando con la madre, si lamentava di come molte donne o ragazze fossero "materialiste" e cercassero l'uomo bello e ricco. Poi, dopo questo discorso scialbo e conformista da rivoluzionaria da baci Perugina, ha aggiunto: che poi magari è stupido, maschilista e razzista. Ora, gli ultimi due termini nella testa della ragazzina cosa significheranno? Razzista è chi ritiene che esistano le etnie? Maschilista è chi ritiene che l'uomo e la donna debbano mantenere ruoli distinti e complementari? Chi non si adegua al regime PolCor è considerato alla stregua di uno scimpanzé (non di un bonobo: quello è più evoluto perché masturba i simili del suo stesso sesso). Il "mostro" è sempre il conservatore, forse la ragazza voleva aggiungere "fascio-leghista" ai suoi improperi, ma il termine non fa ancora parte del suo vocabolario. Piccoli utili idioti crescono, educati da malati di mente a inneggiare ad "un futuro senza alcun rimedio, una specie di massa senza più l'individuo".

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  14. Stefanov:

    Ormai la neolingua è entrata nella letteratura quotidiana divenendo senso comune.
    Occorrerebbe la legge marziale nelle scuole di ogni ordine e grado: impegnati a non farsi bocciare dalla prima elementare in poi magari smetterebbero con tali fregnacce.

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  15. Mieli incolpava la società capitalista dell'oppressione che subivano i poveri omosessuali. In realtà il pastrocchio gender può essere attivato solo in un'epoca di capitalismo avanzato. Il consumatore deve essere indifferenziato, ma in linea di massima femminilizzato. Deve smaniare per progredire e conservare allo stesso tempo. Un apparato digerente ambulante con una vagina che aspira tutto, alla ricerca del fallo perduto che desidera e disprezza allo stesso tempo.

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    1. Solo il capitalismo ha permesso questo, Mieli ne è una delle punte ideologiche più avanzate.

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Siate gentili ...