Pubblicato il 7 novembre 2013
"Insomma" disse Mustafà Mond "voi reclamate il diritto d’essere infelice".
Aldous Huxley, Il mondo nuovo
Noi di Zamjatin è una distopia, ovvero una visione negativa del futuro. Più o meno prossimo.
Le distopie valgono, quasi sempre, per la loro portata metaforica, da riferirsi a un attuale e specifico ambito politico e sociale che diviene così oggetto di riprovazione o satira o denuncia civile. L'Utopia di Tommaso Moro sembra parlare d’altro, ma, probabilmente, si riferisce alle condizioni dell'Inghilterra contemporanea all'autore; anche Swift opera in tal senso ne I viaggi di Gulliver; Rabelais allude alla Francia cinquecentesca; Sinclair Lewis alle degenerazioni fasciste in terra americana; Jack London, ne Il tallone di ferro, alle distorsioni dello sviluppo capitalista; Zamjatin e Orwell (suo discepolo) mettono, invece, in guardia dalla devoluzione dell’ideologia socialista, nata per liberare i cuori e le menti e le braccia del proletariato, e finita per indurirsi in uno stato assassino e occhiuto, che esige il consenso totale al fine della propria pura autoconservazione.
Zamjatin partecipò degli ideali della Rivoluzione Russa del 1917, ma, nel 1921, appena quattro anni dopo l'assalto al Palazzo d'Inverno, già concretizzava il proprio disinganno e la propria delusione in Noi.
La chiave di lettura anticomunista (contro uno Stato assolutista che reprime ogni moto personale dello spirito) del romanzo di Zamjatin è non solo legittima, ma quasi doverosa.
E qual è la società descritta da Zamjatin?
Un mondo perfettamente matematizzato, dove vige l’uguaglianza altrettanto perfetta e il singolo (a cominciare dal protagonista, D-503) ha rinunciato al proprio libero arbitrio e alla scelta per inscriversi in un quotidiano dove tutto è pianificato e senza ombre: il lavoro, la sessualità, il sonno e la veglia, i pensieri, la festa, gli svaghi sono programmati dallo Stato Unico sotto lo sguardo implacabile del Benefattore ed esposti, senza mistero, alla visione di tutti (“Tutto era di una chiarezza che atterriva”). Le case sono di vetro, le celebrazioni pubbliche, le passioni uniformate come gli abiti, la Natura irreggimentata dalla tecnica. Persino i tratti somatici dei singoli tendono a farsi simili in un anelito spaventoso di uguaglianza coatta: la liberazione consiste nell’assenza di libertà e, quindi, di iniziativa e responsabilità. Risolversi in una struttura superiore che diriga e pensi in nostra vece: un sollievo che chiunque abbia militato in una organizzazione (para)militare ha provato, almeno una volta, nella vita.
Tuttavia questa interpretazione (legittima, come detto) non esaurisce la complessità del testo.
Si intravedono, per noi lettori scaltriti da novant’anni di storia ulteriore, due inciampi.
Il primo non è ascrivibile all'autore, ma, appunto, alle mutate condizioni sociali e politiche intervenute dal 1921 in poi.
Il secondo, invece, nasce dalle considerazioni finali di Zamjatin stesso: è una nuova chiave di lettura, da lui stesso autorizzata.
Veniamo al primo inciampo.
È semplice: la società temuta da Zamjatin non è più, oggi, anno Domini 2013, la Russia dei Soviet, ma l'Occidente stesso. Anzi, a dirla tutta, leggendo il diario del protagonista D-503, ci rendiamo conto di come le pagine d’esso si prestino sorprendentemente a descrivere proprio l'Occidente attuale e postmoderno. Come i personaggi di Noi viviamo ormai in case di vetro: i social network che squadernano al mondo intero le nostre ansie private; le invasive pratiche di catalogazione del cittadino ad opera dei servizi segreti; l'autismo di massa che ha derubricato l'amore e le manifestazioni più accese del sentimento a rapporti formalistici definiti dai bisogni pubblicitari; l'odio che nutriamo verso le società tradizionali, ancora vive e umane, e di cui temiamo la spontaneità; la guerra spietata al passato, portatore di quelle istanze; la volontà di distruzione portata contro le terre del passato (Iraq, Afghanistan, Iran, Siria, Grecia, Italia) che, proprio in virtù della profondità della tradizione, stentano a conformarsi al livellamento democratico. Non è forse l’attuale democrazia che ciancia di libertà, e usa questa parola, Libertà, per spazzare via il diverso, l’ottuso resistente, una visione nichilista e conformista pari allo Stato Unico e Totalitario di Zamjatin e Orwell? Non è l’Occidente, oramai, asociale, spersonalizzato, e psicopatico? Basti osservare il modo di portare le guerre degli ultimi decenni: in modo micidiale e impersonale, tramite droni, intercettazioni satellitari, cecchini che dispensano morte da lontano, bombardieri che bruciano la vita da diecimila metri di quota, inafferrabili come demoni del deserto; la morte da lontano, dall'alto, la strage asettica, insetticida, vengono da chi si ritiene superiore profeta d’una virtù universale e valida per tutti. Kubrick l'aveva intuito plasticamente: la sala da guerra de Il dottor Stranamore, coi suoi tavoli levigati, le tracce silenziose dei velivoli che portano le atomiche, i pacati discorsi sulle possibilità di minimizzare a poche decine di milioni di morti le conseguenze d’un conflitto mondiale, sono lo specchio della società psicopatica di Zamjatin.
E veniamo al secondo inciampo.
Il problema della felicità. Per tutto il romanzo accettiamo pacificamente, in ossequio alla concezione di distopia (che ci induce a parteggiare per Winston Smith di 1984, ad esempio), che i ribelli di Noi siano dalla parte giusta. La società così concepita - perfetta, liscia, conformista, aperta sino alla negazione della singola personalità - è necessariamente infelice; solo la differenza, l'imperfezione, il riguadagno di una certa animalità naturale, coi suoi sbalzi umorali, le sue ire, i suoi afrori, permette all'uomo la gioia. Questo pensiamo, abbastanza naturalmente, e crediamo che Zamjatin, altrettanto naturalmente, la pensi come noi.
Negli ultimi capitoli, però, i resistenti si avviano alla sconfitta. Il protagonista, D-503, quello che aveva messo a repentaglio la vita per amore della ribelle I-330, non solo abiura i comportamenti passati, ma sradica da sé, con una operazione chirurgica, ogni sentimento umano. Diviene un vegetale emozionale, senza impulsi, immemore della stessa I-330, un essere finalmente privo dell'anima vegetativa e irrazionale e disposto solo all'amore, puro ed eterno, per il Benefattore (“Sono guarito, completamente, assolutamente guarito … mi hanno estratto dalla testa una specie di spina; ho la testa leggera, sgombra”). Tutti noi (noi, e Noi) reagiamo orripilati a tale sviluppo narrativo. Ma chiediamoci: in cosa differisce la gioia dell'uomo a cui sono stati estirpati i sentimenti e le emozioni dalla gioia che nasce dall'esplosione di una passione o d'un amore, ovvero dai folli saliscendi e dagli andirivieni insensati di quella passione e di quell'amore?
Perché la felicità di un traboccante e scarmigliato canto poetico dovrebbe differire dal sorriso di D-503 ormai deprivato da ogni fluido vitale e emozionale? Biologicamente differiscono in nulla. Anzi mentre il primo tipo di felicità è fugace e sottoposto agli sbalzi della fortuna e può spegnersi per la volubilità e le bizze degli amanti, il secondo rimane fedele, costante e docile come un orgasmo continuo a bassa intensità. È dunque superiore.
Nel discorso finale del Benefattore si intravede la verità, terribile proprio perché vera: “Per che cosa gli esseri umani – fin da quando erano in fasce – hanno pregato, sognato, si sono tormentati? Perché qualcuno dicesse loro una volta per tutte cos’è la felicità e a quella felicità, poi, li allucchettasse come a una catena. Oggi come oggi, noi, cosa stiamo facendo, se non questo? Il sogno antico del Paradiso … Ripensi al Paradiso: là non si conoscono i desideri, non si conosce la compassione, non si conosce l’amore; la ci sono i beati a cui è stata rimossa la fantasia (ed è per questo che sono beati), gli angeli, i servi del Signore …”
Non parla Zamjatin la stessa lingua di Dante quando nel Paradiso (XXXI, 28-29) verga i due versi, altrettanto terribili, che il Benefattore troverebbe giusti e mirabili:
O trina luce, che 'n unica stella
scintillando a lor vista, sì li appaga!
Dante, che configura una pletora di spiriti beati (la candida Rosa) che si appagano esclusivamente di un dio assolutamente immateriale e composto di pura luce, non pensa come il Benefattore? Non concepisce una moltitudine beata di innumerevoli D-503?
E quella legione di spiriti eccelsi, dai Greci ai filosofi morali, dai grandi pensatori orientali ai poeti d’ogni latitudine, in fondo cosa deploravano se non l'anima che desidera, che vuole, che ama – l’anima fonte di mali, infelicità, tristezza, umori atrabiliari? Non desideravano tutti un Benefattore? E Guido Cavalcanti, il primo amico di Dante, non elaborò una metafisica d’amore per cui la passione era necessariamente infelicità? E cosa hanno mai vagheggiato tutte le religioni se non l’estrema liberazione dal desiderio, dal corpo, dalla carne?
Come ho già scritto (Angelina Jolie e i destini dell'umanità):
“Disciolti in una parodia di liquido amniotico, una serie puri pensieri sognano eternamente ciò che li rende eternamente felici. Non è forse questo il paradiso?”
Sotto le spoglie di una utopia negativa che satireggia la breve e irrilevante esperienza politica e sociale del comunismo (sessant'anni!), Zamjatin profetizza il decorso inevitabile dell’Occidente democratico e universale: innaturale, psicopatico, asettico, ragionevole, libero dalle ansie della carne, finalmente inumano, finalmente felice. Ecco le ultime parole di D-503:
"E io spero che vinceremo! Anzi, ne sono certo: vinceremo! Perché la ragione deve vincere!”
Da tale punto di vista la distopia del russo sublima in profezia e, poi, irresistibile, in soave utopia.