25 giugno 2020

Il prete con le scarpe da ginnastica


Roma, 25 giugno 2020

Adesso la controinformazione si è accorta della corsa alla distruzione dei simboli dell'Occidente.
Se ne accorge poiché gli eventi precipitano con una violenza iconoclasta mai vista prima. La furia in essere ricorda i perversi polimorfi per cui nulla deve frapporsi tra il sacco di carne di cui sono detentori e un supposto piacere. Le combinazioni concettuali più bislacche, le più gratuite illazioni, i giudizi più stupidamente avventati, l'arroganza che deriva da una crassa supponenza – tutto ciò si sussegue come una tempesta d'inesauribile forza che solo può placarsi con la rovina completa di noi stessi, dell'Italia, dell'Europa.

Gli attori di tale godimento dissolutorio, lo ricordiamo, non sono niente. Possiamo catalogarli come polveri da crollo. Ma il crollo fu originato da altri cedimenti strutturali, equivocati quali progresso. E pulviscolo è anche la controinformazione, purtroppo, poiché non riesce minimamente ad affrancarsi dall'attualità, dal trito fatto, essendogli negato il privilegio di un'ideologia larga e peculiare. Il distillato di una visione alta: il "saper vivere", in ultima analisi, che corrisponde a un vivere alternativo, cioè a un'etica intransigente.
Inutile, insomma, ordire traballanti requisitorie o larghi fogli excel, scientificamente probanti, se poi, la sera, si gioca a Lara Croft o si ordina da Glovo e Deliveroo per allietare la partita di calcio o di basket tarocche prenotate (con carta di debito) presso Dazn o Sky.

Ciò che mi stupisce di questi tempi è l'infrollimento generale. La mancanza assoluta di spirito di sacrificio, a esempio. Il Covid, da tal punto di vista, è stata una manna per tali ciabattoni della volontà. Ogni minimo impegno umano viene avvertito come una minaccia alla tranquillità della propria esistenza, così fittamente articolata in una serie di inderogabili scadenze. "Ho da fare", "proprio non posso", "mi piacerebbe, ma" sono le nenie più in uso da questi mollaccioni la cui unica mira, par di capire, l'unico scopo sulla terra, consiste nel passare dalla poltrona alla sedia a sdraio: a ristorare chissà quali forze dato che la loro intera esistenza si basa su sciocchezzuole, appuntamenti, incontri e lavoricchi sempre più angusti e umilianti. Ma, per carità, proprio non possono.

C ome
O rganizzare
V acanze
I nterminabilmente
D olci

Il prete scende verso le sue pecore, tra i banchi, pecore disunite come mai furono. Uno o due a banco, al massimo, per non trasmettere il virus, secondo una disposizione sancita da una segnaletica da ufficio postale. L'acquasantiera, questo manufatto che mi vide in prima linea con sbocchi d'ira incomprensibili dai più, sono state finalmente obliterate da inderogabili erogatori di disinfettante all'alcool. L'acquasantiera: litigate, protervie verbali, combattimenti con preti d'ogni risma. "L'acquasantiera non può essere di plastica! Non può trovarsi secca! Non potete mettere un recipiente per conservare le melanzane in frigo dentro una vasca di pietra!".
Bei tempi, si pensava di invertire il corso delle cose, ma il corso delle cose mai s'inverte; a meno di non creare nuove cause, nuovi simboli, suggestioni metafisiche. Il prete scivola tra i banchi, consegna particole, poi ciabatta verso l'altare. Sotto la tonaca s'indovinano le scarpe da ginnastica, Diadora, un po' scalcagnate.

Quando mi prese il ticchio di leggere biglinate, tanti anni fa, dai Dogon alle piramidi, m'imbattevo spesso nella profezia di San Malachia sull'ultimo papa. Secondo accorte ricostruzioni, Giovanni Paolo II sarebbe stato il terz'ultimo Pontefice; Benedetto il predecessore dell'ultimo, l’estremo difensore della fede. Allora pareva una scemenzuola buttata lì; oggi, a bergogliare gli accadimenti, sembra una probabilità di buon peso. La Chiesa, di fatto, è sciolta. Chiunque avverte, a pelle, come gli attacchi più deliranti (vietare il San Michele poiché ricorda Chauvin mentre atterra Floyd; in tal caso, a lume di logica, Floyd personificherebbe Satana) possano avere una benedizione presso il Tevere. Vietare Michele? Perché no? Se spiace a Black Lives Matter ... E poi: abbiamo così tante colpe: Colombo, Cortez ... i roghi di Salem, povere streghe ... giusto pagare ... non in moneta bensì in Storia ...

Leggo che si vorrebbe dipingere Black Lives Matter anche in Italia, a caratteri cubitali ... a Roma, Firenze, Napoli ... Non me la prendo con quell'ammasso di peli e fonemi da bar che ha proposto tale scemenza ... e nemmeno col prete con le Diadora, altra vittima della deculturazione fatta con diserbanti vietnamiti.
La strada per l'inferno non è lastricata di buone intenzioni, ma di continue concessioni all'informale.

L'informale, il senza forma. Dimenticarsi di alzare una bandiera, presentarsi con la barba incolta al commissariato, discutere di diritto commerciale coi jeans sdruciti, quante minuscole concessioni all'informale stanno deflagrando oggi. Antiche istituzioni, una volta seriose e compassate, degenerano in comunità hippie. La disinvoltura, però, non si traduce in maggiore efficienza bensì nell'estinzione dell'efficienza, in ogni ambito.

C erti d'
O norare il
V ibrione
I ndolenti
D ormiamo

L'informale vanta questo pregio agli occhi del potere: rende plasmabile ogni cosa.
Ogni capriccio è consentito, persino una pagina facebook dedicata alle bestemmie.
Non vorrei ingenerare equivoci facendomi passare per beghino. Ciò che vorrei sommessamente significare è che le mura di una chiesa difendono persino gli infedeli. Capisco, però, che è dura accettare un sillogismo che vanta centinaia di premesse.

A vedere il muso anonimo e ottuso d'un Sardino qualunque si ha l'impressione d'una perdita talmente irrimediabile da ingenerare orrore. Qui si è in presenza di un'assenza capitale: la personalità. Ragioniamo. Certamente un Sardino rileva quale somma di funzioni fisiologiche: mangia, beve, defeca e minge. Queste poche azioni sono le uniche che, è solo un esempio, condivide pienamente col sottoscritto. Concediamogli pure una manciata di fornicazioni con regolare versamento di umori. I due insiemi (io e il Sardino) sono ancora blandamente sovrapponibili benché, mi tocca ammetterlo, crepi la modestia, in certi atti sommenzionati mantengo una gravitas raramente raggiungibile da tali esserini. E il resto? Cosa hanno in comune con me? Piaccio a pochissimi, ma nessuno può dirmi ch'io sia un plagiario o un tipo suggestionabile o accomodante o concessivo. Ho una mia propria personalità, ricca di convinzioni, forte di un retaggio antico; una proprietà definita dell'umano che mi distingue anche da animi affini. E questo avviene non perché sia stato educato bene o sia deferente a una ideologia precisa. No, sono portato a credere che tale indipendenza derivi da alcuni libri letti, e poi riletti, libri decisivi, cui si sono accompagnate esperienze inevitabilmente decisive nel formare un carattere che è così e non potrà mai essere altrimenti. Il Sardino, invece, nella versione col cerchietto o senza, è un assemblaggio di dati posticci che, assieme, fingono una personalità: creduta tale sol perché l’accozzaglia suona in concordia col vento dei Tempi. In realtà se un dio maligno gli dicesse: "Vi abbiamo mentito, è tutta una farsa" questa gente sparirebbe, improvvisamente, inghiottita dal caveo nulla che è proliferato in luogo dell'anima. Abituati a ripetere: "Portobello!", ogni giorno, ossessivamente, essi, senza il riferimento del Potere che quel grido chioccio ("Portobello!") giustifica interminabilmente, ammutolirebbero all'istante rimanendogli estranei quei luoghi comuni di cui sono composti quali frankenstein postmoderni.

È raggelante, poi, la cesura col passato. Lasciamo stare i Maggiori, da Giotto a Gadda, da Leon Battista Alberti a Galileo, da Marco Polo a Torricelli. A un Cristian Raimo qualsiasi dicono poco pure Fellini e Alberto Sordi. Questa la tragedia. Si eclissa un mondo, nella sua interezza. Personalmente, come uomo nel guado, con un piede piantato nello ieri e l'altro nel presente eterno, ricordo con vividezza come Fellini, Truffaut o Bergman fossero popolari. In questo senso: c'era una larga fetta di Italiani che il sabato o la domenica decidevano, dopo la compulsazione del giornale locale acquistato in edicola, di spendere qualche migliaio di lire per andare al cinema. A vedere Totò e Milian, fra gli altri, ma anche I quattrocento colpi o La dolce vita, campione d'incassi. Oggi cosa sarebbe d'un film, cito a caso, come Il fascino della borghesia, L’infanzia di Ivan o Nashville? Ma questo è ancora poco. Prendiamo l'attore italiano in cui convive la popolarità, la denuncia sociale e una irresistibile cialtroneria: Alberto Sordi. Cosa sopravvive di lui, oggi, a diciassette anni dalla morte? Ben poco. Nessuna sa degnamente celebrarlo per il fatto, lapalissiano, che pochissimi ne conoscono la reale filmografia, quella decisiva. Il vedovo, Una vita difficile, I vitelloni: che ne sanno di tali pellicole il Sardino, o il Raimo, quello che dileggiava Moravia perché l'aveva sorpreso a usare troppo spesso il passato remoto? Anche i più anzianotti, però, ormai disabituati al bel cinema, come lo furono all'arte, alla scienza, all'archeologia, al civismo, non riescono più a inquadrare una figura un tempo universale come Sordi. Al massimo ricordano le sue prove tarde, Il tassinaro o il citatissimo Il marchese del Grillo, irto di macchiette e grossolanità. Non è un caso se, per i cento anni dalla nascita di Sordi, le bacheche di facebook si siano riempite della triviale battuta "Io so' io e voi non siete un cazzo"; ignorando, peraltro, che tali parole non sono che versi d’un sonetto di Gioachino Belli.

Non sfugga poi l’ennesima mano luciferina. Cambia la definizione di museo. Ecco quella nuova, appena proposta: “I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano reperti ed esemplari in custodia per la società, salvaguardano ricordi diversi per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone.
I musei non sono a scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in partnership attiva con e per le diverse comunità al fine di raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario”.
Forse vi sfugge il senso ultimo di tali ciacole. Ve lo condenso in tal modo: “Accanto alla Tempesta del Giorgione, nei prossimi anni - non c’è fretta - dovranno comparire, quale risarcimento storico, le collanine del Niger o le stupidate di Basquiat. A miscelare suggestioni, a sveltire le sveltine democratiche, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana ...”.

Il prete con le scarpe da ginnastica lo comprendo. È, in fondo, un poveretto. Che lo sia me ne rendo conto quando chiude il Paternoster coll’insopportabile “e non abbandonarci alla tentazione”. Mi ricorda lo stilita di Buñuel che sapeva contrastare al Male e al Maligno, ma non potè far nulla contro il casual. Gli inganni luciferini venivano rintuzzati poiché comandati in nome del Male; l’informale, il mediocre, il piccino, lo sciocco, lo stolido, però, quelli furono invincibili. Tanto da ridurre il povero Simón a ubriacone da discoteca mentre la diabolica Silvia Pinal gli ride in faccia, di gusto: una vittoria così semplice e totale non può che farsi esilarante.

Mille anni e mille anni e mille anni ancora giacciono dietro di noi, in una rovina inimmaginabile sino a poco tempo fa. Davanti non si ha niente, solo qualche resoconto svogliato come questo. In ogni caso: Vade ultra!

18 giugno 2020

Montanelli di statue ne merita due


Roma, 18 giugno 2020

Non dobbiamo dare troppo credito a questi tempi esagitati.
È pulviscolo generato da una più ampia frantumaglia di rovine.
Gli elementi irrilevanti che compongono il pulviscolo credono d'essere loro gli attori di un processo immane; e invece non rilevano che quale ultimo effetto, spettacolare e del tutto inessenziale. Essi sono la calcina che imbianca i cadaveri degli sconfitti dopo un assedio lungo e sanguinoso.
I volti dei morti, si dice, si assomigliano tutti poichè la Morte riunisce a sé, in un grembo comune, ogni uomo.
Ma non è così.
Si muore con fattezze diverse, alcuni nel terrore abietto, altri nella paciosa serenità, o con i grugni tirati, oppure distesi in una fiducia invincibile; ghignanti o pietosamente rassegnati, con un lampo obliquo nella mente o invasi da una verità che, finalmente, muove l'umido rimpianto. 

Molti presunti grandi uomini creparono male, prosciugati dalla sepsi d'una filosofia innaturale; au contraire, certi buontemponi del pensiero lasciarono questa valle di lacrime sicuri d'averla imbroccata, la verità, e trapassarono con un sincero guizzo felice.
Chi ha combattuto muore allo stesso modo, ma con una risolutezza insondabile dai più.
Guardiamo i volti degli sconfitti, di chi è a terra, i Galata morenti di un'epoca. La rovina della famiglia e delle genti cui erano avvinti in un sinolo inconsapevole quanto indissolubile, gordiano, li ha recati a disprezzare l'ultimo barbaro con l'estremo alito di vita. La fuliggine degli incendi, la polvere dei crolli, le farine dei templi atterrati e degli acquedotti tagliati ne bruttano superficialmente le linee indurite del volto. Sotto tali veli transeunti l'anima, però, riposa intatta. La vittoria gli arride, in segreto.

La vernice con cui si è sfregiata la statua di Montanelli, certo, appartiene ai vincitori in leasing del nostro tempo. La distruzione della terra più decisiva di sempre fu ordita nei secoli; che questi squallidi sgavazzatori se ne approprino i meriti fa parte di una recita ignominiosa.

Tutte queste masnade da poltrona, eccitate con due caramelle, non sono niente. Non vantano pensiero proprio, né carattere, né vitalità. Si è riusciti a distillare il nulla, quasi perfetto. Esse concionano all'ombra di un permissivismo totalitario che o non vedono o fanno finta di non vedere. In altri tempi li impiegherebbero come sguatteri o delatori. La loro rilevanza è men che zero. Esserini del futuro, manilopolabili, inconsistenti, eterei, teste impagliate, servi. Il loro numero è sovrastante, tanto da togliere il respiro; l'unica cosa di cui posso degnarli è l'ambizione del loro sterminio.

14 giugno 2020

Cronache dalla fine dell’Occidente [Il Fu Rabal]


 
Il Fu Rabal

Nell’Estremo Occidente tutto si muove rapidamente, il passo è quello di una danza apparentemente caotica a un ritmo che è un misto di rap e canti eleusini (Daemonia Nymphe): siamo passati, in un balzo, dalla fase 1 alla fase 4 della demolizione controllata del Mondo che non sarà più.
Ma andiamo per ordine. Circa un mese fa io e la mia famigliola abbiamo partecipato a una manifestazione anti “lockdown” tenutasi nella capitale della Stato di Washington, Olympia, c’erano circa un migliaio di persone davanti al Campidoglio, la sede del parlamento statale, per lo più provenienti dalle zone rurali, un piccolo palco, uno stand che vendeva hot dog e una serie di oratori, molte famiglie con bambini, un buon numero di chiassosi motociclisti e uomini di tutte le età armati di fucile. La polizia guardava da lontano con un certo distacco, nessuno era mascherato e il distanziamento sociale ignorato, mentre sullo sfondo sventolavano bandiere e cartelli inneggianti a Trump e ad altri rappresentanti Repubblicani. Il fronte della resistenza si espresse in una serie di interventi che si possono riassumere in: vota per me, alle prossime elezioni (previste per l’autunno) manderemo a casa Inslee, il governatore Democratico, e la sua corte, difendiamo la costituzione, rivendichiamo la nostra libertà di espressione e il diritto a portare armi (primo e secondo emendamento della costituzione degli USA), riapriamo lo stato e tutte le attività commerciali. A me sembrava fosse la solita aria fritta, ma forse non lo era del tutto.

08 giugno 2020

L’Arcinemico ci guarda


Roma, 8 giugno 2020 

α. Il volto secolare e scarnificato di Jeremy Bentham ci osserva dai recessi della postmodernità.
Scrive Adan Zzywwurath nel secondo volume della sua Fantaenciclopedìa:
Bentham diede precise disposizioni che riguardavano il futuro del suo cadavere. Lo donò alla Scienza, stabilendo che il suo corpo doveva essere sezionato in una pubblica seduta d’indagine anatomica. Docili alla consegna estrema, gli amici scortarono le spoglie del grand’uomo alla Scuola d’Anatomia di Webbstreet dove, dice il Waree, furono accolte con tutti gli onori. Il dottor Southwood-Smith, prima di squartarlo dinanzi alla platea, dedicò al filosofo un applaudito e commosso discorso di circostanza. 
Bentham dispose nelle sue ultime volontà che il suo corpo venisse poi imbalsamato, imbottito, rivestito con cilindro e bastone da passeggio, e infine posto a sedere su uno scranno e conservato in un’aula dell’University College, in Londra. Ma soprattutto il filosofo diede due direttivi ineludibili: la prima, che la sua mummia fosse mostrata pubblicamente, e per sempre: la seconda, che gli occhi del suo cadavere restassero perennemente spalancati”.

Tale agghiacciante resoconto può costituirsi quale uno dei cippi post quem del Nuovo Mondo; ben prima dei suoi più profondi vaticinatori (Dostoevskij, Zamjatin: entrambi russi) e dei profeti di second’ordine (Huxley, Orwell: entrambi inglesi). Ciò non deve muover la nostra meraviglia poiché se Mosca è una terza Roma, col suo Czar, allora i suoi abitatori non possono che comprendere immediatamente l’intero fenomeno. Gl’Inglesi, invece, poiché coinvolti nel fenomeno, anzi forza attrice e motrice del fenomeno stesso, non ne afferrano l’intima e rovinosa grandiosità. Ma lasciamo perdere tali quiquilie e addentriamoci nell’esame delle precedenti righe.
Chi fu Jeremy Bentham (1748-1832)? Trascriviamo, per comodità, da Wikipedia: “Bentham fu uno dei più importanti utilitaristi, in parte tramite le sue opere, ma in particolare tramite i suoi studenti sparsi per il mondo. Tra questi figurano il suo segretario e collaboratore James Mill e suo figlio John Stuart Mill, oltre a vari politici (e Robert Owen, che divenne poi uno dei fondatori del socialismo). 
Argomentò a favore della libertà personale ed economica, la separazione di stato e chiesa, la libertà di parola, la parità di diritti per le donne, i diritti degli animali, la fine della schiavitù, l'abolizione di punizioni fisiche, il diritto al divorzio, il libero commercio, la difesa dell'usura, e la depenalizzazione della sodomia. Fu a favore delle tasse di successione, restrizioni sul monopolio, pensioni e assicurazioni sulla salute. Ideò e promosse un nuovo tipo di prigione, che Bentham chiamò Panopticon.

01 giugno 2020

La città dalle nove porte [Nachtigall]


di Nachtigall 

Baikal 

Il mozzicone di candela, che si spegneva a poco a poco nel candeliere contorto, illuminava debolmente quella misera stanza, nella quale l'assassino e la prostituta, per una strana combinazione, s'erano uniti nella lettura del libro eterno

F. M. Dostojevskij

Ovunque si volga lo sguardo è deserto di ghiaccio e neve, lo stesso sole, pure bellissimo in cielo, pare da giorni sorgere di controvoglia, con una comprensibile fretta di dileguarsi dietro l'orizzonte. L'elettricità, sull'isola dove mi trovo, non è comparsa che con il nuovo millennio, suggello di fuoco a conclusione definitiva di un'epoca. Nei pochi villaggi, gli alberghi costruiti dai cinesi risaltano come note stonate in una composizione altrimenti divina. In questa terra di confine ancora regnano forze primordiali oscure e l'uomo si inchina alla di loro superiorità. Ma il limite che questa terra segna è nel tempo più che nello spazio: da una parte vi è il passato, dall'altra, oltre, l'oblio. Intorno a me è la stessa pace che si deve provare in fondo all'oceano.Una folata di vento gelido mi scuote dai miei pensieri: presto farà notte. Ne va una buona oretta per tornare al villaggio. Mi metto in cammino, di ottimo umore.
Vedendomi arrivare, L. esce dalla banja e mi si fa incontro. Un brivido mi percorre la schiena, d'eccitazione e di freddo.
Priviet”.
Slacciandomi il colbacco e abbassandomi la sciarpa, avrei sorriso di rimando, se solo la condizione dei muscoli facciali l'avesse consentito. “Già qui? Ho appena acceso. Tra venti minuti possiamo entrare“. Dentro la casetta di legno, anche se non ancora dentro la banja vera e propria, dopo pochi piacevoli attimi, il troppo caldo velocemente diventava fastidioso. Sebbene molto irriggidito mi spoglio rapidamente, rimanendo in magliettina. Mi dò un'occhiata intorno. Sulla mia destra, un appendiabiti e sotto una scarpiera con infilate dentro varie paia di ciabatte di diverse misure e colori. Per quanto mi riguarda – rimango scalzo. Non troppo avanti una porta semisocchiusa lascia intravedere un'altra stanza, un piccolo spogliatoio, con asciugamani e lenzuola pulite e un cesto per la roba sporca, da cui si accede a quella che io chiamo „camera di primo raffreddamento”, quella di secondo essendo il mondo esterno. Il pavimento qui è formato da assi di legno leggermente distanziate fra loro, l'acqua della doccia potendo così direttamente finire sul terreno sottostante, emanante un certo freddo contrastato però abbondantemente dalla prossimità del forno acceso della banja. Oltre alla doccia (un tubo da cui girando una valvola si può far uscire dell'acqua) ci sono dei secchi in metallo, di cui uno appeso in alto alla parete, riempibile all'occorrenza di acqua gelida tramite un rubinetto nelle prossimità e rovesciabile comodamente sulla propria testa per mezzo di una corda. In un altro secchiello ci sono rami secchi di betulla, altri due o tre sono vuoti. Dalla camera “di primo raffreddamento” si accede finalmente alla banja. Alla mia sinistra invece è un salotto: un divano e credo vi fosse anche un televisore. Poi al centro un tavolo abbastanza grande, per otto o dieci persone, delle sedie ed infine una piccola cucina. Nell'angolo, accanto al divano, un lettino per massaggi, di quelli portabili, smontato. Dipinti del lago senza alcun valore ed una riproduzione di un Roerich ci osservano dalle pareti. Sul tavolo ci sono dei cetrioli in salamoia, del salo speziato con abbondante aglio, pane nero e, sovrana, una bottiglia di vodka, la cui forma rassomigliante un fallo eretto non tragga in inganno, giacché si tratta solo del contenitore: non c'è simbolo più loquace per rappresentare la neoprimitiva ginecocrazia odierna. Mi immagino l'etichetta: liquido solvente, versare un po' di volontà e lasciare a macerare per quindici minuti a temperatura né calda né fredda; la dissoluzione è servita, bere, se possibile, tutto d'un fiato. In cucina bolle un samovar. Mi viene in mente un quadro di epoca sovietica nella mia cameretta sull'isola Vasilevskij, a San Pietroburgo, dove mi rinchiusi per un mesetto anni addietro. Vi è rappresentata questa scena: ad un signore distinto viene offerto un bicchierino di vodka e lui scansandolo con un gesto netto della mano e del braccio risponde: niet. Ad un'occhiata più attenta, quasi il ricordo del distinto signore li avesse disintegrati, mi accorgo che non vi è nulla di tutto ciò: niente salo, niente vodka, niente samovar. Sul tavolo c'è solo qualche porzione monouso di miele, di marche differenti, e due tazze sporche del tè del giorno prima.

24 maggio 2020

La scuola ai tempi del colera [Moravagine]


Moravagine 

L'era della didattica a distanza (sociale) 

L'ineffabile Lucia Azzolina, già insegnante precaria, sindacalista ANIEF (1), preside abilitata e sottosegretario, nonché sosia di Sabina Guzzanti, s'è trovata a ricoprire, dal 10 gennaio di quest'anno e per evidente mancanza di concorrenti, il posto ch'era stato del “ribelle” Lorenzo Fioramonti al ministero dell'istruzione.In tale veste, è stata costretta a prestare la sua faccia, con quell'espressione un po' così, alle disposizioni del governo Conte sulla scuola; fra queste, il dpcm del 4 marzo scorso, quello che ha istituito la “didattica a distanza”.
Da allora, tutte le scuole italiane si son dovute attrezzare per quelle che, volgarmente, vengono definite “videolezioni”.
Le videolezioni funzionano così: il docente si collega all'ora convenuta sulla piattaforma “adottata” dalla sua scuola (Google Suite for Education la più diffusa) ed a ruota lo seguono i discenti, ai quali pochi minuti prima è stato fornito un link di accesso “riservato”.
Il prof di turno fa dunque “lezione” ad una ventina di figurine rettangolari, fra problemi di connessione, stillicidio di giga e condivisioni involontarie di intimità casalinghe.
Il classismo della didattica a distanza si è immediatamente mostrato in tutto il suo fulgore: solo gli studenti con cameretta privata e pc personale potevano decentemente seguire le lezioni; gli altri dovevano contendere spazi, giga e dispositivi ad altri fratelli telestudenti ed al parentame segregato in cerca di passatempi virtuali.
Abbandonati al loro destino cinico e baro son stati poi i tanti alunni disabili e gli stranieri non alfabetizzati.
Da subito, quindi, vi è stato un altissimo assenteismo da parte degli studenti, supportato anche dalla diffusa attuazione di tattiche di sopravvivenza: fra le più praticate, quella di scollegare la telecamera facendosi in santa pace i fatti propri oppure quella, più raffinata, di sostituire alla propria immagine ripresa “in diretta” un filmato preregistrato in cui si simula attenzione.
Non han poi tardato a manifestarsi quelle dinamiche relazionali tipiche della scuola di oggi, fra le quali il grande babau dalle tasche piene d'ipocrisia: il “bullismo”, fenomeno non solo tollerato, ma di fatto incoraggiato e promosso al sempiterno grido di “Nessuno tocchi Caino!”.
Ai vari cagnolini sciolti del bullismo fai-da-te si sono presto affiancate orde di teppisti digitali organizzati: su Telegram hanno preso corpo diversi gruppi attivi nel sabotaggio sistematico delle videolezioni; inserendo il link degli incontri didattici su questi canali si permetteva l'accesso ad estranei che intralciavano la lezione con bestemmie, ingiurie, inserti pornografici (2). 

23 maggio 2020

Requiem per gli studenti [Giorgio Agamben]

 
Giorgio Agamben
 
Come avevamo previsto, le lezioni universitarie si terranno dall’anno prossimo on line. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata  come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.
Non c’interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in cui l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come scompaiono le discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva dell’insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione  dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente  imprigionato  in uno schermo spettrale.
Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è  qualcosa di cui significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle associazioni di studenti – universitates –  e a queste devono il loro nome. Quella dello studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui determinante era certamente lo studio e l’ascolto delle lezioni, ma non meno importante erano l’incontro e l’assiduo scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti e si riunivano secondo il luogo di origine in nationes. Questa forma di vita si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma costante, dai clerici vagantes del medio evo ai movimenti studenteschi del novecento, era la dimensione sociale del fenomeno. Chiunque ha insegnato in un’aula universitaria sa bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di studio e di ricerca,  che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione.
Tutto questo, che era durato per quasi dieci secoli, ora finisce per sempre. Gli studenti non vivranno più nella città dove ha sede l’università, ma ciascuno ascolterà le lezioni chiuso nella sua stanza, separato a volte da centinaia di chilometri da quelli che erano un tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università un tempo prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di studenti che ne costituivano  spesso la parte più viva.

21 maggio 2020

L'ossessione del male [Il Poliscriba]


Il Poliscriba

Il problema del male, visto nella sua complessità,
e nella sua assurdità rispetto alla nostra unilaterale razionalità,
diventa ossessionante. Esso costituisce la più forte difficoltà per
la nostra intelligenza religiosa del cosmo. Non per nulla ne
soffrì per anni S. Agostino: "Quaerebam unde malum, et non
erat exitus", io cercavo donde provenisse il male, e non trovavo
spiegazione 
(Confess. VII, 5, 7, 11, etc.; P.L. 32, 736, 739)

La via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
Scivolando con noia e una certa distanza dai fatti odierni, sui quali mosche impazzite pasteggiano e inoculano larve per futuri discorsi già in putrefazione, nell’esatto istante in cui verranno proferiti, se non pensati, m’imbatto in alcune frasi di Paolo VI, non cercate, semplicemente apparse sul mio monitor per brevi tratti acceso su ciò che è altro dalla realtà.
Il tono è apocalittico, ossessivo, triste, una presa in carico d’impotenza tanto biasimata da certi cantori della dissoluzione, da farne un vessillo modernista mai ammainato; ma vì è un tocco di speranza, il tepore di un manto protettivo sgualcito, la maternità uterina di un caldo bagno amniotico promanante da un ordine definito o definibile, da questa trama inestricabile, inesplicabile, screziata di galassie, trama di cellule, rete neurale, incesto anima-corpo, creatura-Creatore.
Il Pontefice parla all’ Udienza Generale; l’anno è il 1972; il giorno è il 15 novembre, un’ora di luce invernale storpiata da un’algida atmosfera saturata da considerazioni sul male e precisamente sul Demonio.
Così dice: “È molto interessante il quadro della storia drammatica dell’ umanità, dalla quale storia emerge quella della redenzione, quella di Cristo, della nostra salvezza, con i suoi stupendi tesori di rivelazione, di profezia, di santità, di vita elevata a livello soprannaturale, di promesse eterne.
A saperlo guardare, questo quadro, non si può non rimanere incantati: tutto ha un senso, tutto ha un fine, tutto ha un ordine ...

16 maggio 2020

La Grande Opera


Roma, 16 maggio 2020

1. Stéphane Distinguin: “Cinquanta miliardi di euro. Tanto entrerebbe nelle casse del mondo della cultura e dello spettacolo francesi se si mettesse in vendita la Gioconda. Una proposta che circola in questi giorni in Francia, alle prese con la crisi economica dovuta al lockdown da coronavirus. L'idea è di Stéphane Distinguin, ceo di Fabernovel, ed è stata pubblicata sul magazine "Usbek & Rica". Ma le polemiche non hanno tardato ad arrivare”.

2. Stéphane Distinguin: "Cediamola per almeno 50 miliardi di euro a qualche principe arabo, o facciamone la garanzia di una nuova moneta virtuale, o mandiamola in tournée nelle Puglie per far ripartire il turismo. Vendiamo il gioiello di famiglia, per finanziare il rilancio di un mondo della cultura che altrimenti rischia di non sopravvivere al coronavirus ... Teniamo conto che l’Uomo di Vitruvio fatto arrivare a Parigi per i 500 anni è stato assicurato per un miliardo. Possiamo stimare che la Gioconda frutti al Louvre e indirettamente all’economia francese (tra merchandising, alberghi e biglietti aerei) grosso modo tre miliardi di euro l’anno. Cinquanta miliardi mi pare ragionevole, perché l’operazione abbia un senso bisogna chiedere una cifra enorme".

3. La notiziola, rilanciata quale semplice curiosità, vanta lo spessore del ballon d’essai. Essa ha il pregio di saggiare le resistenze profonde dell’Occidente; inoltre, è utile per la mitridatizzazione. Rilasciare il veleno poco a poco rende insensibili al veleno; in positivo è sinonimo di assuefazione, in negativo di mansuefazione.

11 maggio 2020

Breviario di mistica razzista


Roma, 11 maggio 2020

Che l’Italia vaghi in un tenebroso incanto lo si rileva dalle insorgenti minutaglie della cronaca. Improvvisamente, al di là di qualsivoglia ragionevolezza, gli Italianuzzi son usciti a frotte al sole. L’ennesimo decretino non decretava, certo, il tana liberi tutti eppure si lascia fare. Perché? Perché quello che si doveva ottenere è stato ottenuto: l’inoculazione di un vaccino contro la voglia di vivere. Ora i Fratelloni della Buona Morte, paludati sotto le più formidabili sigle, vengono in TV regolarmente a parlare di due o trecento morti quasi col sorriso sulle labbra, un po’ svogliati, quasi guasconi. Son morti altri trecento, erano giovani e forti e sono morti! Come se gliene fregasse qualcosa. Son numeri da circo, come erano, da circo, a fine febbraio, quando, però, la messinscena serviva a terrorizzare il miccame per l’instaurazione del nuovo regno. Adesso due o trecento in più: anche quattrocento, cinquecento! Son numeri, come i numeri digitali della banca. Mica li ha sudati qualcuno quei numeri, servono a ottenere effetti: la schiavitù in un caso, l’usura, altro tipo di schiavitù, nell’altro.

I Fratelloni o Compagni della Buona Morte, appartenenti ad un’antica confraternita del Santo Spirito, paludati con cappucci e lunghe casacche nere, raccoglievano i cadaveri di pastori, braccianti e poveri della campagna romana, li componevano amorevolmente per poi donargli sepoltura dignitosa. Una chiesa li ricorda a via Giulia: Santa Maria dell’Orazione e della Morte. I poveri, nella desolazione dell’agro, si ammalavano inevitabilmente, ritirandosi quindi a crepare nelle grotte, appiè i rivi o nei procoji; spesso soli, dacché il contagio poteva minare la famiglia. Fra i morti numerosi furono i monelli, reclutati giovanissimi nelle piazze di Roma e deportati come carne da cannone nei latifondi: la malaria li coglieva presto. Nudi, le trippe enfie, i loro corpi venivano rastrellati pietosamente; i carri si trascinavano per le secolari carrarecce a ricalco dei basolati etruschi e romani, in un infinito che vibrava per l’assenza della grandezza, intangibile e opprimente. La campagna, intanto, vasta e indifferente, riconciliava nel proprio grembo, chi rimaneva e chi andava, vittime e consolatori, carnefici e giusti. Ognuno aveva recitato la propria parte, la parte che viveva per tramandare la totalità, consegnandola all’eterno.

Ottengo un cappuccino da asporto. Bicchiere di cartone o quel che è, cucchiaino di plastica confezionato, bustina di zucchero, tovagliolino. Mi siedo sulla panchinaccia fuori del notissimo bar. Improvvisamente, poiché dapprima mimetizzate dall’ambiente circostante, fra manifesti stracciati e saracinesche chiuse, emergono due poliziotte locali. No, non si può. Il cappuccio lì, no. Perché. Perché sì. Lo si deve riportare in ufficio o in casa. Oppure, meglio, distillarselo a casa o in ufficio: ci sono le Nespresso con tutte le varianti, non lo sa? E in cammino si può sorbire. No, poiché dovrebbe abbassare la mascherata infettando mezza capitale. E allora ci si mette in cammino col bicchiere, il cucchiaino, il tovagliolo e la bustina. Svoltato l’angolo, mi appoggio su una lurida cassetta dell’ENEL e miscelo la pozione guardandomi attorno come un ladro. Poi m’incammino, sorseggiando. La vetrina mi rimanda l’immagine di un uomo di mezza età, i capelli incolti, un breve velo di barba, il bicchiere di plastica in mano: eccovi servito, col lockdown, un barbone americano della nuova metropoli.