Il mio impegno antifascista dei bei giorni non si concretò mai nell'antifascismo verbale. Men che mai nell'antifascismo militante contro i fascisti, che ho sempre considerato una parte residuale della politica: al pari dei comunisti.
C'erano milioni di persone che si
richiamavano al comunismo e al fascismo, ma solo a chiacchiere. Che il
fascista o il comunista fossero segnati antropologicamente dalle
rispettive ideologie fu vero sin agli anni Cinquanta. Si può dire,
col senno di poi, che tali marchi erano cicatrici, e cicatrici di
ferite fisiche e spirituali, destinate, però, a scomparire col
volgere d'una generazione.
E così fu, nonostante le P38.
Quando nacqui alla fine dei Sessanta
comunismo e fascismo erano già morenti: non informavano più le
nostre vite. Il fascista e il comunista si ritrovavano a Fregene a
ingozzarsi di panini e frittate; i loro figli erano già attenti ai
primi ritrovati tecnologici. A vestirsi con gusto ricercato. Il ricco
era ricco e il povero lo invidiava. Il busto di Mussolini serviva ad
appendere l'ombrello e Lenin, in attesa del Che, era ormai un poster.
Alla memoria, tuttavia, credevo.