Centinaia di artisti e viaggiatori si son sempre interrogati sulla campagna romana.
Miglia e miglia di deserto brullo in cui campeggiano mozziconi di torri, fondamenta di ville rustiche, mura sbriciolate, casali dalle finestre mute, antiche chiesuole sbarrate, resti di tombe protocristiane .
Un senso di mistero e inquietudine grava sui cuori dei viaggiatori.
Dove siamo qui?
Gioachino Belli così descriveva tale luogo insondabile:
"Fà ddiesci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com’un ojjo,
che ssi strilli nun c’è cchi tt’arisponna!
Dove te vorti una campaggna rasa
come sce sii passata la pianozza,
senza manco l’impronta d’una casa!"
Il silenzio è gonfio di fantasmi.
Il disagio è generato dall'assenza.
La campagna romana è una misera pergamena sui cui s'intuisce una scrittura flebile: i versi di un capolavoro grandioso.
Tutto fu ordine qui: le strade si intersecavano con logica, le costruzioni erano pensate con perizia, le torri punteggiavano il territorio nei luoghi strategici.
Ritroviamo l'opera consunta di decine di generazioni che hanno operato con intelligenza, dedizione, genio, per accumulare il sapere che ha formato la tradizione.
Ecco perché qui la solitudine non è mai tale.
Non si passeggia in solitudine fra l'erba vitriola, il porrazzo o i cardi; il passato incombe: ogni dosso o curva o una collinetta anonima rappresentano le evanescenti linee del volto di una divinità.
Nulla è innocente e tutto parla a chi sa intendere.
Mi mandano le foto (dedotte da un social media) di una vecchia conoscenza di scuola. Un cinquantenne italiano. Uno come tanti.
Lo si intuisce al mare. A parte il costume (nero) e un paio di ciabatte, è in completa libertà. L'aria stolida, insieme vacua e soddisfatta; l'arroganza di chi crede di sapere; le trippe debordanti. L'orango ride verso l'obiettivo.
Da una foto ch'egli allega deduciamo che si sta preparando una braciolata. In quella successiva, infatti, sta di profilo, come un cercopiteco famelico, il muso in alto, avido, pronto all'ingurgitazione di una salsiccia che fa pendere con voluttà dalla zampa sinistra.
Nell'immagine seguente ha la bocca piena e soddisfatta; mostra il dito medio: come a dire: guardate come me la godo.
Le ultime due diapositive dall'inferno significano rispettivamente, al potenziale spettatore, il piatto vuoto, lordato da qualche salsa innominabile, e il nostro eroe stravaccato su un materassino: di fianco, a smaltire il bagordo squallido, satollo pitone del nulla, le gambe piegate leggermente sotto il petto, l'adipe che cola immondo verso il basso subendo anch'esso, come ogni grave, il richiamo della forza gravitazionale.
Mi chiedo: questa è una rovina, indubbiamente, ma di cosa?
Quale deità ha potuto annientare del tutto ogni barlume di intelligenza? Quale demonio è riuscito a trasformare questa umanità in un triviale ammasso di inutili detriti? Come è possibile che un popolo come quello italiano, con una tradizione millenaria, sia stato spazzato via in pochi decenni tanto che, ora, non ne rimane nulla?
Abbattete un tempio, una biblioteca, una chiesa: le sue vestigia, pur labili, continueranno a irradiare bellezza e logica.
Ma questa umanità cos'è?
Questi non sono i ruderi morali e psicologici di un passato recente, ma la testimonianza nuovissima di una civiltà ormai impossibile.
Come si può recuperare un barlume di decenza e saviezza da tali corpi e menti sfigurati, resi nulli dalla crapula, dall'insignificanza dei gesti quotidiani e prossimi a una de-evoluzione senza speranza? Come parlare a tali oranghi buoni per il tam tam, tutto stomaco e idiozia?
Questi non sono più nemmeno italiani, sono sacche rancide di materiali purulenti.
Che vuoi fare, cosa vuoi recuperare, aizzare, convincere?