Perché la controinformazione (o, almeno, parte d'essa) non diviene parte del discorso politico dell’uomo comune? Meglio: perché la controinformazione stenta addirittura a penetrare le residuali coscienze (quelle più avvertite) e finisce per coinvolgere solo un pubblico esiguo (sempre lo stesso) - un pubblico, che, peraltro, si presenta davanti ai grandi avvenimenti internazionali sempre più diviso?
Il peso del giornalismo alternativo (chiamiamolo così) risulta pressoché nullo.
Su Pauperclass blog si è cercato di dare alcune risposte:
E tuttavia stavolta voglio proporre una diversa interpretazione.
Non una spiegazione.
Solo un'ipotesi di lavoro onde scrutare l'orizzonte da una diversa prospettiva.
Voglio, però, avvertire: non parlerò mai di contenuti, ma esclusivamente di forma. Aspetto, modo; dell'atto di porgersi; di emozionalità.
Il punto è questo: la controinformazione (d'ora in poi CI) non affascina. Non piace. Non muove le coscienze. È, talvolta, controproducente.
1. La CI spiega, spiega sin allo sfinimento. È sin troppo minuziosa, pedante, infervorata. Richiami, note a pie' di pagina, link, immagini, setacci investigativi, ricostruzioni, plastici digitali. Persino i commenti del pubblico, a volte, prendono la forma di piccoli trattatelli; a materiale si aggiunge materiale: un coacervo di fatti che lievita inestricabile. Chi segua un episodio di politica o di terrorismo internazionali in poche ore arriva alla sazietà, persino allo sfinimento: legge troppo, interpreta troppo: come un asino di Buridano postmoderno trova non due greppie, ma tre, quattro, dieci; ciascuna con un fieno più odoroso, o più fresco: e dopo una spanciata, piluccando qua e là con avidità, non placa la propria fame, ma si procura un'indigestione (e un inevitabile disgusto per il fieno a venire).