Roma, 3 settembre 2018
Non ci rimangono molti attimi per gioire di questi tempi.
Non ci rimangono molti attimi per gioire di questi tempi.
L’unica
possibilità di evadere consiste nell’incappare, per puro caso, in qualcosa che
confermi in modo implacabile tutti i nostri più neri pensieri; qualcosa di
talmente scoraggiante da rinvigorire, paradossalmente, il corpo estenuato dalla
gragnuola di conferme al peggio che arrivano dalla Monarchia Universalis.
A
vedere certi spettacoli si rimane dapprima increduli e poi a bocca
aperta, progressivamente scossi da una risatina a bassa tensione: prima un ah!
ah!, inaudibile, (come a dire: ecco qua!), poi un tremolìo malsano, da
febbricciola quartana, che non può che culminare in un ghigno sussultante; non
sonoro, tuttavia: assomiglia più a una serie di brevi espirazioni in cui
smiagola la nostra rassegnazione e la residua speranza: in modo da concretare
(l’assoluta mancanza di speranza) e rinascere avvolti dalla consapevolezza di
uno sbarazzino “tutto è perduto”; da finis terrae briccona.
In
tali momenti sono posseduto, infatti, da un demone burlone.
Mi
vengono sempre in mente le parole d’una poesia di Enoch Soames, il tragico e
memorabile personaggio del racconto omonimo di Max Beerbohm che vende l’anima a
Lucifero per viaggiare nel futuro e scoprire, nelle enciclopedie del secolo a
venire, che sarà un letterato insignificante:
Torno torno alla piazza
buia e silenziosa
passeggiai sotto
braccio col Diavolo.
Nessun suono s’udiva
se non lo scalpitare degli
zoccoli
e lo scroscio del suo riso,
e del mio.
Avevamo bevuto vino
nero.
Gridai :"Voglio correre con te, Maestro!"
Gridai :"Voglio correre con te, Maestro!"
"Che
importa", gridò lui,"stanotte
chi di noi due corre
più rapido?
Non c’è nulla stanotte
da temere
nella luce sporca della
luna!"