Roma, 28 maggio 2018
“Sono
viziosi e ribelli, ma alla fine ... il gregge tornerà a
sottomettersi, questa volta per sempre. Allora daremo loro la quieta,
umile felicità degli esseri deboli quali essi sono ... dimostreremo
loro che sono deboli, che sono soltanto dei poveri fanciulli, ma che
la felicità dei fanciulli è più dolce di ogni altra. Diventeranno
timorosi e per la paura guarderanno a noi, si stringeranno a noi come
pulcini alla chioccia ... Tremeranno di fronte alla nostra collera, la
loro intelligenza si intimidirà e i loro occhi si faranno lacrimosi
... Ma altrettanto facilmente passeranno, a un nostro cenno,
all'allegria e al riso, alla gioia radiosa e alle leggiadre
canzoncini infantili. E tutti saranno felici, milioni e milioni di
esseri ...”
Fëdor
Dostoevskij, I fratelli Karamazov (discorso del grande Inquisitore)
Sergio
Mattarella è ciò che appare, né più né meno. Appartiene al
patriziato altissimo, per meriti di cui rimarranno ignote le reali
cause, come al patriziato apparteneva il fratello, Piersanti, martire della mafia, o, per
lignaggio ereditario, suo nipote, quello che alberga, da sempre,
negli interstizi oscuri e grassi della pubblica amministrazione assieme al figlio di Giorgio Napolitano.
Sergio Mattarella iniziò il proprio silenzioso e, perciò, irresistibile cursus honorum nel 1983; in trentacinque anni di gerente e garante delle massime istituzioni non l'ho mai sentito elogiare sinceramente un grande Italiano, oppure, di propria spontanea volontà, l'Italia; altrettanto, non l’ho mai visto commuoversi a fronte di un'opera italiana eminente o alla vista d’un mirabile luogo d'Italia, uno dei tanti disseminati lungo il Paese e che costituiscono il corpo mistico della Patria.
Le sue eulogie son state riservate, per lo più, ad altri membri suoi pari: ordinari felloni (ambasciatori, baroni, tacchini col petto appesantito da decorazioni per guerre mai combattute, ex politici, vittime più vittime di altre vittime, pretame) o patrizî di cui si decide a freddo l’elevazione a santino (in modo da stroncare qualsiasi dibattito: Falcone, Moro, Mattei).
Sergio Mattarella iniziò il proprio silenzioso e, perciò, irresistibile cursus honorum nel 1983; in trentacinque anni di gerente e garante delle massime istituzioni non l'ho mai sentito elogiare sinceramente un grande Italiano, oppure, di propria spontanea volontà, l'Italia; altrettanto, non l’ho mai visto commuoversi a fronte di un'opera italiana eminente o alla vista d’un mirabile luogo d'Italia, uno dei tanti disseminati lungo il Paese e che costituiscono il corpo mistico della Patria.
Le sue eulogie son state riservate, per lo più, ad altri membri suoi pari: ordinari felloni (ambasciatori, baroni, tacchini col petto appesantito da decorazioni per guerre mai combattute, ex politici, vittime più vittime di altre vittime, pretame) o patrizî di cui si decide a freddo l’elevazione a santino (in modo da stroncare qualsiasi dibattito: Falcone, Moro, Mattei).