Retrospettiva dal sottosuolo, anno 2022
Così a me son toccati mesi d'illusione
e notti di dolore mi sono state assegnate
(Giobbe 7, 3)
Because the night. Una notte del secolo scorso, l’ennesimo notturno insonne che preannunciava nei miei precordi le palpitazioni del nuovo evo degli orrori del presente, mi ritrovai a fissare le immagini di un film che Enrico Ghezzi - un altro “caro estinto” - decise di inserire nella sua scaletta di "Fuori Orario".
Devo ammetterlo, a quei tempi era per me fonte di consolazione seguire quel programma notturno, alternandolo alle mie letture o al mio sbattere furibondo le dita su di una Olivetti Lettera 35, ferendo d’inchiostro a nastro, carta vera.
Il film raro apparteneva alla vasta cineteca RAI, probabilmente acquistato subito dopo la presentazione al Festival di Cannes nel 1985, nella selezione parallela istituita in tempi di contestazione: la "Quinzaine des Réalisateurs".
Si trattava di un lungometraggio scomodo a un regime in via di dissoluzione, una piccola crepa foriera di crolli nel vasto e macilento edificio socialista, come la simbolica commedia caustica e intelligente, raccontava.
D’altronde, il regista georgiano Eldar Šengelaja che lo diresse, apparteneva, per estrazione e influenza familiare, a quel gruppo di artisti eufemisticamente definiti individuali, e, per tale vissuto, sentiva imminente la caduta dell’URSS per asfissiante burocrazia non aderente a semplici principi di buon senso e realtà.
Diresse il film nel 1983.
Tre anni più tardi, un reattore nucleare esplose a Cernobyl e, insieme ad esso, un mondo soltanto fantasticato nelle piccole menti di coloro che vivevano i “meravigliosi anni ‘80” al di qua della Cortina di Ferro.
Il film s’intitolava Le montagne blu, ma, in verità, riferendosi al massiccio montuoso che separa nel Turkestan per un tratto di circa 350 chilometri, la Cina dal Kirghizistan, avrebbe dovuto essere Le Montagne Celesti, e non per una pignoleria cromatica.
Lascio a chi avrà voglia di leggermi la ricerca privata dello svolgimento filmico.
Quello che mi premeva evidenziare in queste righe esangui, scritte senza nessuna speranza per il domani, sbiadite prima ancora d’esser fissate sulla retina, è il sentimento che allora mi pervadeva nel considerare la mia ignobile esistenza di cittadino, incastrata in orari innaturali dovuti a una meccanica del lavoro e del tempo “liberato”, assolutamente priva di senso e afflato.
Mi aspettavo una caduta del soffitto, delle impalcature generali dell’esistere da un momento all’altro, cosa che, evidentemente, non avvenne, pur annunciata da sinistri scricchiolii non dissimili dalla rovina della casa degli Usher.
Le notti che seguirono, prostitute di giorni monotoni, un po’ mie, un po’ di Cabiria, perdettero quel senso di sacralità e purezza; un sentore di vecchie uose da trasloco imminente, verso l’inferno del qui ed ora omogeinizzato, impregnò il mio divenire d’un alone ambrato da istantanee Polaroid.
Un sottosuolo ctonio si apriva sotto i miei piedi, terminava in una scatola blu, al cui pavimento, senza ombra di smentita, ne ero certo, sarei finito ancorato a una grossa catena d’acciaio che si agganciava al collare di cuoio intorno al mio collo, strozzandomi sotto il mento e impedendomi di arrivare al sacro ventre della felicità, per motivi talmente prosaici da risultare ridicola ogni tecnoevasione da sabato sera e ogni forzata rilettura delle Memorie dal sottosuolo del vecchio Fëdor.
Fuori dall’involucro cubico - qualunque stanza o edificio poteva esserlo, minuscolo o ciclopico quanto i resti funebri di un’antica razza aliena sovrastati dal ghiaccio eterno del Circolo Polare Artico - sentivo o immaginavo di ascoltare l’Arcinemico o Ziggy Stardust che, con voce sprezzante, rivolgendosi a un imbecille come tanti, come me, a un uomo della valle di lacrime, non a uno Starmen, sosteneva un monologo, direi progrock, tutt’altro che strampalato: “Fai come me, vivi da solo, esci quando le tue pulsioni sono irrefrenabili, fai sesso con soddisfazione, pagalo se non riesci a procurartelo in altre maniere, mangia e bevi ciò che più ti aggrada, gioca d’azzardo, rischia il tutto per tutto, sfida la morte, fatti ogni tipo di droga, ogni corpo a disposizione, giovane e maturo, sfrutta… sfrutta… sfrutta, amico mio, prima che il mondo e tutta la sua melma t’inghiottano e ti facciano sparire nel nulla”.
La misantropia non è una scelta innata, nemmeno una predisposizione, forse una voce introvabile nell’Encyclopédie di Diderot o nell’assolo elettrico di Hendrix a Woodstock.
Le Montagne Blu o Tien Shan (ma perché un doppio titolo?), la domanda reiterata più volte nello svolgersi della trama, sono reali?
E, nel 1986, erano per me più reali il disastro di Cernobyl, il socialismo, la caduta del Muro, il cowboy alla Casa Bianca, o i Tangerine Dream?
In quel taglio sulla tela del secolo breve, io, recalcitrante all'ovvio adolescenziale, alla radio m'inclinavo con l'orecchio per cogliere musica non adatta al marasma coetaneo che si storpiava di break, new wave e sinthpop.
Le frequenze in filodiffusione mi agitavano contro, un adagio che ricordavo di aver colto in un altro film, il giorno prima, del quale non conoscevo l’autore.
Provai a chiederlo a mia madre, melomane, oggi da me ripensata come una xerografica retrospettiva, morta nell’anno 2020 della pandemia, sola davanti a una crema di patate, in una RSA che m’impediva di andarla a visitare; in quel lontano radioattivo 26 aprile, lei stava sbuffando un glifo bluastro risorto dalla cenere minima di una sigaretta nervosa.
Mossi i piedi verso le sue gambe incrociate; la posa stanca sulla sedia in stile modernariato non era da compatire, le restituiva un'idea di sè tra la cucina e il tinello.
Abitavamo un tracollo di linee ortogonali, intersecate da un progetto sviluppato su piani paralleli, mai convergenti, la riduzione di una casa a simbolo identitario, piano regolatore, appartamento per appartarsi, appropriarsi di un resto sottratto a un tutto spazio, e dentro, la semiotica famigliare destrutturata, viscere antropomorfo affetto da parassitosi anafettiva, incubatore di una separazione coniugale tangibile, inespressa ... ed io figlio incollocabile.
All’epoca si leggevano i palinsesti televisivi sul quotidiano; nell'immondizia ritrovai la pagina e il suo strappo, odore di sedano andando a ritroso, tra le spallette e i fonemi inchiostrati ... il titolo doveva essere quello all'orario corrispondente.
E dunque le immagini si imposero alla memoria; Florinda e Musante, mio padre e mia madre cesellati da una coesistenza al nono piano di un gran palazzo per borghesia in ascesa.
Nel film, Venezia mi apparve più consistente del suo anonimo titolo, ma la mia età non mi permetteva ambiziosi collegamenti, libere associazioni matrimoniali con la coppia materpaterna che si evitava e avvitava in crisi insoluta, rimandata dopo una cena imbandita di silenzio, come la fine del comunismo … ma dopotutto era l’Adagio di Marcello.
Ora penso, nell’attuale dissesto, elucubrando in obliquo, a un imperativo categorico: se non ci sono guerre, è inutile scrivere!
L’equivalente galattico del motto preferito dai Vogon: “Resistere è inutile!”.
La letteratura nasce da archi e frecce, spade affilate, palle di cannone, testate nucleari, atti di eroismo e codardia.
Il miglior libro sulla guerra è la Bibbia, il secondo è il Corano e tutti dietro a sproloquiare su come si deve scrivere una storia che funzioni davvero: che coglioni coglionati dall’Apocalisse morbida secondo Giovanni o dagli aforismi bellici di Sun-Tsu!
Cosa dovrei dirvi ancora dall’Isola di Patmos, da un esilio non concesso, intentato: “You keep adding to my numbers as you shoot my people down”?
Ho scaricato dalla rete P2P le introvabili Montagne blu, la cartella dei sottotitoli e, in ossequio ai pazzi saliti al potere in tutti gli emicicli del mondo, sono convinto che le magnifiche Tien Shan non esisteranno fino a quando non le scalerò e se sono celesti, ma resto convinto che non lo siano, troverò in un bazar della Porta di Zungaria un paio di lenti adatte ad allineare la fottuta realtà alla mia inattaccabile, delirante immaginazione.
"Le montagne blu", un piccolo capolavoro ... forse meglio di certo Beckett. Mi sa che l'abbiamo visto in pochi.
RispondiEliminaSicuramente sa scrivere bene, ma i contenuti non mi lasciano nulla, né di bellezza né bruttezza, solo melancolia passatista, alla Marinetti per intenderci..forse e' un mio limite, forse e' suo.. chissà!!
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