“Scruto l'avvenire dal fondo d'un passato nerissimo, e trovo che nulla mi è permesso, tranne la fedeltà a una causa assolutamente perduta"
Joseph Conrad, lettera a Cunningham Graham
Sono nato a sinistra. Feci in tempo, per due volte, a votare Partito Comunista Italiano. Alla fine degli anni Ottanta.
In altre parole: ero comunista.
Queste non sono affermazioni politiche: sono prese d'atto. Ero così. Essere comunista! Confesso che c'entrava poco la collettivizzazione della terra, il Soviet e l'abolizione della proprietà privata. Credevo in uno Stato totale, benigno e regolatore, questo sì, e nell'onestà di fondo dei dirigenti di partito, individui pronti a trasferire questa loro inclinazione a livello nazionale, una volta vinte le elezioni.
Per il resto non m'interessavano granché le riunioni, le candidature, i programmi, i preamboli, le intenzioni; le sale fumose, i dibattiti, le mozioni.
Amavo la burocrazia attiva: l'assegnazione dei libri scolastici gratuiti, ad esempio. Cosa bisogna fare? ... ci domandavano. E si spiegava alla mamma il passo necessario. L'otturazione del molare all'Enpas: è possibile? Certo, si può fare, ma devi riempire il modulo tale e presentarlo in talaltro posto. E le esenzioni per la borsa di studio? Quest'anno è cambiato tutto: devi fare così e così et cetera. Una volta, al liceo, tentai di organizzare pure una biblioteca gratuita, ma andò a schifio.
Al contrario mi trovavo a disagio (a dire il vero lo trovavo insopportabile) con il lato sessantottino e movimentista del PCI: l’esistenza bohemienne, la scapigliatura di sinistra, il cantautore barbuto col lambrusco sul tavolo, gli artisti off e ‘de sinistra’ (tanto più arroganti quanto più insulsi), i brindisi, le canne, le iniziative estemporanee. Una volta, a una festicciola per l'elezione di non so chi, di fronte all'ennesima birretta stappata sotto il ritratto di Enrico Berlinguer e del fesso che imbracciava una chitarra per declinare (ancora!) De André o Guccini, mi sorpresi a pensare con forza: "Mi sa che io, alla fin fine, sono fascista" (i populisti, nei primi anni Novanta, erano ancora merce rara). La mia vita è ricca di queste rivelazioni improvvise: si scorre tranquilli per anni, poi, come se avessi lentamente sovraccaricato di tensione una linea, avviene l'inopinato corto circuito: "Mi sa che io, alla fin fine, sono fascista".
Dovevo essere proprio fascista (anzi, un bel fascistone) anche ieri, mentre guardavo di sfuggita il corteo per i festeggiamenti del 25 aprile. Mi son lasciato convincere ad andare, ma poi mi sono ritratto. A dirla tutta: mi vergognavo. Non perché mi sentissi fuori posto. Non solo per questo, almeno. È che trovavo tutta quella messinscena ridicola. Ridicoli i partecipanti, gli slogan, i ritornelli.
Sì, la sinistra si è imbruttita. I volti, i gesti, le rivendicazioni ... tutto è ridicolo, non trovo altro termine. Fisicamente, anche. Osservando il corteo da lontano, come una parata da circo Orfei, si aveva la sensazione che il crollo della tensione morale e civile si fosse incarnata nei comizianti: che residuava quale concrezione allegorica della rinuncia e della disfatta. Sì, la disfatta dell'utopia, tramutata nel meschino cabotaggio dei diritti civili, si riverberava inevitabile anche nell'aspetto, nel linguaggio, nell'adeguatezza fisica degli uomini.
Sostituire la dignità del lavoro con la dignità di Vladimir Luxuria ci ha donato buffoni, mostriciattoli, rovine, falliti. La manomissione del genotipo di un partito secolare, in un paio di decenni, ha trasformato anche il fenotipo del militante: dai camalli si è passati a questa bella acqua fresca di oggi che non spaventerebbe neanche un Rotondi.
Le idee sono gli uomini, non c'è nient'altro da aggiungere.
E le idee, a sinistra, sono finite. A parte qualche stupida mascherata antirazzista, i soliti vagiti no war, l'utero è mio, lavorare tutti lavorare meno, pagare tutti pagare meno ... le consuete sciocchezze, insomma.
Ho sempre avuto rispetto della canizie, ma ieri non avrei avuto pietà. Pietà l'è morta. Quei pochi sopravvissuti al nazismo e al fascismo (che all'epoca, in media, saranno stati adolescenti), al solo scorgere la zazzera della Camusso o l'esangue profilo della Furlan o il grugno dell'altro tizio (di cui non rammento il nome; l'oblio, a volte, è pietoso) avrebbero dovuto abbandonare il corteo, altro che storie. Un atto dovuto, da veri socialisti d'antan ... e invece, ecco i salamelecchi ... pure a Renzi, venuto a presenziare con la sua arietta sfottente, panza in fuori e mano in tasca, assieme a numerosi grassatori istituzionali di cui taccio il nome.
Va bene: le bandiere al vento, i fazzoletti, i labari, i ricordi, la nostalgia ... comprendo tutto, ma non la stupidità a fronte di un disastro epocale.
I giovani, poi, sono il peggio del peggio. È proprio il tipo fisico del sinistrato che ormai mi offende. Dal 1989 c'è stata davvero una pingue immane frana, come sosteneva, in tempi non sospetti, l'apostata Ferretti. I giovani, i trentenni, carne da cannone. Animali da cortile o da compagnia a cui il potere sta togliendo i recinti sociali che ancora li difendono dai predatori. I giovani della sinistra! Che utopia oppongono? I matrimoni bisex? L'utero in leasing? Il sogno europeo? Perché, come abbiamo spiegato, il turbocapitalismo un'utopia la possiede: un'Italia abitata da operai della piramide di Cheope, da centralinisti, da camerieri, da puliscicessi. Lo sanno, questo, i giovani de sinistra?
Ma no, non lo sanno.
E i danni non sono rimediabili. C'è da invertire una rotta politica, e, soprattutto, antropologica (per rotta non intendo direzione, bensì fuga disordinata davanti al nemico; o, peggio: resa senza condizioni). Impossibile a breve o medio termine.
Un partito di sinistra serio in Italia lo rivedremo nel 2050.
Forse.
E poi la manfrina di Bella ciao ...
La maggioranza di questi tipi, almeno, lo sanno cos'è Bella ciao?
Se voi lo ignorate, potete andare qua: Bella ciao, breve storia di una canzone.
C'ho scritto sopra qualcosa. Niente di originale, per carità …
En passant, dubito che i partigiani cantassero Bella ciao. Il canto istituzionale era Fischia il vento.
Dubito, parimenti, che i partigiani cantassero.
Cos’ha da cantare un soldato? Da che mi ricordi manco nei film sovietici di guerra più seri i soldati cantano: La ballata di un soldato; o il capolavoro di Larisa Shepitko, Ascensione. Chi ha voglia di cantare quando si rischia la buccia?
Se qualcuna di quelle anime belle (magari un esponente della gauche caviar) leggesse queste note penserebbe: fascista! Rossobruno!
Ormai l'epiteto non mi fa né caldo né freddo. Non è un'offesa, è una reliquia linguistica sedimentata nei gradi più superficiali dell'animo. Come quando, all'inizio del pranzo, ti dicono: "Buon appetito!". E tu sei costretto a rispondere: "Altrettanto!", se no sei maleducato.
Ma no, non sono fascista. Forse lo diventerò. Se serve. È la mia origine contadina e piccolo borghese a farmi pensare cosi. Non lo diceva pure Lenin che i contadini, in fondo, sono piccolo borghesi? Perbenisti, puliti, poco amanti della goliardia, secolari, ordinati, seriosi, renitenti alla novità. Come parecchi dirigenti del PCI del bel tempo che fu: timidi, completo bigio e cravatta, oscuri, sobri nella cieca dedizione. Ecco, io ero così: pepponiano, conservatore, puritano. Tale sono rimasto. E non mi piaceva l'andazzo frou frou della nuova sinistra, lanciata verso il partito leggero, la socialdemocrazia leggera, l'affarismo pesante, il capitalismo ben temperato; e ossimoricamente devota al rimpianto nostalgico (La locomotiva! La canzone del maggio!) e al frontismo dell'immaginazione al potere (gli Immaginifici ci sono poi andati davvero al potere: solo l'immaginazione è rimasta a terra).
Sono nato a sinistra, ma, anno dopo anno, sono rimasto un solitario. Divenni un tritone, mezzo comunista, mezzo risentito; mi prese male: litigai con qualcuno, abbandonai questo, mandai al diavolo quello.
Cambiai. E cambiò l'Italia. Anzi, vi confesso che, forse, fui io a rimanere al mio posto e la nazione, invece, come un satellite eretico, a mutare orbita e rivoluzione. Con una velocità che stupisce ancora adesso.
Il fascismo (ma sì, quello dei picchiatori) si confermò un residuato bellico: insignificante, irrilevante. Sorse il vero Fascismo: quello globale, finanziario; che compra gli uomini al mercato della pace; li irretisce coi flauti del nulla; li depriva delle emozioni, degli scatti dell'odio; li comanda e li placa con i giochi circensi e con gli appelli alla correttezza politica e ai cosiddetti diritti civili: la parodia immonda della politica e dei diritti che furono pagati con la vita dei milioni.
In questo bailamme ho imparato a riconoscere il Nemico. Il Nemico si presenta come un buon padre di famiglia: pensa a tutto lui, tu devi solo accondiscendere. Produci consuma crepa, ma con bonomia pubblicitaria. E però questo padre di famiglia, se lo osservate bene, ha i piedi da caprone.
Col tempo divenni ecumenico. Cominciai a parlare con tutti: vecchi fascisti delusi, sindacalisti al confino, casapoundiani, intellettuali dissidenti, trotzkisti fuori tempo massimo, anarchici, bombaroli, futuristi, populisti, nazionalpopolari, inattuali, integralisti cattolici (più sono integralisti più mi piacciono).
Quando il Nemico ti sovrasta si rappattumano le legioni reclutando tutta la soldataglia superstite.
Si fanno degli incontri assolutamente impensati, poi. È quasi divertente. Qualche anno fa venne organizzato un convegno sul partigiano Manlio Gelsomini. Manlio Gelsomini: ex atleta vanto del fascismo, medico, poi oppositore al regime: detenuto a via Tasso e assassinato alle Fosse Ardeatine. Gelsomini riuscì a scrivere, nella galera di via Tasso, un diario: lo nascondeva, durante il giorno, nelle fenditure interne del cappotto. Ma il diario chi lo conosce? Nessuno. Tutti sanno di quello d'Anna Frank (lo conoscono, mica lo leggono), ma chi sa che, prima di crepare, al gabbio, un Italiano (un Italiano!) scrisse un resoconto simile? Lo sapevate? No. Andiamo avanti: al convegno parlai anch'io: una breve relazione sulla lapide partigiana di Piazza San Zaccaria Papa a Roma, Italia: dodici nomi dodici morti. Ve lo dico per far capire chi sono.
All'incontro si presentarono quattordici persone. Quattordici. Ve lo dico per farvi capire cosa siamo diventati. Senza rancore.
L'unico appassionato alle parole dei relatori fu il signor Antonio: interveniva, rettificava, coinvolgeva. Alla fine si presentò: "Io studio da sempre la Resistenza ... prima mi sono un po' accalorato ... ho studiato la banda Mosconi [il capitano Fulvio Mosconi, comandante della Banda Fulvi cui apparteneva anche Don Morosini] ... sa, nei miei studi sono stato emarginato ... in quanto di idee liberali ... e monarchiche ... capisce, vero?".
E certo che capisco. Ora capisco più che mai. Non ho mai capito tanto.
Capisco che a un convegno sulla Resistenza non si presenta un cazzo di politico o micropolitico o attivista di sinistra. Della pletora di politici e micropolitici e attivisti che nutriamo, compresi quelli che fanno la morale agli altri cicalando Bella ciao nel sedicente Parlamento della Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza e fondata sul Lavoro, e nei ridicoli cortei prendingiro del 25 Aprile.
E cosa capisco ancora?
A sinistra hanno passato decenni a disprezzare il fascista, il populista, il bigotto, l'ignorante, quello che non legge, quello antifemminista e sessista, il razzista. Ma questi sono Italiani. E sono la maggioranza. Sono un distillato sociale, storico, millenario; e i fenomeni si studiano, non si giudicano.
Li si riconduce alla radice, per comprenderli. Una volta compresi cosa resta? Resta, oggi, la certezza d'essere parte di essi. Popolo. Italia.
Dall'Altro ho imparato tutto su di me.
Capisco, da ultimo, che il nemico non è il fascista o il sessista. Il Nemico è un potere enorme, disumano, impalpabile e globale che sta annientando la nazione e il suo passato. Un Nemico forte della poltiglia partitica che gli tiene bordone, destra centro sinistra. Di fronte alla liquidazione di un popolo non si può che rimanere atterriti: uno spettacolo mai visto, straziante.
Non si può che provare somma compassione per la Vittima, l'Italia. E alla fine, deposto il rancore, non si può che amare gli Italiani, questi poveri stronzi sbandati, senza patria, venduti al miglior offerente da un potere meschino quanto cinico.
Lo ammetto: amo l'Italia, il suo passato prossimo, la grandezza remota, i lembi dimenticati, le sacche irriducibili, gli antichi cantucci che resistono al genocidio.
Non è facile capirmi, ve lo concedo.
D'altra parte, come scrisse Tahar Ben Jelloun, per comprendere una singola vita è necessario inghiottire il mondo.
Magari neanch'io ho capito molto di ciò che sta accadendo all'Italia e al resto.
Sono solo uno sconfitto gonfio di risentimento, un fesso bilioso che invecchia.
caro signor Alceste, visto che a volte fa riferimento al cantautore barbuto e anche a quello più nobile genovese, perchè non scrive qualcosa su di loro? cordialità.
RispondiEliminaPrima o poi qualcosa scriverò.
RispondiEliminaCaro Alceste,
RispondiEliminami sono riconosciuto in questo tuo articolo, anche se ho un passato di militanza politica opposto al tuo. Avverto questo senso di isolamento dinanzi ad un mondo postideologico, postmoderno, post sempre qualcosa e niente altro, dominato da classi dirigenti che si sono legittimate sul tradimento dei propri ideali. Manca la ricerca di senso, la capcità di interiorizzazione della realtà.
Un caro saluto
Luigi - Italicum
Le militanze passate, tutte, se non fossero state anche sanguinose, sarebbero oggetto di burla.
EliminaQuanto tempo si è perso?
Questo nostro ormai è un mondo post umano, non solo post ideologico. Chi ancora parla di destra e sinistra dovrebbe capirlo alla svelta.
Wow!
RispondiEliminaBuonasera Alceste,
Eliminache ne pensi dell'ultima opera del tuo concittadino Nanni,
Il sol dell'avvenire?
Va bene il tu, dal momento che presumo siamo
coetanei? (forse son più anziana di di due o tre anni) .
Il tu va benissimo. Nanni ha licenziato un capolavoro ("La messa è finita") e un mezzo capolavoro ("Bianca") più un film interessante ("Palombella rossa"). Son film di piena crisi in cui egli vive davvero lo sfacelo del comunismo italiano e non vede futuro politico. Poi, pian piano, diventa borghese e si compiace del nuovo status. E la sua storia artistica termina bruscamente. Moretti non vanta né profonde convinzioni e né arte, registica e interpretativa: si limita, perciò, a riesumare sé stesso dall'attico benestante di Monteverde. Ne risultano film squilibrati, forzati e goffi nonché di poca comprensione della realtà: "Il Caimano" ne è un esempio. Questo suo ultimo film è l'ennesima maniera nostalgica, priva di intensità e reale sentimento.
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