Roma, 22 marzo 2019
Io sono leggenda. L’ultimo uomo della terra ancora lotta per l’umanità. Non sa di essere l’ultimo sopravvissuto della sua razza; per questo trova in sé, continuamente, a prezzo di sacrifici psicologici e fisici tremendi, la forza di contrastare la devastazione; di uccidere. In nome di cosa? Di un senso di appartenenza ch’egli ancora ricorda con vividezza. La propria casa, la città in cui ha vissuto, le strade, i palazzi, divengono il terreno di scontro fra lui e un nuovo e repellente ordine di viventi: vampiri, esseri ciechi, che, a notte, escono dalle rovine di ciò che, una volta, aveva un senso e ora decade, preda del kipple, l’entropia di Philip K. Dick: rifiuti, pulviscolo, putrefazione. I vampiri sono numerosi, compattati da un animalesco istinto gregario; si fiutano l’un l’altro, gli aliti fetidi condensati in vapori caldi nel freddo della notte; il buio è il loro elemento; la muffa, la disfatta, il vento che sibila fra i lacerti dei palazzi municipali e delle fontane essiccate, perno di arenghi ormai deserti, vigilati da centinaia di bocche mute, la dolce melodia che accresce una voglia di sangue inestirpabile. L’istinto li domina mentre assediano la casa dell’ultimo uomo. Vogliono farla finita, una volta per tutte.
Eloì, Eloì, lama sabactàni. I padri ci stanno abbandonando. E così le madri. Proprio mentre scrivo queste righe, inutili ovviamente, arriva la notizia che un altro padre è morto. Un parente stretto. La figlia non si capacita, urla, si ribella, rovescia tavoli. Ma è così. Cosa si intuisce di irreconciliabile dietro questi lutti? Il senso di una perdita generazionale che non potrà mai venire lenita: un’epoca scivola via per sempre.