Decifrare il passato (e il presente)

Racconti e improvvisazioni

Novità sconsigliate ai puri di cuore

11 dicembre 2021

Palle eoliche [Il Poliscriba]

Il Poliscriba

"E così da giorni abbiamo solo calci nel sedere,
Non sappiamo dove siamo, senza pane e senza bere
E questo pazzo scatenato che è il più ingenuo dei bambini
Proprio ieri si è stroncato fra le pale dei mulini ...
"

Francesco Guccini, Don Chisciotte

3 dicembre 2021
Cronaca dal bordo dell’Impero

L’insonnia, di questi dannati tempi, è un sintomo vitale.
A tappe forzate, la notte s’inabissa nell’oltremondano ed io, misurando poche stanze a passi lenti, medito sul da farsi - ad esempio, riguardo alla follia scientista ammantata di sadiche buone intenzioni - fino al primo annuncio d’alba di corvidi nerogrigi com’esuli pensieri all’uscita dalle tenebre urbane.
"Craaak! Craaak! Craaak!", i piumati affermano la presa di possesso sui faggi dietro al parcheggio,  dove verranno costruiti i nidi in primavera; con emissioni di tonalità opportune, esprimono un’etologica sequenza di avvertimenti ordinati sulla loro presenza, sull’eventualità di una difesa, di un attacco o di una fuga.
Durante l’inverno, pazientemente, spinti da una previdenza quasi affine a un’ultraterrena Provvidenza, in coppie, maschio e femmina, osserveranno poscia il cader di foglie, ogni biforcazione lignea scoperta dal Grecale che muta in Tramontana; studieranno pesi, misure, luci e ombre, destinate ad accogliere il cesto da loro meticolosamente costruito per la prossima covata, a continuità della specie.
Sapienza di saurischi aviani che seppero evitare l’estinzione del Cretaceo per impatto astronomico.
Dalle finestre affacciate sul mondocomio, invece, osservo l’estinzione del bipede umano, l’essere caduco e carnale, orfano di spirito, creatore e schiavo di macchine senz’anima, eredità genetica di minuscoli roditori notturni, anch’essi vissuti all’ombra di enormi sauri, scampati al devastante limite K-T, ma dei quali, evidentemente, l’ultimo mammifero della ridicola progressione darwiniana, non ha appreso  l’arte della ruvida soppravvivenza, sospinto passivamente da un desolante  e insensato andirivieni.

Colgo, nella penombra del mattino, frastornato da una flebile lanuggine umida, colui che fu il perfetto, l’Adam e i suoi discendenti - dei quali, non poche volte, mi dolgo d’esser fratellastro nella disgrazia - applicarsi dinanzi alla mia cinica malinconia, in un grattare assonnato del primo millimetro stagionale di ghiaccio dal parabrezza, scossi d’astinenza da caffeina.
Mi sovviene, da tale stanca visione, per un’associazione libera e imperscrutabile,  la lettura che feci delle lettere di Van Gogh al fratello Theo, dov’egli, sempre prodigo di dettagli sulla sua arte, spiegava il suo graffiar tele con pennelli improvvisati, stecche di bambù raccolte a latere dei torrenti della Provenza.
Così come si manifestano, senza ragione, i ricordi di una mia inevitabile infatuazione per certi stili pittorici, decisamente affini al primitivismo selvaggio, che non ravvisai pericolosa.
E feci male.
Abbacinato dai capolavori prodotti nella Casa Gialla di Arles, non compresi tosto lo scopo dell’esaltazione di quell’esecuzione pittorica che ne fecero i dissolutori, padroni del nuovo ordine mondiale.
Non previdi come l’ascesa post mortem di quei terribili creatori dalle retine infuocate e dalle mani vibranti d’ardore artistico e delirium tremens e l’elevazione di quell’imprecisione ribelle e anticonformista, non confacente con il logos dei giganti del passato, divennero pretesto per scagliare il disordine nell’empireo dei sensi, sconvolgendo la vista, per poi accedere a tutti gli altri.
Ma come color che son sospesi in questa bruma, anch’io dovevo tirare la carretta, assicurarmi  una sopravvivenza oltre il trastullo amaro degli studi matti e disperatissimi ... prosaiche attitudini, umane troppo umane, che nella stagione ancora acerba della vita di un mero cittadino, non garantiscono certo un viatico per la tragica saggezza delle disillusioni.
In questa mattina ancora semibuia, se devo estrarre dal museo delle tele, incastrato nelle mie vie mnesiche, un quadro del folle olandese che si attagli agli esseri che girano a vuoto intorno al gelo delle loro quattroruote al di là del mio vetro, tirerei fuori La ronda dei carcerati.
In quei tempi, anche i mulini giravano lenti, i mugnai conoscevano i semi, i venti, la consistenza della farina, la secchezza, l’umidità, le qualità organolettiche tastate dalle mani, attestate dal palato e dall’occhio  avvezzo al virare stagionale dei cromatismi celesti e terrestri, riflessi nell’alimentare polvere, nell’elementare nutrimento.
Vincent cercava il senso luminoso e numinoso, presagio  nei passaggi radenti dei corvi sul pelago biondo d’ un grano maturo, a tratti condensato in covoni che proprio in questi giorni son diventati ennesimo lucro miliardario per Rothschild e Christie’s.
Non lo trovò, confessando al fratello Theo, pria d’ abbandonare tele e colori all’avidità dei suoi dissimili con un colpo di rivoltella diretto al suo stomaco, alle spalle del Chateau d’ Auvers: “Questo è il modo in cui volevo andarmene, ci sono voluti pochi istanti e alla fine ho trovato la pace che non sono riuscito a trovare sulla terra”.
Era il 29 luglio 1890, anno in cui, in Danimarca, Poul la Cour costruiva la prima turbina eolica su suolo europeo.
Il suicida pittore, genio del tratto nervoso, materico e pesante, fu il Don Chisciotte che trasfigurò i mulini da forza lavoro estorta alle correnti d’aria, in oggetti di contemplazione artistica per un’impossibile coniugazione di spirito e materia.

Il fisico danese, un realista Sancho Pancha, ne volle invece fare un’evoluzione tecnica, priva di qualsiasi connotato bucolico e nostalgico da presentare all’Esposizione universale di Parigi, la Mecca della Ragione, il tempio di quella religione pagana che nacque per volontà di Robespierre, un secolo prima, proprio sul medesimo Campo di Marte.
Così, tra Stati Uniti e Nord Europa, s’iniziò una lunga corsa per dimostrare chi ci avea le pale più grosse.
Un gigantismo edile, ingegneristico, artistico, un’ipertrofia dei mezzi e dei fini, iniziò a possedere, senza più posa, dalla fine del diciannovesimo secolo, l’uomo delle piccole cose soggetto ed epigrafe da imbratta tele.
A causa di un intentato esorcismo non seppe liberarsi dell’Arcinemico, riducendosi, all’amplificarsi smisurato della sua tracotanza, della sua fede nella tecnica e nella scienza, dei suoi progetti e delle sue infelici realizzazioni, in un omuncolo vanesio, coglione e sbruffoncello senza mezzi e fini propri, servitore delle sue mostruose creazioni, dissolto come idrolitina in una collettività anonima, sbiadita e disgregata per interposto touch screen.

Negli ultimi due decenni del XX° secolo i  cinesi e gli occidentali si sono semplicemente spartiti i compiti della futura transizione energetica e digitale: i primi si sarebbero sporcati le mani per produrre i componenti della green tech, mentre i secondi, comprandoli da loro, si sarebbero potuti vantare delle loro buone pratiche ecologiche. Abbiamo scientemente e pazientemente architettato un sistema che ci permette di trasferire la nostra merda il più lontano possibile, e i cinesi, anziché storcere il naso, hanno accolto la nostra iniziativa a braccia aperte. In altre parole, il mondo si è organizzato come sempre ha fatto quando si tratta di liberi e schiavi: da una parte quelli che sono sporchi e dall’altra quelli che fingono di essere puliti”.

4 commenti:

  1. C’è una sola direzione nei volti che vedo
    È diretta al soffitto, dove si dice ci sia la camera
    Come la foresta combatte per la luce del sole, che mette radici in ogni albero
    Sono tirati in alto da un magnete, credendo di essere liberi

    Gli strisciatori del tappeto ubbidiscono ai visitatori
    “Dobbiamo entrare per uscire”
    “Dobbiamo entrare per uscire”
    “Dobbiamo entrare per uscire”

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    1. Si adatta bene, sempre dallo stesso album, the Grand Parade of lifeless packaging

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  2. Eh si van Gogh e soci hanno fatto fuori la tradizione accademica del Salon d'exposition. Da dominante a virtualmente sparita. E dire che io mi costellerei il salone di stampe di Bouguereau. Non certo le gigantografie di vignette di fumetti, o i manifesti pubblicitari d'epoca con cui la gente tappezza i muri di casa oggi.

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