Il Poliscriba
La civiltà meccanica e concentrazionaria produce merci e divora gli
uomini. Non si possono fissare limiti alla produzione delle merci. La
civiltà meccanica non si fermerà nella produzione delle merci se non
quando avrà divorato gli uomini. E li divorerà nelle guerre, a masse
enormi e a pezzi, ma li divorerà anche uno per uno, li svuoterà, uno per
uno, del loro midollo, della loro anima, della sostanza spirituale che
li faceva uomini. E sarebbe follia crederla capace di rendere un giorno
felici, in un mondo fatto per essi, questi uomini disumani. Li
distruggerà morendo essa stessa; essi periranno con lei, se simili
uomini possono ancora pretendere il diritto e l’onore di morire.
Georges Bernanos da La liberté, pour quoi faire?
Io non posso assolvermi, non posso farlo perché credo fermamente nelle mie responsabilità di fronte a questa civiltà che Bernanos denunciava e che nemmeno due guerre mondiali e due orribili totalitarismi, sono riusciti a cambiare.
Io sono responsabile, come ogni più minuscolo uomo, del mio essere di fronte all’uomo, a me stesso e prima dell’esercizio smisurato della critica sociale, o di qualunque critica di ciò che è altro da me, dovrei profondamente, indefessamente, senza sconti, mettere a nudo la mia carne e il mio spirito.
La menzogna, la maschera tragica o comica, quanto mi sono d’aiuto nell’arginare il nulla proteiforme che incessantemente tenta di forzare i miei spazi, i luoghi della decadenza civile dove non vivo ma sono vissuto, dove non parlo ma sono chiacchierato, dovo non penso ma sono progettato?
Uso la tecnica per espandermi o la sfrutto per nascondermi?
Uso la tecnica per interesse egoistico, narcisistico o inconsapevolmente mi faccio usare da essa scivolando tiepido, senza sussulti di coscienza, nel fiume di pixels che ci omologa di più e meglio di quanto non facessero i campi di lavoro e sterminio?
Io odio me stesso perché odio l’uomo.
Odio,
Dio ed io sono una sciarada per sottrazione, un’algebra al rovescio,
negativa quanto basta per affermare un me stesso contro il mondo, contro
la vita.
Solo al cospetto di questo mondo, di questa vita?
E degli altri mondi e delle altre vite, già mercificate, già consumate, che cosa so oltre le migliaia di pagine lette, meditate, scritte, rivoltate, proposte ai colti, ai semicolti, agli analfabeti che mi hanno giustamente disprezzato?
Simone Weil in una lettera a Bernanos, a uno spirito così apparentemente lontano, scriveva:
“Sin dall’infanzia le mie simpatie si sono rivolte verso quei gruppi che si presentavano come i difensori degli strati più disprezzati della gerarchia sociale, finché ho capito che quei gruppi sono tali da scoraggiare ogni simpatia.Voi mi siete più vicino, senza paragone, di quei compagni di Aragona [si riferisce alle milizie repubblicane antifranchiste], quei compagni che amavo”
Non i disgraziati, ma chi pretende di soccorrerli, sono invisi dalla Weil.
Tra me e il profugo, tra me e lo straniero, tra me e l’altro da me ci son di mezzo stuoli di questi gruppi che mi appannano la vista, che mi fanno sentire e dire ciò che vogliono che io dica e senta, che mi fanno pensare ciò che vogliono che io pensi, che mi fanno odiare o amare nel modo programmato dai loro tweet, cinguettii appunto, meglio... squittii di ratti di fogna, che scavano nella merda sociale per trovare chissà quali gemme da esibire trionfalmente come facevano nei saloon i cercatori di pepite del Klondike.
Quei gruppi che nella merda sociale ci sguazzano ma che con una doccia si ripuliscono e tornano ai loro pc, ai loro tweet, alla tecnica che li omologa e li fa sentire Dei compassionevoli, dei disincarnati che non vivono le vite di coloro che pretendono di salvare, ma che non salvano, scrutano, monitorano, come voyuer buonisti, pronti a saltare sul primo mezzo che li porti in salvo da quei mondi, da quelle esistenze che bruciano e puzzano da ogni centimetro cubico di cellule esposte al delirio dell’uomo contro l’uomo, della democrazia contro la barbarie, della tecnica superiore contro qualunque inferiorità.
Cerco di ricordare Dresda leggendo Mattatoio numero 5, ma non sento nulla, e se anche ho un moto di indignazione, non cerco giustificazioni piagnucolose, non spremo lacrime come un attore che si prepara alla scena drammatica, al quale si chiede di concentrarsi sugli aspetti più lugubri o commoventi della sua storia personale.
Io non sono un figlio della guerra e nemmeno della pace, io non ho radici, e se guardo Damasco ridotta a un cumulo di macerie filtrato da videocamere, o alle macerie della mia società, filtrate dalla mia scarsa memoria di epoche passate, mi rendo conto di non essere che un accidente storico orfano di tradizioni, abbandonato sul lastrico, raccolto da quella civiltà di macchine e campi di lavoro, alla quale sono stato affidato da genitori inconsapevoli di quale sarebbe stato il destino ultimo dell’umanità.
Non ho ereditato saperi antichi, gesti antichi, lenti fluire di ore, di pensieri, di ricordi, forse solo il maledetto dono di una preveggenza pessimista.
Sono depositario di un vuoto cosmico che mi si propone di riempire con la propaganda bieca, selvaggia, reiterata alla nausea, di strumenti per dominarmi e non certo per affrancarmi dal nulla che mi inghiotte, che inghiotte ogni centimetro cubico di cellule esposte alla follia dei diseredati dalla gioia o dal dolore del vivere in comunità, anche negli scantinati, sotto l’apoteosi di una pioggia di fosforo, quando, tra occhi impietriti, una rete di sguardi spera di ritornare alla vita di tutti i giorni; dal buio asfittico e polveroso, alla luce di quei ripetitivi giorni dei quali non so nulla e che, forse, vorrei vivere.
Dresda brucia ancora a Damasco, a Beirut, a Gaza, a Gerusalemme, a Tripoli, a Sarajevo, brucerà ancora ... e ancora ... e ancora …
È il fuoco rubato agli Dei che non si estingue.
Dice ancora Bernanos:
“Comprendiamo benissimo che il mondo moderno, o la specie di civiltà meccanica e concentrazionaria che chiamiamo con questo nome, non vuole tanto salvarsi, quanto sussistere ancora a spese dell’uomo, a spese di milioni e milioni di uomini massacrati, torturati, imprigionati, affamati”
La guerra è parte integrante della nostra esistenza, siamo al servizio di essa anche se spostata di migliaia di chilometri fuori dai nostri confini. Ma altre guerre si consumano all’interno dei nostri spazi, dei nostri cimiteri biologici, dei nostri agglomerati biomeccanici.
E aggiunge puntuale Bernanos:
“Le masse sono sempre più fatte non già di uomini uniti dalla coscienza dei propri diritti e dalla volontà di difenderli, ma da uomini di massa fatti per sussistere in massa in una civiltà di massa in cui, il più piccolo gruppo dissidente di uomini liberi, verrebbe considerato come una grave rottura di equilibrio, una minaccia di catastrofe, una specie di lesione, di fessura, capace di trascinare ben presto nella rovina tutto l’edificio”
Infatti, tutti i conati anarcoidi, egoisti, narcisisti, tutte le istanze delle minoranze, tutti i diritti sbandierati da ogni angolo del nostro mondo in putrefazione, sono appunto segni di una morte per soffocamento, una decomposizione cadaverica. Non scatenano piogge di missili sulle nostre case, sulle nostre preghiere, sui nostri simboli marcescenti, semplicemente perché sono essi stessi l’apocalisse silenziosa scatenata per mano nostra, il nostro perfetto suicidio lento e inesorabile.
Eccomi sulla ruota senza panorama: dannato insieme ai dannati; loro, miei strumenti per raggiungere i miei fini; io, loro strumento per la realizzazione di quel benessere assoluto individuale che, nell’ultima tappa del viaggio al termine della notte, coincide sempre con quella gelida giustizia che divarica la terra per far spazio a un’ ecatombe di fosse comuni, alla quale, per incapacità di sottrarvisi, si aderirà come giudici, delatori o spietati tribuni del popolo.
Solo al cospetto di questo mondo, di questa vita?
E degli altri mondi e delle altre vite, già mercificate, già consumate, che cosa so oltre le migliaia di pagine lette, meditate, scritte, rivoltate, proposte ai colti, ai semicolti, agli analfabeti che mi hanno giustamente disprezzato?
Simone Weil in una lettera a Bernanos, a uno spirito così apparentemente lontano, scriveva:
“Sin dall’infanzia le mie simpatie si sono rivolte verso quei gruppi che si presentavano come i difensori degli strati più disprezzati della gerarchia sociale, finché ho capito che quei gruppi sono tali da scoraggiare ogni simpatia.Voi mi siete più vicino, senza paragone, di quei compagni di Aragona [si riferisce alle milizie repubblicane antifranchiste], quei compagni che amavo”
Non i disgraziati, ma chi pretende di soccorrerli, sono invisi dalla Weil.
Tra me e il profugo, tra me e lo straniero, tra me e l’altro da me ci son di mezzo stuoli di questi gruppi che mi appannano la vista, che mi fanno sentire e dire ciò che vogliono che io dica e senta, che mi fanno pensare ciò che vogliono che io pensi, che mi fanno odiare o amare nel modo programmato dai loro tweet, cinguettii appunto, meglio... squittii di ratti di fogna, che scavano nella merda sociale per trovare chissà quali gemme da esibire trionfalmente come facevano nei saloon i cercatori di pepite del Klondike.
Quei gruppi che nella merda sociale ci sguazzano ma che con una doccia si ripuliscono e tornano ai loro pc, ai loro tweet, alla tecnica che li omologa e li fa sentire Dei compassionevoli, dei disincarnati che non vivono le vite di coloro che pretendono di salvare, ma che non salvano, scrutano, monitorano, come voyuer buonisti, pronti a saltare sul primo mezzo che li porti in salvo da quei mondi, da quelle esistenze che bruciano e puzzano da ogni centimetro cubico di cellule esposte al delirio dell’uomo contro l’uomo, della democrazia contro la barbarie, della tecnica superiore contro qualunque inferiorità.
Cerco di ricordare Dresda leggendo Mattatoio numero 5, ma non sento nulla, e se anche ho un moto di indignazione, non cerco giustificazioni piagnucolose, non spremo lacrime come un attore che si prepara alla scena drammatica, al quale si chiede di concentrarsi sugli aspetti più lugubri o commoventi della sua storia personale.
Io non sono un figlio della guerra e nemmeno della pace, io non ho radici, e se guardo Damasco ridotta a un cumulo di macerie filtrato da videocamere, o alle macerie della mia società, filtrate dalla mia scarsa memoria di epoche passate, mi rendo conto di non essere che un accidente storico orfano di tradizioni, abbandonato sul lastrico, raccolto da quella civiltà di macchine e campi di lavoro, alla quale sono stato affidato da genitori inconsapevoli di quale sarebbe stato il destino ultimo dell’umanità.
Non ho ereditato saperi antichi, gesti antichi, lenti fluire di ore, di pensieri, di ricordi, forse solo il maledetto dono di una preveggenza pessimista.
Sono depositario di un vuoto cosmico che mi si propone di riempire con la propaganda bieca, selvaggia, reiterata alla nausea, di strumenti per dominarmi e non certo per affrancarmi dal nulla che mi inghiotte, che inghiotte ogni centimetro cubico di cellule esposte alla follia dei diseredati dalla gioia o dal dolore del vivere in comunità, anche negli scantinati, sotto l’apoteosi di una pioggia di fosforo, quando, tra occhi impietriti, una rete di sguardi spera di ritornare alla vita di tutti i giorni; dal buio asfittico e polveroso, alla luce di quei ripetitivi giorni dei quali non so nulla e che, forse, vorrei vivere.
Dresda brucia ancora a Damasco, a Beirut, a Gaza, a Gerusalemme, a Tripoli, a Sarajevo, brucerà ancora ... e ancora ... e ancora …
È il fuoco rubato agli Dei che non si estingue.
Dice ancora Bernanos:
“Comprendiamo benissimo che il mondo moderno, o la specie di civiltà meccanica e concentrazionaria che chiamiamo con questo nome, non vuole tanto salvarsi, quanto sussistere ancora a spese dell’uomo, a spese di milioni e milioni di uomini massacrati, torturati, imprigionati, affamati”
La guerra è parte integrante della nostra esistenza, siamo al servizio di essa anche se spostata di migliaia di chilometri fuori dai nostri confini. Ma altre guerre si consumano all’interno dei nostri spazi, dei nostri cimiteri biologici, dei nostri agglomerati biomeccanici.
E aggiunge puntuale Bernanos:
“Le masse sono sempre più fatte non già di uomini uniti dalla coscienza dei propri diritti e dalla volontà di difenderli, ma da uomini di massa fatti per sussistere in massa in una civiltà di massa in cui, il più piccolo gruppo dissidente di uomini liberi, verrebbe considerato come una grave rottura di equilibrio, una minaccia di catastrofe, una specie di lesione, di fessura, capace di trascinare ben presto nella rovina tutto l’edificio”
Infatti, tutti i conati anarcoidi, egoisti, narcisisti, tutte le istanze delle minoranze, tutti i diritti sbandierati da ogni angolo del nostro mondo in putrefazione, sono appunto segni di una morte per soffocamento, una decomposizione cadaverica. Non scatenano piogge di missili sulle nostre case, sulle nostre preghiere, sui nostri simboli marcescenti, semplicemente perché sono essi stessi l’apocalisse silenziosa scatenata per mano nostra, il nostro perfetto suicidio lento e inesorabile.
Eccomi sulla ruota senza panorama: dannato insieme ai dannati; loro, miei strumenti per raggiungere i miei fini; io, loro strumento per la realizzazione di quel benessere assoluto individuale che, nell’ultima tappa del viaggio al termine della notte, coincide sempre con quella gelida giustizia che divarica la terra per far spazio a un’ ecatombe di fosse comuni, alla quale, per incapacità di sottrarvisi, si aderirà come giudici, delatori o spietati tribuni del popolo.
Grazie per aver ricordato Bernanos, Simone Weil... se ci facessero studiare "I grandi cimiteri sotto la luna", "Il diario di un curato di campagna"... se ci fosse ancora spazio per la spiritualità; vedremmo ancora bene dove vuol condurci la bestia...
RispondiEliminaPer Unknown
RispondiEliminaGrazie per la lettura di questo blog che, come afferma il suo fondatore, è una nota a pie' di pagina della già minuscola e inessenziale controcultura digitale.
Dal canto mio resto e resterò sempre un umile cantore dell'Ecclesiaste.
Buongiorno. È strano che Bernanos, che non conoscevo prima di questo articolo, non si sia schierato con l’Asse. Altri grandi pensatori del ‘900, che ripudiavano la società mercantilista democratica, come Hamsun o Cèline, si schierarono tutti con Italia e Germania. Comunque anche questo è un bel articolo. La società della produzione infinita, che inesorabilmente sradica gli uomini dal tessuto sociale che la loro cultura aveva creato (i contadini che negli anni ‘50/‘60/‘70 diventano operai; li è iniziato il disastro), non può che portare all’alienazione dalla Cultura stessa. Così le ultime generazioni, cresciute con uno stile di vita e in un ambiente totalmente diverso da quello dei loro antenati, sono estranei al loro modo di vivere e di pensare, spezzando una catena millenaria (quanti di loro sapranno fare l’olio, il vino, la salsa, il maiale, ecc?). Contemporaneamente vengono abituati a vivere in un mondo massificato e standardizzato per tutto il mondo. Oggi le nazioni muoiono perché non esistono differenze tra le nazioni stesse. Qual è la differenza, oggi, tra un francese, un italiano, un tedesco, un inglese, un americano? Nessuna se non consideriamo la lingua (differenza che verrà eliminata dalle nuove generazioni). Mangiano tutti lo stesso cibo (le merdate in serie tipo lidle, mc donald, i vari prodotti delle multinazionali), indossano gli stessi abiti, ascoltano la stessa musica, guardano gli stessi film, ecc. È il livellamento totale, la distruzione di culture millenarie sostituite con Coca-Cola e Hollywood. E dovremmo stupirci che questa gente senza cultura e identità non si ribelli contro l’immissIone del negro? L’Europa, uccisa nello spirito (‘89) e nell’anima (‘45) sta per essere distrutta nella carne. Cordiali saluti,
RispondiEliminaEnrico Barra.
Grande scritto!
RispondiEliminaPoliscriba se digita "aaargh Italia" trovera ' il meglio : Celine !bagatelle ,LA scuola dei cadaveri ,LA bella rogna tutto in PDF gratis. LA chiave di Tutto CE l'ha Celine difatti l'editore che doveva ripubblicare I suoi 3 scritti e'stato chiamato all'Eliseo alla chetichella con l'ordine di non pubblicare niente
RispondiEliminaPer Enrico Barra
RispondiEliminaGrazie.
Bernanos non si schierò per motivi religiosi, era un fervente cattolico, ma non un bigotto. Eccellente scrittore, oltre che saggista, il suo primo incontro con le destre europee lo ebbe in Francia, critico della Rivoluzione Francese, ma anche nei confronti di Franco, per i rapporti ambigui che il Caudillo ebbe con il Vaticano o più precisamente con la questione dei massacri perpetrati a danno delle comunità cristiane dai repubblicani che la falange non considerò materia di difesa territoriale. Ecco spiegata la vicinanza apparentemente strana tra lui e la Weil. Forse negli anni della riflessione sul primo cinquantennio del secolo XX, egli si sentì un cristiano integralista, sinceramente e non cambiò mai casacca.
Per Adriano Dragotta
Grazie.