Decifrare il passato (e il presente)

Racconti e improvvisazioni

Novità sconsigliate ai puri di cuore

26 febbraio 2019

Avemo vinto, poppolo (elezioni e illusioni)


Roma, 26 febbraio 2019

Il veleno più insinuante che non riusciamo a diluire: la democrazia liberale.
Questo concetto ce l’hanno marchiato a fuoco in anni felici e ora, come il tatuaggetto di una nota canzoncina, è impossibile toglierlo. Se ne può fare uno più grosso, certo, che inglobi il precedente, ma cancellare quella patacca … non si può, non si può, signora mia …

La democrazia è bella, giusta e, sulla carta, uno vale uno, e poi c’è la libertà, la libertà di fare cosa non lo sappiamo, ma siamo liberi. Liberi di partecipare a un concorso pubblico con eguali diritti e possibilità? No, quello no. Liberi di scegliere un lavoro? Ma se è tanto che ne hai uno, pur miserabile. Liberi di far sì che i figli abbiano le stesse possibilità degli altri? No, neanche questo. Liberi di godere i diritti di una sanità eguale per tutti? No, non questo. Liberi di scegliere il Presidente della Repubblica, i magistrati, il capo della polizie? No. Liberi di scegliere i dirigenti di Equitalia, dell’Agenzia delle Entrate, dei ministeri, delle ambasciate? Della RAI? No, caro signore, è il patriziato a selezionare tali individui … per via endogamica, incestuosa … per non avere sorprese … e poi non si può certo ricorrere al poppolo per così poco … lo si disturba, mi capisce? Allora … allora, ecco l’azzardo … io la butto là … forse, forse … liberi di votare? Bravo, proprio così!

22 febbraio 2019

Il crollo della Galassia Centrale


Roma, 22 febbraio 2019

La metafora dell’abisso è perfettamente adeguata.
Cadere nell’abisso. Abiezione. Abietto.
La faccenda, credetemi, è semplice. Si cade, ma, privi d’ogni riferimento, non si cerca di risalire; anzi, si prende gusto alla caduta in una sorta di cupio dissolvi. A un certo punto ci si sorprende a esclamare: “Ma sì, tutto è perduto, di più, ancora di più!”: la gioia nell’autodistruzione, di sé e di tutto, persino di ciò che si reputava eminente e bello, è un ragno che ha tessuto la sua tela per anni e anni, all’oscuro, entro le più intime fibre del nostro essere; finché questo animalino, che non degnavamo d’uno sguardo, tale sfuggente e simpatico esserino, creduto innocuo per un lungo tempo negligente, non decide di stringere le fila del lavoro secolare; e allora le trippe si accorgono che la tela è costituita da fili d’acciaio. Stringe cuore e budella in una morsa terribile e ci fa gridare, sempre più forte, in una foia d’annientamento, che la caduta è bella, desiderabile, è ciò che si voleva, è una liberazione, finalmente.
Il superuomo o Ubermensch di Nietzsche è qui fra noi.
Colui per cui il piacere (la Volontà di Potenza!) consisteva persino nella gioia del proprio annientamento: eccolo qua.
E però non scorgo bestie bionde, o signori; e nemmeno una nuova aristocrazia.

18 febbraio 2019

La paranza dei bambini


Roma, 18 febbraio 2019

Alle tre, mentre il cielo grava soffocante come una lastra infuocata di rame, il Sofferente invoca a gran voce il Padre. Tradito dai compagni e dal proprio stesso popolo, dal potere che vuole la continuazione di sé stesso nell’intrigo, il Re dei Giudei sfoga il disinganno verso un cielo muto. Ai piedi della croce un gruppo tremolante, nerovestito, soffocato dalle lacrime: Maria, la madre, Maria di Magdala, la moglie; la zia, Maria di Cleofa. Un Giovanni quasi imberbe è nei pressi, a capo chino: il Maestro muore.
Le derisioni, gli sberleffi, l’avidità della bassa spoliazione, i carnefici, l’efficienza burocratica dei funzionari: l'andirivieni prosaico della giustizia.
Ma chi legge dell’Agonia non può che rimanere sconcertato davanti alla fisicità evidente e cruenta della morte. Questo Uomo sfuggente, che parlava in parabole, che nulla scrisse e mai sorrise ("Flevisse lego risisse numquam"); irascibile, sdegnoso, duro, misantropo, ha riservato la sincerità della disperazione negli attimi fatali. Parla al proprio Padre, ad alta voce, finché, lanciando un grido straziante, per noi spaventoso, si congiunge all'eternità.

11 febbraio 2019

Fatemi una faccia da guerra


Roma, 11 febbraio 2019

Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”.
Così recita il nono comandamento del Manifesto dei Futuristi.
Prendere Filippo Tommaso Marinetti per imbecille è facile. Liberarsi dall’eco profonda delle sue rodomontate, se si possiede un animo equanime e impavido di fronte alla rivelazione della verità, molto più difficile.
Cerchiamo di comprendere.
Siamo stati educati, io e la generazione dei Settanta, nonché quelle a me seguenti, al rifiuto preciso e costante della guerra. La Costituzione Italiana, peraltro, descrive  chiaramente il ricorso alla guerra come sopraffazione. La Costituzione del 1946 anela la pace; e le costituzioni di tutti gli ammirevoli enti che ci han fatto studiare a scuola (Europa, ONU, UNESCO, UNICEF, FAO) contengono inviti solerti alla pace e al ripudio della guerra. Siamo uomini di pace, insomma. Programmati per la pace. L’arte è programmata per la pace tanto che l’antimilitarismo è divenuto cibo per ogni tizio che voglia impressionare una pellicola, lordare una tela, imbrattare un pezzo di carta.

05 febbraio 2019

Mamma, li Bianchi!


Roma, 5 febbraio 2019

L’ultimo gradino … quel gradino finale, decisivo, che porta alla soglia dell’irreparabile, spalanca l’abisso, divide per sempre dal dopo … viene avanti una figura inedita che si affaccia all’orizzonte del nostro Paese … silenziosa, qualcuno che nelle mille convulsioni dell’Italia ancora non conoscevamo, e che sembra spuntare di colpo dalle pagine di un romanzo di Harper Lee sull’America più profonda: è il fantasma dell’uomo bianco”.
Queste parole sono scandite dalla prosa, nobile e piagnucolosa, di Ezio Mauro, ex direttore de “La Stampa” e di “Repubblica”.
Il libro da cui sono estratte si titola: L’uomo bianco. Per la comprensione immediata del brogliaccio ecco il breve sunto: “Siamo noi che, lasciandoci via via rinchiudere nella corteccia delle paure nostre e altrui, ci trasformiamo come dei mutanti, fino a voler tornare a distinguerci in base alla pelle e al sangue. È l’ultimo spettro italiano: quello dell’uomo bianco”.