Il Poliscriba
Una
prosa avulsa dalle insulsaggini PolCor, dovrebbe oggi corroborare quelle poche
anime infiammate costrette in corpi ghiacciati dall’incessante vivere
meccanico.
Tutto
ciò che si scrive sulla vita, dopo i
periodi decadentisti, surrealisti, strutturalisti, concettualisti e
pornoedonisti, dovrebbe mirare a un’espressione segnatamente realista, quella
che 170 anni fa si definiva naturalista.
A tal
proposito, ricordo con disappunto quando mi recai alla prima moschea aperta a
Torino nelle vicinanze di Porta Susa. Trattavasi di un umile trilocale sopra i
portici di c.so San Martino. Era il 1990; fui invitato da due compagni di
stanza (condividevo un piano di abitazione all’interno del quale più stanze
erano affittate a studenti universitari come me, a impiegati o lavoratori in
trasferta), provenienti dal Marocco che, all'epoca, si guadagnavano e
rovinavano la vita lavorando in una conceria.
Perché
disappunto?
Perché,
come potei da subito notare, le nostre “culture” non si potevano incontrare né
sulla base di un sincretismo religioso, né su quella, ancor più sdrucciolevole,
di una condivisione storica, letteraria, artistica, semantica, etc.
L'Imam
che conobbi si era formato in una madrassa a Casablanca e di Dante, Lapo e
Guido, Machiavelli, Pontormo, Tasso, Saladino, l'immensa cultura classica,
Leopardi, Aretino, o i grandi geni italiani, non conosceva nulla, perché nulla
della grande e generosa Italia, dei tremila anni della sua storia, dagli
Etruschi a Montale, gli era stato insegnato.
Né
allora né oggi ho paura di questi arabi
che hanno sostituito in Nord Africa quel connubio di saperi e sentire che
intercorse tra egizi, nubiani, greci e latini; poiché non decontestualizzo tout
court, non temo la storia che li ha forgiati, quella di nomadi allevatori di
capre, di guerrieri violenti, sadici, ma anche capaci di sottile filosofia
militare e altrettanto sagace lettura dei cuori umani che si ritrova ancora intatta nelle parole
dei loro grandi narratori di storia che hanno influenzato. nel bene e nel male,
la nostra forma mentis.
E so,
con altrettanta sicurezza scientifica, che un frammento genetico di queste
genti si ritrova intrappolato nelle
spire cellulari dei mediterranei, perché
seppero mutare l’Asia, il Mare Nostrum e i Balcani in un impero vasto e
invidiabile per estensione, potenza e bellezza artistico-architettonica
attraverso una delle più grandi fusioni razziali, incisivamente ed anche meglio
di quanto non riuscirono le stirpi mongole, nordiche o di quanto realizzò la
casata sveva o il primo e sempre imitato Alessandro il Macedone.
Tuttavia,
in quel lontano 1990 sapevo, razionalmente e non emotivamente, che non mi
trovavo al cospetto di rifugiati della splendida Baghdad del X secolo che
intonavano le sure in una lingua che non mi apparteneva e verso la quale non
sentivo quel trasporto che invece segnò la vita spirituale e umana di Charles
Eugène de Foucauld che l’amò intensamente
e dalla quale si fece tradurre in un peregrinare tra i viottoli in luce
e in ombra di quegli agglomerati di pietre appartenenti a un Oriente esperito e
non soltanto appreso per logica, e studiandola, per farla propria, finì per
infatuarsi, travestito da berbero, vivendo come un berbero, dell’Islam e della
sua potente e fascinosa mistica estetica, come lui ebbe a scrivere in
riflessioni postume al suo ritorno alla cristianità.
Cercai
di raccontare ai due compagni di strada marocchini e al loro pedagogista
spirituale degli scrittori europei che ebbero una predilezione per il loro
mondo, autori che non immaginavano neppure fossero esistiti: gli citai Rimbaud,
Lawrence Durrell, Gide, la fantascienza di Frank Herbert.
Io
tiravo fuori storie di ordinario scambio culturale tra quei pianeti non così
lontani tra loro, cercando di far leva su un patriottismo comune, s’un senso di
appartenenza a luoghi, a una fede religiosa, all’epos estinto risultante di una
forgiatura lessicale di millenni.
Neanche
le grandi battaglie: la presa di Costantinopoli da parte di Solimano il
Magnifico, la Battaglia di Lepanto, l’assedio di Vienna, li smuoveva.
Mi
risolvevo di capire cosa in quei giovani era filtrato dal passato remoto,
rispetto a quello che era precipitato in me soltanto attraverso l’educazione
scolastica.
Vacuità
nei loro occhi, vacuità nei miei quando tentavano di convincermi della bontà di
Allah e dei sacrifici che facevano per mettersi da parte i soldi per il
pellegrinaggio alla Mecca.
In
fondo, la loro era una fede che garantiva un minimo di coesione sociale in una
città che non gli apparteneva, in una società dove ancora non erano stati
omologati, come oggi accade per le nuove generazioni di giovani arabi che
scimmiottano i rapper afroamericani strafatti di bigmac e marijuana.
Sentii
un vuoto e lo avvertii come lo avverto quando leggo di quel ritorno di Papini
presso la sua campagna natia che lo rinfrancava della sua finitudine d’uomo e gli
ricordava cosa significasse sentirsi toscano prima ancora che italiano.
Ancora
oggi avverto uno stordimento, una vertigine quando m’immergo nell’oceano
smisurato degli incontri-scontri tra Europa e mondo arabo avvenuti in 14
secoli; così come mi assale un’immagine vitrea e annebbiata nel momento esatto
in cui mi specchio nelle metamorfosi di Ovidio, nelle puntuali descrizioni dei
vizi e delle virtù mirabilmente incastonate nei pantheon olimpici discesi da
tutti i punti cardinali; quando mi perdo e non mi ritrovo nella devozione per
Allah o per il Dio abramitico temibile, giusto e infinitamente amorevole o in quello sensuale dello Śrīmad Bhāgavatam;
quando scopro, nella pazzia nichilista del nostro tempo, tratti di una follia
sempre in agguato nelle visceri dell’uomo, come in quelle dell’Eracle di
Euripide, e quando nei congiaria ravviso più amore per il popolo di quanto ci
promettano i ciarloni dell’odierno populismo.
Non
penso potrà più formarsi un piccolo esercito di patrioti, giannizzeri o
crociati che siano, come gli eroi che si scontrarono nel 1683 davanti ai
bastioni viennesi di Burg e Lebel; mi sembra che una minuta fanteria di Jean
Floressas Des Esseintes, alla quale credo indebitamente di appartenere, stia
misurando il tempo che la separa dalla tomba, immersa in una trincea di
disperazione controcorrente, mai pronta all’assalto, ma divisa tra il fucile e
la Bibbia.
Oppure,
come scriveva l’Ismaele di Moby Dick:
"Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che
nell'anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare
senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i
funerali che incontro; e soprattutto quando l'ipocondrio riesce a dominarmi
tanto, che solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per
strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente,
allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto: questo è
il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un gran gesto filosofico
Catone si butta sulla spada: io, zitto zitto, m'imbarco".
Io, per dire, trovo imperdonabili anche gli italiani che in massa lasciano il paese. C'è qualcosa di sbagliato in questi abbandoni, c'è una distorsione alla base. Tutti alle Canarie per godersi la pensione, a Londra a lavare i piatti, a Berlino a succhiare welfare e nessuno a protestare qui.
RispondiEliminaSempre più elementi indicano l'autore come ecclesiastico..
RispondiEliminaPer Emilio Solfrizzi
RispondiEliminaNon sono un ecclesiastico, semplicemente esploro le vie della tradizione, o meglio, navigo a ritroso dalla foce alla fonte, per ritrovare, ritrovarmi e sentirmi più umano rispetto alla disumanizzazione che imperversa incontrastata. Come ho già risposto a un altro commento mi sento un cantore dell'Ecclesiaste, che non ha, almeno per me, lo stesso valore dell'essere un testimone di qualche fede religiosa.
Saluti cordiali
Peccato, avrei apprezzato un prete con le sue aspirazioni e passioni così ben spiegate come sopra. Apprezzo molto quello che lei e Alceste fate proprio perché rappresenta per me quelle sempre più rare oasi di pensiero libero e intelligente che rinfrancano la mente obnubilata dallo pseudo reale e fortificano il cuore stillante dolore e disprezzo. Grazie infinite!
RispondiEliminaPer Emilio Solfrizzi
RispondiEliminaLa ringrazio, anche a nome di Alceste.
Cordiali saluti