Pubblicato il 26 gennaio 2016
Vi ricordate il comico Antonio Cornacchione?
E, soprattutto, il tormentone: Povero Silvio!
Sembra passato mezzo secolo e, vi prego di credermi, non è una metafora.
Rimpiango quegli anni. Vi era acceso, in fondo all’animo, ancora un piccolo fuoco di speranza. La speranza che, prima o poi, qualcuno prendesse a calci nei denti i vari D’Alema, Bondi, Gasparri, Bossi, Diliberto, Veltroni; e tutta quella schiera di figuri che, sotto le spoglie della neutralità tecnica, stava spolpando l’Italia: Dini, Treu, Andreatta, Ciampi.
Inutile star qui a compilare liste: i nomi li conoscete tutti.
Povero Silvio! E tutti giù a ridere.
Povero Silvio! Con la mano destra si tenevano la pancia per le gran risa, con la sinistra incassavano gli onorari. Pagati da chi? Dal povero Silvio, ovviamente!
Va bene, lasciamo stare, tempi lontani.
Poi venne Monti e la voglia di sghignazzare subì un drastico declino. Vi ricordate? Mario I il Sobrio potava il welfare come un giardiniere invasato mentre la stampa si occupava a tempo pieno delle mignotte del povero Silvio.
E, soprattutto, il tormentone: Povero Silvio!
Sembra passato mezzo secolo e, vi prego di credermi, non è una metafora.
Rimpiango quegli anni. Vi era acceso, in fondo all’animo, ancora un piccolo fuoco di speranza. La speranza che, prima o poi, qualcuno prendesse a calci nei denti i vari D’Alema, Bondi, Gasparri, Bossi, Diliberto, Veltroni; e tutta quella schiera di figuri che, sotto le spoglie della neutralità tecnica, stava spolpando l’Italia: Dini, Treu, Andreatta, Ciampi.
Inutile star qui a compilare liste: i nomi li conoscete tutti.
Povero Silvio! E tutti giù a ridere.
Povero Silvio! Con la mano destra si tenevano la pancia per le gran risa, con la sinistra incassavano gli onorari. Pagati da chi? Dal povero Silvio, ovviamente!
Va bene, lasciamo stare, tempi lontani.
Poi venne Monti e la voglia di sghignazzare subì un drastico declino. Vi ricordate? Mario I il Sobrio potava il welfare come un giardiniere invasato mentre la stampa si occupava a tempo pieno delle mignotte del povero Silvio.
Il primo Renzi, sfottente e sicuro di sé, incarnava il secondo talento. Un gran Pulcinella. Arrivava il diavolo e lui lo bastonava. Arrivava Pantalone e lui riusciva – a furia di stordirlo di vanterie e gradassate – a scucirgli bei soldoni in cambio di un bel sacco d’aria fritta; arrivava Colombina ed era sua; entravano i gendarmi e lui svicolava col marameo appiccicato al naso, fra gli applausi di tutti.
Devo ammetterlo: il primo Renzi fu un successo (ma non fu vera gloria, come vedremo).
Come tanti – Prodi, Monti, Dini, Letta e Ciampi – egli non è stato certo un politico di vaglia: particolarmente sveglio o intelligente o astuto.
No. Erano solo gli Italiani a essersi rimpiccioliti.
Per loro vale la sentenza di Cassio:
“E allora, perché Cesare dovrebbe essere un tiranno? Pover’uomo! So bene ch’egli si guarderebbe dall’essere un lupo, se non si fosse accorto che i Romani non sono altro che pecore. Non sarebbe un leone se i Romani non fossero cerbiatti”.
Perchè gli Italiani si siano rimpiccioliti in un paio di generazioni è dibattuto.
Il benessere? La dittatura delle minoranze? La spietata censura del politicamente corretto? Fatto sta che ben li definisce ancora una battuta del sagace Cassio, lo sparuto, febbrile Cassio:
“Morto è lo spirito dei nostri padri e noi siamo governati da quello delle nostre madri e il giogo che tolleriamo di portare fa capire a noi stessi che siamo più soltanto delle femmine”.
A merito di Renzi qualcuno potrebbe ascrivere una brillante capacità di occultare la disfatta; eppure sento che anche tale qualità è merito di altri sicari, di cui s’intuisce solo la sagoma, nell’ombra. In fondo il Nostro non fece che sfruttare la sorpresa, una legge elettorale illiberale, ricca d’un premio di maggioranza inaudito, e la consueta vigliaccheria della sinistra che tanto abbaia quanto concede al potere. Tutto qua.
Il primo Renzi fu un successo, comunque, ricordiamolo tutti.
Da un po’ di tempo, tuttavia, la locomotiva del consenso sferraglia in modo sinistro. Il carbone della popolarità – il soldo pubblico – scarseggia, tanto che a malapena riesce a soddisfarsi l’ingordigia di macchinisti e fuochisti; un rancore silente cova nelle ultime carrozze, le più fatiscenti; i padroni del vapore, incuranti della realtà, esigono ulteriori accelerazioni: Matteo I è, quindi, costretto, che lo voglia o no, a bruciare pancali, infissi e tetti dei vagoni per non perdere velocità.
La locomotiva che mangia il treno, in attesa di mangiare sé stessa.
Un preclare caso di deflazione.
E come sempre, quando la storia si distacca dal reale, assistiamo al progressivo inverarsi di una fantasmagoria di sentimenti: prima la divertita menzogna pulcinellesca, quindi l’invettiva contro i nemici (immaginari) che remano contro, poi l’arroganza e il pugno di ferro; finalmente la presa d’atto che si è quel che si è, dei burattini.
Renzi/Pulcinella si è accorto d’essere un burattino. È peculiare dei burattini che di volta in volta entrano in scena, la convinzione d’essere loro, con le loro leste mossette, a muovere le dita del puparo; nonostante la storia, l’esperienza e l’evidenza gridino il contrario, il burattino di turno ci casca sempre. E così lui.
Non mi ricordo chi disse che esistono dinastie plurisecolari di banchieri, ma non di politici (a meno che i politici non siano banchieri anch’essi, come i Medici).
Ma i Renzi – e tutti gli altri – ci cadono lo stesso.
E ora: povero Renzi!
E sì, perché il nostro Matteo si è accorto che anche l’ultimo dei gaglioffi monocratici, per governare, ha bisogno del popolo. Non del popolo che vota, beninteso, ma di una diffusa arietta benigna che gli consenta di non sentirsi troppo in colpa nel suo lento lavoro di smobilitazione dell’Italia. Va bene vendere la nazione pezzo a pezzo, ragiona fra sé e sé il ragazzo fiorentino, ma uno zuccherino a questi fessi bisognerà pur darlo ogni tanto.
Peccato che i pupari che l’han messo lì delle esigenze politiche del Nostro se ne freghino altamente; anzi, più passa il tempo, più chiedono nuovi sforzi alla motrice mezza ingrippata. E così Renzino non sa più cosa fare: da una parte vede i grugni depressi degli Italioti, dall’altra sente la punta acuminata dello spread puntata direttamente nella schiena.
E allora cosa fa il Pulcinella dell’Arno? Cerca di tornare alle origini: ingaggia finte liti coi padroni del vapore, sbruffoneggia a salve, pesta i piedi. Qualcuno ci cade, persino qualche oppositore gli dà credito (meglio lui che il Monti bis!), ma basta osservare le movenze per accorgersi che la vecchia fluidità è persa, la magia svanita e le dande che scendono dall’altro son sempre più strette, costringendolo a mosse e boccacce grottesche contro la sua volontà.
Insomma è tempo: il Renzino bastonatore, prima o poi, si prenderà il consueto fracco di legnate e sparirà dalla scena accompagnato dal silenzio attonito degli spettatori.
Quegli spettatori che non capiranno, una volta di più, perché quel brillante giovinotto che prima tutti i giornaloni di Mangiafuoco esaltavano come spigliato primo attore, ora se ne torna dietro le quinte, appeso malinconicamente alla trave della dimenticanza, come un burattino passato di moda.
La mia opinione, per quel che conta, è questa: prima se ne va, meglio è.
Se c’è una cosa che mi riesce intollerabile è il prolungamento dell’agonia.
Verrà un nuovo Monti? Bene, benissimo.
Il ritorno è nei fatti, inutili gli scongiuri.
Faccia il suo lavoro, ce lo siamo meritato.
E poi l’ho sempre detto: l’unico italiano ribelle è quello in mutande.
bravo
RispondiEliminabravo, complimenti
RispondiEliminaGrazie a te, Antonio.
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