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24 giugno 2017

Più felicità per tutti


Pubblicato su Pauperclass il 14 giugno 2016

La storia accelera, è indubbio.
Ma gli uomini rimangono sempre lo stesso vile fango.
Ad accelerare è, infatti, sempre e solo la tecnica: le mirabilie della comunicazione, dell’ingegneria, della cibernetica.
Questo grandioso e immane movimento, davvero spettacolare se guardiamo allo sviluppo degli ultimi trecento anni, avrà tale semplice esito: l’inutilità dell’essere umano. Sì, gli uomini non servono più a niente se non a rilevare quali consumatori (sempre più residuali).
Si è messo in moto un Golem che sfuggirà ai propri creatori, questo è sicuro.
E cosa farà il potere? Se l’uomo diverrà inutile (disoccupazione e sottoccupazione avranno percentuali bulgare) quale futuro avrà la forza di plasmare?
Sterminio di massa? Repressione? Persuasione alla schiavitù? Redditi minimi di cittadinanza? Un socialismo assistenziale planetario?
Una soluzione provvisoria potrebbe essere: più felicità per tutti.
Se all’uomo dai un po’ di pane e un I-phone fiammante quello sarà felice.
Garantito.

Se all’essere umano postmoderno togli lo struggle for life, gli allunghi di che vivere, pur miseramente, e lo copri con un po’ di giocattoli quello ti darà in cambio la sua libertà, la voglia di ribellarsi, la dignità, l’essenza stessa dell’essere-uomo come l’ha inteso la filosofia maggiore negli ultimi tre millenni.
Ho riletto recentemente un romanzo distopico di Evgenij Zamjatin.
Si intitola Noi (Мы); fu pubblicato per la prima volta nel 1924, in lingua inglese.
Tutti le distopie posteriori, compreso il celeberrimo 1984, gli sono debitrici.
Zamjatin (che pure appoggiò la Rivoluzione d’Ottobre) descrive la società sovietica del tempo come un inferno egalitario perfettamente matematizzato.
Il protagonista, D-503, ha rinunciato al proprio libero arbitrio e alla scelta per inscriversi in un quotidiano dove tutto è pianificato e senza ombre: il lavoro, la sessualità, il sonno e la veglia, i pensieri, la festa, gli svaghi sono programmati dallo Stato Unico sotto lo sguardo implacabile del Benefattore ed esposti, senza mistero, alla visione di tutti (“Tutto era di una chiarezza che atterriva”). Le case sono di vetro, le celebrazioni rigorosamente pubbliche, le passioni uniformate come gli abiti, la Natura irreggimentata dalla tecnica. Persino i tratti somatici dei singoli tendono a farsi simili in un anelito spaventoso di uguaglianza coatta: la liberazione consiste nell’assenza di libertà e, quindi, di iniziativa e responsabilità.
Zamjatin, insomma, satireggiando i Soviet, arriva a prefigurare la probabile organizzazione sociale occidentale in tempi di fine dell’uomo e dell’umanesimo.
Guardiamo a noi (Noi): come i personaggi del romanzo viviamo ormai in case di vetro: i social network squadernano al mondo intero le nostre ansie private; le invasive pratiche di catalogazione dei servizi segreti connessi al commercio elettronico sono realtà; così come l’autismo di massa che ha derubricato l’amore e le manifestazioni più accese del sentimento a rapporti formalistici definiti dai bisogni pubblicitari; la devastazione della natura e del paesaggio; la mansuefazione della bellezza e delle arti; è realtà anche l’odio (spesso subliminale) che nutriamo verso le società tradizionali, ancora vive e umane, e di cui temiamo la spontaneità; è realtà la guerra spietata al passato, portatore di quelle istanze; e la volontà di distruzione portata contro le terre del passato (Iraq, Afghanistan, Iran, Siria, Grecia, Italia) che, proprio in virtù della profondità della tradizione, stentano a conformarsi al livellamento democratico.
Ma Zamjatin ci dice di più. Egli affronta il problema della felicità.
Per tutto il romanzo accettiamo pacificamente, in ossequio alla concezione di distopia (che ci induce a parteggiare per Winston Smith di 1984, ad esempio), che i ribelli di Noi siano dalla parte giusta. La società così concepita – perfetta, liscia, conformista, aperta sino alla negazione della singola personalità – la riteniamo necessariamente infelice; solo la differenza, l’imperfezione, il riguadagno di una certa animalità naturale, coi suoi sbalzi umorali, le sue ire, i suoi afrori, permette all’uomo la gioia. Questo pensiamo, abbastanza naturalmente, e crediamo che Zamjatin, altrettanto naturalmente, la pensi come noi.
Ma le cose stanno diversamente.
Negli ultimi capitoli di Noi i resistenti si avviano alla sconfitta.
D-503, che aveva messo a repentaglio la vita per amore della ribelle I-330, non solo abiura i comportamenti passati, ma sradica da sé, volontariamente, grazie a una operazione chirurgica, ogni sentimento umano.
Vuole, infatti, dimenticare tutto: essere felice.
Diviene un vegetale emozionale, senza impulsi, immemore della stessa I-330, un individuo finalmente privo dell’anima irrazionale e disposto solo all’amore, puro e eterno, per il Benefattore: “Sono guarito, completamente, assolutamente guarito … mi hanno estratto dalla testa una specie di spina; ho la testa leggera, sgombra“.
Tutti noi (noi, e Noi) reagiamo orripilati a tale sviluppo narrativo.
Chiediamoci, però: in cosa differisce la gioia dell’uomo a cui sono stati estirpati i sentimenti dalla gioia profonda, bruciante e insensata della vecchia passione?
Davvero la felicità di un traboccante canto poetico differisce dal sorriso estatico del nuovo D-503, ormai deprivato d’ogni fluido vitale ed emozionale?
Biologicamente differiscono in nulla. Anzi, mentre il primo tipo di felicità è fugace e preda degli sbalzi della fortuna, e soggetto alla volubilità e alle bizze degli amanti, il secondo rimane fedele, costante e docile come un orgasmo a bassa intensità.
Nel discorso finale del Benefattore intravediamo la verità:
Per che cosa gli esseri umani – fin da quando erano in fasce – hanno pregato, sognato, si sono tormentati? Perché qualcuno dicesse loro una volta per tutte cos’è la felicità e a quella felicità li allucchettasse come a una catena. Oggi come oggi, noi, cosa stiamo facendo se non questo? Il sogno antico del Paradiso … Ripensi al Paradiso: là non si conoscono i desideri, non si conosce la compassione, non si conosce l’amore; là ci sono i beati a cui è stata rimossa la,fantasia (ed è per questo che sono beati), gli angeli, i servi del Signore …
Un mondo di semideficienti e di imbecilli, guardati a vista da un Benefattore mondiale, non è un mondo felice? Come una gallina a cui si assicura becchime tutti i giorni, certamente.
Felice, senza sospetti, senza doppi fondi.
E questo homo novus, che si appaga di ciarpame comunicativo, finta informazione, pornografia, sport dopato, quale carica eversiva potrà avere rispetto al potere?
Nessuna. Anzi, il potere sarà felice anche lui di allungare a questo idiota qualche prebenda, di tanto in tanto … un dono che smercerà con la maschera sorridente del progressismo socialista.
Altro che liberazione dal bisogno! Qui si libera l’umanità da se stessa!
Sì, il potere è e sarà sempre più un Benefattore, non dimentichiamolo mai!
Non dico che accadrà questo. Ma ho il sospetto (da paranoico) che questo sarà il decorso inevitabile (e logico) dell’Occidente; e quindi dell’umanità tutta, poiché l’Occidente non può che infettare il resto del mondo, sino alla consunzione morale e vitale.
Altro che guerre totali, distruzioni atomiche, invasioni islamiche!
Quello che ci aspetta è pura entropia: delle menti e dei sentimenti.
Un istupidimento progressivo, lento e consenziente; una corsa al ribasso; una lotta feroce all’intelligenza e alla diversità delle intelligenze.
Non vedete come il potere tenda sempre a spegnere, a livellare, a rimpicciolire, a snervare?
Abbracciando tutto, fra le sue spire mortali, in nome dell’amore, dell’uguaglianza e della fraternità? Della pace?
Una guerra, col suo carico di dolore, sarebbe benedetta … ce ne daranno mai una?
S’intenda: una guerra contro di loro …
Sì, forse saremo tutti più felici: più positivi, devoluti, inoffensivi, impotenti, microscopici. Con tanto tempo a disposizione: da utilizzare per fare niente.
Controllabili e satolli come mucche al pascolo. Non ci vorranno nemmeno troppi cani pastore per noi … ci controlleremo l’uno con l’altro, implacabili.
Saremo tutti felici nel Nuovo Mondo.
Una distopia? Ma quale distopia! Questa è la vera utopia del potere, la nuova Atlantide, la città di Lucifero, il Paradiso.

* * * * *

Le citazioni da Noi sono tratte dall’edizione Voland (2013) che si avvale della traduzione di Alessandro Niero.
Altra recente edizione di Noi è della Lupetti (traduzione di B. Delfino).

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