Decifrare il passato (e il presente)

Racconti e improvvisazioni

Novità sconsigliate ai puri di cuore

22 maggio 2017

Siamo noi i brutti, gli sporchi e i cattivi


Pubblicato su Pauperclass il 27 agosto 2015

Mi ha molto colpito l’articolo di Eugenio Orso sul film di Ettore Scola, Brutti, sporchi e cattivi.
Innanzitutto parla di Roma, la città in cui vivo. Non una città, ma una regione dell’anima.
E parla, inoltre, proprio di quella parte di Roma dove abito da sempre: non molto lontano dai luoghi in cui la pellicola fu girata, presso Monte Ciocci.
E tali luoghi hanno una propria storia che, forse, nel mio intendimento, possono dare una risposta alla domanda dell’articolo di Eugenio Orso: chi sono, oggi, i sottoproletari di allora?
Monte Ciocci è una modesta altura che si eleva nei pressi della stazione della metro A di Roma, Valle Aurelia. Dopo il repulisti del campo baraccati esso rimase incolto e abbandonato per quasi tre decenni; è stato recentemente bonificato, dietro la pressione dei comitati cittadini, ed oggi ospita un bel parco, con una pista ciclabile che si snoda per diversi chilometri sino all’altra gloriosa collinetta romana chiamata Montemario.
A Monte Ciocci ci si arriva seguendo il nuovo tracciato, pulito e asfaltato, che gira attorno alle sue brevi pendici; il nostalgico può arrivarci, però, anche salendo una stretta scalinata in mattoncini, anch’essa restaurata: la stessa che si vede nel film.

Spigolature piddine. Da socialisti a sociopatici


Pubblicato il 27 luglio 2015

Giorni d’estate, giorni di svago. Almeno per chi ha qualche tallero da spendere.
E giorni di letture. Sì, l’estate è da sempre il luogo della lettura estesa, e del piacere della lettura, sospesa fra il ripescaggio personale, l’approfondimento e il gradevole disimpegno.
Il gradevole disimpegno ha varie sfumature: il giallo, il thriller, l’afflato sentimentale; personalmente preferisco il genere fantastico novecentesco (Lovecraft, Aickman, Du Maurier) e, in misura minore, quella branca inesplorata del fantastico del 21° secolo che è la letteratura piddina. 
Cosa intendo per letteratura piddina? Tutto ciò che i piddini, più o meno noti, scrivono su facebook, twitter, unità, huffington post, repubblica, espresso e via sghignazzando.
Leggere la letteratura piddina (cum grano salis: 10 minuti a settimana bastano) risana il corpo e lo spirito; scorrere quelle pagine fitte di stupidità, arroganza, oltraggio al buon senso, scempiaggini, bambinerie, menzogne, capovolgimenti della realtà, dona il piacere di un cupio dissolvi, esilarante e catartico; tale da farci esclamare: “Se l’Italia deve andare in malora che ci vada allora, maledetti imbecilli!”. E giù una risata, liberatoria e amara.
Un toccasana. Io faccio così: mi immergo dieci minuti fra social network, brogliacci di partito e gazzette di riferimento, a casaccio. Dieci minuti: veloci e casuali. Non abbiate paura: qualsiasi rete voi gettiate in quelle acque in dieci minuti trarrà tonnellate di insipienza. A vostro svago.
Cominciamo con feisbuk.
Ecco un piddino d’ordinanza a proposito dell’accordo greco a favore degli strozzini:

Il potere ha un'utopia, noi no


Pubblicato su Pauperclass il 21 luglio 2015

L'utopia ha una forza magica: induce a considerare il futuro con persistente benignità, permette di superare ogni avversità, qualsiasi passo falso; chi ha lo sguardo affissato verso l'utopia non deflette mai dal proprio cammino, incassa i colpi avversi con filosofia stoica, e il suo nord non cambia mai, ogni giorno la bussola dell'ideologia gli consegna inalterata la meta: egli può fare passi indietro, o di lato, può essere costretto ad aggirare passi e ostacoli, ma ritrova sempre la strada principale, magari per sentieri inaspettati, vie secondarie, viottoli sconosciuti ai più.
Il potere ha questa utopia e marcia con fiducia verso di essa, insensibile ai rovesci, alle battute d'arresto; sa, con certezza immediata, che tali inciampi sono temporanei; può, inoltre, permettersi di aspettare: una breve stasi oggi presagisce una marcia trionfale domani. L'importante è la meta finale, vivida e immutabile come una stella polare.
Ma cos'è tale utopia?
Nient’altro che il sogno dei più grandi despoti: una umanità addomesticata, finalmente mansuefatta, inerte, senza sussulti; un gregge miserevole, da pascolare con tranquillità, ogni passione spenta, qualsiasi rivendicazione sopita. Dominare con minimo dispendio di energie miliardi di esseri umani, inebetiti dall'incoscienza del proprio stato, dalle divisioni, dai balocchi da poco prezzo che lo stesso potere ammannisce con finta prodigalità.
Un gregge sacrificabile, da spostare a piacimento sul Risiko mondiale.
E come ottenere tutto questo?

Il fallimento della controinformazione




Pubblicato su Pauperclass il 10 luglio 2015

Grande è la confusione, sopra e sotto il cielo ... quindi la situazione è disastrosa.
Gli avvenimenti si susseguono vorticosi, masticati furiosamente dall'attualità. Informazione ufficiale e controinformazione (quella che ci interessa) non lasciano cadere una sola briciola dal tavolo delle notizie: tutto è sviscerato e amplificato sino al parossismo; sino alla sazietà disgustata del fruitore di notizie. Dapprima l'ISIS, poi il TTIP, quindi la Grecia. Ora ci si accorge anche del crollo della Borsa di Shanghai: sarà la prossima big thing?
Intanto Tsipras e il referendum sull'accordo tengono ancora saldamente il banco. Centinaia di articoli, notazioni, retroscena, subodorazioni. Si è detto tutto e il contrario di tutto, in un crescendo rossiniano irresistibile: Tsipras fa il referendum perché vuole sgravarsi la coscienza, anzi no: è coraggioso; il referendum è l'ultima arma della democrazia dice qualcuno, anzi no: è una furbata per farsi bocciare e consegnare, quindi, la Grecia agli strozzini; Tsipras fa comunella con la Merkel, anzi no: è il grimaldello che aprirà la Vergine di Norimberga dell'Europa; Tsipras difende il proprio paese dall'assalto finale degli usurai, che vogliono rubare, per un tocco di pane, le isole, il mare, il gas, il Partenone, la Nike di Callimaco, anzi no: è solo un fannullone che chiede soldi per quelle merdacce levantine scansafatiche socialiste e parastatali; vincerà il sì, è tutto preparato, ci saranno i brogli, il sì sarà la tomba del populismo europeo, la disfatta di Grillo, Farage, Le Pen, anzi no: vincerà il no, ci libereremo dal giogo di Bruxelles; oppure: vincerà il no, ma tanto sarà inutile, il referendum andava fatto un mese fa, no dieci mesi fa, ma che dite? Un anno fa ... anzi era meglio non farlo ... oppure: macché, era meglio farlo, ma sull'euro, non su tale insulso quesito; Tsipras voleva perdere e farsi cacciare in modo da avvicinare la Grecia al baratro; anzi no: è Varoufakis che voleva vincere per instaurare una moneta parallela all'euro e avvicinare la Grecia alla Russia anche se, a ben vedere, a ben meditare, a meditare profondamente come color che sanno, Putin e la Merkel sono fratello e sorella nella medesima Ur Lodge massonica, e quindi cari miei ...

14 maggio 2017

Il destino dell'Europa era già segnato. Quarant'anni fa


Pubblicato il 20 giugno 2015

Più di quarant’anni fa il destino dell'Europa era già segnato. Tutto scritto. Nero su bianco. Globalizzazione, annientamento della politica, della tradizione e del ruolo delle nazioni.
E condensato in poche pagine, come ama fare il potere.
Il potere, infatti, non ama le chiacchiere; stila scarne direttive da perseguire con tenacia, per decenni, a qualsiasi prezzo (a prezzo della vita di interi popoli).
A volte tali direttive affiorano in superficie; nel 1972 il destino dell’Europa (e di noi tutti) fu delineato, con chiarezza e rigore, in un discorso pubblico tenuto da Eugenio Cefis ai cadetti dell'Accademia Militare di Modena il 23 febbraio 1972 (di cui egli fece parte). È il discorso di un maestro rivolto ai propri allievi; parole di chi sa, precise e inappellabili. Un affioramento del vero potere.
Ricordiamo chi fu Eugenio Cefis: già partigiano, dopo la guerra divenne dapprima vicepresidente dell'ENI, e poi, nel 1967, presidente a pieno titolo, sostituendo Marcello Boldrini (che si era insediato nel 1962, alla morte di Enrico Mattei). 
Eugenio Cefis fu molte cose: piduista della primissima ora (tanto che qualcuno lo ritiene il vero fondatore della loggia massonica), equanime finanziatore dei partiti di governo e del PCI, manipolatore dei giornali quali balocchi della propaganda, e supremo trasformatore dell'ENI da società nazionale a multinazionale attenta alle nuove esigenze filo-atlantiche.

Ci vuole il capestro (su Mafia Capitale e dintorni)

 
Pubblicato su Pauperclass il 14 giugno 2015
 
Dall'Amaca di Michele Serra, 11 giugno 2015, Repubblica:

"Il neofascismo romano, quanto a illegalità fuori e dentro il palazzo, ha una storia lunga, densa e romanzesca. Tanto che la presenza in Mafia Capitale, di un nucleo nero che presiedeva il business non ha stupito nessuno: semmai, ha destato una giusta indignazione scoprire che a spartirsi il bottino c'erano anche pezzi consistenti di una sinistra corrotta e connivente, perfettamente postideologica nel suo 'pappa e ciccia' con la destra criminale ... vedere in piazza, oggi, Forza Nuova, Casa Pound e Fratelli d'Italia che schiamazzano nel nome della 'pulizia’ fa un ben triste impressione ... la destra 'nera' manifesta orgogliosa, con i suoi slogan gaglioffi ... la destra nera dei criminali politici riciclati non potrebbe prendersi almeno una breve pausa di riflessione? O davvero ritiene di avere qualcosa da rivendicare, in fatto di moralità della politica, e di moralità dei suoi politici?".

Avete capito? Altro che trinariciuto! Michele Serra è solo un perfetto istigatore di trinariciuti all’ammasso. Un ingannatore seriale. Un vero paraculo, insomma, come dicono a Roma. Ricordiamo che il termine trinariciuto fu coniato da Giovannino Guareschi per indicare l’idiota di sinistra. Il trinariciuto vantava infatti tre narici: due per la normale respirazione e una per far colare via il cervello e regalare, perciò, spazio posto alle direttive conformiste di partito. Sono passati decenni che sembran secoli, ma siamo sempre lì.
L’ammaestratore di trinariciuti su Repubblica. Che spettacolo! E che splendidi sillogismi!
Egli dapprima insinua l’idea, nel lettore medio di Repubblica, che il nucleo corruttore di Mafia Capitale fosse nero, ovvero di destra, ovvero fascista. Fascista ovvero brutto brutto. Schifo. Cacca. Sillogismi inconsci, da fase anale, che il succitato lettore medio elabora spontaneamente, dopo lunghi periodi di mansuefazione, come la foca del circo elabora due fatti: il proprio naso e i palloni colorati lanciati dal domatore. In parole povere, secondo l’imbonitore Serra: la corruzione è di destra (anzi: è fascista) e la sinistra (che pure è colpevole, com’egli, pur malinconicamente, concede) si è lasciata trascinare da tali cattive compagnie. Capito? Il fatto che Buzzi e Carminati fossero degli  intermediari al servizio dei pezzi da novanta della politica di sinistra (ancora né indagata né arrestata) non sfiora nemmeno il nostro sociologo da tre palle-un soldo.

Qualche considerazione sulle elezioni regionali (2015)


Pubblicato su Pauperclass il 2 giugno 2015
 
Poco si muove sul fronte meridionale dell’Impero, la trincea più bersagliata. Le vettovaglie latitano, il morale è basso, i comandanti palesemente inetti, e persi in un corrotto sadismo, eppure la truppa ancora dà pochi segni di vero malcontento. Si limita a borbottare. Le linee, apparentemente, tengono.
Le ultime elezioni regionali consegnano questo quadro.
Proverò a esporre al garbo delle vostre critiche alcune personali considerazioni
Una di queste, però, l’ultima che vi dirò, mi piacerebbe vederla approfondita in sede di controinformazione.

La torta della democrazia
 
Questa è quasi una legge. Statistica storica sociale o psicologica non so.
Al decrescere dell'affluenza i rapporti fra le varie componenti dell'elettorato rimangono sostanzialmente stabili. Voto libero, clientelare, e fideistico (tradizionale o di appartenenza) tendono a rimanere in rapporti costanti fra di loro.
Che la torta democratica sia di venti fette, o dieci, o quattro, o composta da poche briciole, le dosi degli ingredienti di tali fette o briciole saranno in rapporto costante fra loro.
Una volta si credeva che una bassa percentuale di votanti favorisse il voto dei clientes a danno di quello libero. Forse lo credono anche nelle secrete stanze: infatti hanno piazzato le votazioni durante un ponte vacanziero sterminato. Ma gli elettori italiani si son portati avanti, evidentemente.
Una maggiore affluenza, insomma, avrebbe portato a percentuali non dissimili da queste.
 
Voto clientelare. I partiti maggiori (tra cui, in parte, la Lega) hanno cannibalizzato le riserve di caccia democristiane e del pentapartito. Il PD può, inoltre, contare sui residui clientelari dell'apparato comunista (sindacati, soprattutto). 30% circa dei votanti.
 
Voto fideistico. Il voto fideistico, tradizionale è ancora forte, specie nelle fasce anziane. I media lo preservano quale reliquia preziosissima: chi vota a destra lo fa per dar contro alla sinistra e viceversa. Ogni depositario di tale sentimento è adeguatamente aizzato dai media di competenza. A destra esiste uno spauracchio guareschiano dei comunisti; a sinistra si teme la destra razzista e fascista. Un votante fideistico (un piddino, ad esempio) si vanta del fatto che su venti regioni quindici siano ‘rosse’: e si rallegra della cartina italica imbellettata di tale colore; un votante fideistico di destra gode nel vedere ‘asfaltata’ la Ladyfake veneta, Alessandra Moretti. E così via. 40% circa dei votanti.
 
Il voto libero. Riguarda al massimo un 30% di votanti. È intercettato da Lega, 5S e formazioni pulviscolari dell’estrema destra e sinistra.

13 maggio 2017

Ma cosa c'è nella testa di un piddino?


Pubblicato su Pauperclass il 24 maggio 2015

Aria fritta? Mosche? La prosa di Alessandro Baricco? Commercio equo e solidale? Viva il TG3? Nannimoretti? Liberazione LGBT? Il sol dell'avvenire? Cascami libertari e terzomondisti? Certo, c'è tutto questo. La testa di un piddino, o di un militante dei gruppi cocchieri (Rifondazione, Comunisti Italiani, SEL: è la stessa solfa) ancora ragiona osservando tali costellazioni. Non si rende conto, però, il piddino, che vi è stata una precessione astronomica e le stelle e le galassie che prima governavano il suo mondo ideologico e morale si sono spostate altrove. I dirigenti del PD (e tutta la sinistra mondiale) lo sanno, ovviamente, e usano tale equivoco per imbonire i propri elettori.
È una tecnica ormai ben rodata. Il trucco dei diritti civili.
Esempio: l'immigrazione. Tutti sanno che è impossibile per l'Italia contenere le ondate demografiche provenienti dall'Est e dall'Africa. Il potere usa l'immigrazione - dolosamente incontrollata - per diluire le resistenze interne (mentali, salariali, culturali, religiose) e creare un parco buoi diviso e sottomesso. Ma il piddino, di fronte a tale scempio, che fa? Si ricorda di Kunta Kinte, Rosa Parks, de Il colore viola, di Geronimo e, in nome dell'antirazzismo d'antan (oggi insensato), approva la disfatta. I dirigenti piddini incassano e continuano la loro ben remunerata opera Quisling. Le voci dissenzienti, maggioritarie, ma disorganizzate, e quasi tutte esiliate sul web e nell'insignificanza, sono tacciate di razzismo, sciovinismo, fascismo, nazismo ... per rendersi conto del sistematico dileggio perbenista basta leggere i post di un piddino medio su feisbuc et similia. O le articolesse di un piddino potente e paradigmatico, come Gad Lerner, Bianca Berlinguer, Laura Boldrini o del paredro di Bianca Berlinguer, Luigi Manconi (ho vergato i primi nomi che mi son venuti alla tastiera: la scelta è ampia).
La testa del piddino medio funziona, quindi, come la lavagna dei buoni e dei cattivi. Un manicheismo bambinesco ne mette in moto gli istinti basici e crea una fidelizzazione profonda verso i propri dirigenti (sacerdoti e papi della fede sinistra, l'unica giusta) a cui basta cicalare alcune parole chiave (diritti, eguaglianza, parità) per farsi obbedire nel buio della cabina elettorale.

L'italiano ribelle? Forse quello in mutande


Pubblicato su Pauperclass il 18 maggio 2015

Questi maledetti italiani!
Questi ancora sperano!
La speranza, va da sé, è l'ultima a morire e non l'ammazzi mai; li dovranno prima spolpare ben bene gli italioti, con raziocinio criminale, e calma da usurai; li dovranno espropriare di tutti i mezzanini, i villini, le seconde case, le catapecchie che i loro padri e madri, i nonni e i bisnonni, hanno tirato su nell’ultimo secolo, un mattone alla volta, una bestemmia alla volta, intrallazzando con muratori ragionieri geometri mazzettieri vari, prima che si decidano ad ammazzarla qualsiasi speranza e finalmente dire: "Ahi!".
E io sono fra questi, mica mi tolgo dal mazzo.

La sinistra schizoide ci porterà alla schiavitù


Pubblicato su Pauperclass il 29 aprile 2015

Forse non alla schiavitù.
La schiavitù presuppone vitto e alloggio, e una certa empatia nei riguardi di schiave e schiavi (sono pur sempre elementi di pregio ed esseri umani - immo homines - per citare Seneca), mentre l'andazzo odierno prevederà, di fatto, il lavoro senza retribuzione. Il lavoro gratuito è la vera meta del paradiso capitalista.
Lavorare gratis e col sorriso sulle labbra, come dimostrano le recenti vicende di giovani aspiranti lavoratori all'Expo di Milano: prima la promessa dei 1300 netti, poi di 1300 lordi, poi neanche 1300, sempre lordi però, quindi niente assicurazioni impaccio di sindacati rimborsi et cetera ... ognuno, fatti i conti brutali della massaia, andava a intascare, netti, un bel nulla ... seppur un nulla dignitoso, da far sghignazzare a doppia ganascia, perché il lavoro nobilita, e poi fa curriculum, e poi si è parte di un ingranaggio che fa crescere la produttività italiana, e quindi si è anche patrioti, con le pezze al culo, ma tanto patrioti ... specie quando negli stand si vende per olio nazionale una poltiglia giallastra che arriva congelata dal Marocco, seppure (bando al disfattismo!) confezionata con nastrini tricolori tutti italiani e venduta ai gonzi italici dai predetti lavoratori patriottici, tutti in tiro per l'occasione, e tutti bellini con badge e divise azzurre e bianche esornate da nastrini tricolori ...
Ancora loro, i nastrini ... che il nastrino sia uno dei tratti salienti del nuovo capitalismo? Statistiche, previsioni, soli dell'avvenire ... una truffa, per carità, incartata, però, coi nastrini ... tricolori o azzurri dell'azzurro dell'euro, o dell'Unicef dell'Onu dell'Esercito della Salvezza, chi volete voi.

Gli Italiani e la finta di Garrincha


Pubblicato il 5 maggio 2015

Alle centinaia (migliaia, decine di migliaia) di analisi, a volte acute, talvolta profonde, che possiamo leggere sull'attuale crisi politica, economica e morale dell'Italia, manca sempre la coda: che fare?
Lo dissi anche a Eugenio Orso, in un commento a un suo post, perso nella notte dei tempi: dopo tutta la nostra sapienza, la nostra acribia, il sarcasmo, la rabbia ... che fare? Allora, piuttosto ingenuamente, citavo l'omonimo romanzo antizarista di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij: Che fare?
Ora la situazione è molto più chiara di qualche anno fa, ma la risposta rimane sostanzialmente inevasa.

Manoel Francisco dos Santos, in arte Garrincha, la più grande ala destra della storia. Basso, storto, con una gamba più corta dell'altra, tabagista e alcolista sin dall'età scolare, puttaniere, ingestibile, autodistruttivo.
Eppure vinse due Mondiali, nel 1958 (decisivi in finale i suoi assist), e nel 1962, stavolta da dominatore assoluto.
Il suo dribbling era semplice, ma irresistibile: puntava il terzino, si fermava, fingeva la penetrazione al centro e, invece, scattava bruciante sulla destra. Una due tre volte. Garrincha poteva dribblare, tornare indietro, e ridribblare il malcapitato, se gli andava, perché no. Lo fece pure in una amichevole con la Fiorentina: dribbling su Robotti, dribbling sul portiere: porta vuota. Tira? Macché, aspetta ancora Robotti, lo rimette col culo a terra, poi segna sghignazzando.
Il segreto del dribbling era vellicare l'istinto dell'avversario. Il difensore sapeva che Garrincha avrebbe fatto ciò che avrebbe fatto, ma il suo corpo, e i muscoli, in quelle frazioni infinitesime di secondo, obbedivano a impulsi ciechi, sedimentati nella massa del paleoncefalo, e sdegnavano la ragione, e tutti i buoni consigli che la ragione si porta appresso.
E l'istinto lo portava a sbagliare, catastroficamente.
L'istinto ha un doppio taglio.

La generazione dell'impotenza



Pubblicato su Pauperclass il 21 aprile 2015

É male ignorare la storia del proprio clan. Ma ci sono circostanze in cui anche una conoscenza approfondita diventa un ostacolo. Una persona dovrebbe usare discrezione. Un sapere eccessivo può essere un impedimento anche nella vita quotidiana. Si mediti su questo principio senza dimenticarlo mai.

Yamamoto Tsunetomo, Hagakure, II, 95

Studiare non ci ha resi migliori.
Anzi, ha trasformato l'anima degli italiani più giovani in una pozza gretta, superba, narcisa.
E quindi impotente.
Impotente a qualsiasi azione.
La verità è che non sappiamo più fare niente. Sappiamo solo chiacchierare, ciarlare, dare sulla voce a qualsiasi altra voce che non sia la nostra; oppure ergerci a professori del nulla, pontificare, riandare colla mente alla nostra miserabile tesi di laurea, alle nostre minuscole convinzioni; oppure rinchiuderci in una conventicola, di gente a noi affine, in cui ognuno passa il tempo, oziosamente, a darsi a vicenda pacche digitali sulle spalle: sono d'accordo, bravo, è così, quei coglioni non capiranno mai, solo noi ci capiamo etc etc; oppure ritirarsi sull'Aventino del nulla, la torre d'avorio in cui crogiolarsi nella rassegnazione - rassegnazione che non è altro che somma alterigia: non mi date ragione? E io mi tolgo dalla lotta! Come se a qualcuno fregasse qualcosa ...

Studiare ... studiare: elementari medie d'un soffio; poi, come in una bella ricreazione estiva, le superiori; quindi i brevi inciampi degli esami di laurea ... davvero piccoli: ormai la corona d'alloro se la mettono tutti: un popolo di dottori, dottorati, specializzati, masterizzati.
Diciamolo chiaramente: in due generazioni la pace ha prodotto un'umanità acculturata, profumata, corretta, interconnessa - antropologicamente diversa dai propri antenati di appena quarant'anni fa.
Impotente, però.

Storia di due barbieri


Pubblicato su Pauperclass il 14 aprile 2015

Il mio barbiere di fiducia chiude i battenti.
Un vecchio immigrato siciliano a Roma, fine anni Sessanta.
Negli ultimi anni s’era un po' intristito.
Ogni volta che entravo nella bottega (dieci-quindici metri quadri) vedevo sul tavolinetto plichi rigonfi e candidi, con caratteri regolari stampigliati sopra. Giacevano lì, uno sopra l'altro, squarciati con modesta regolarità. Non c'era bisogno di leggervi intestazioni o contenuti; già sapevo di cosa si trattava. Anche a distanza quelle missive trasudano la copiosa e burocratica ferocia nichilista propria degli apparati statali o parastatali quando si rapportano all'utente o al cittadino, il loro servo della gleba.
Quasi parallelamente i nostri brevi dialoghi avevano mutato indirizzo e tono; dal calcio e dai pettegolezzi s'erano spostati prime a vaghe considerazioni politiche (genere: va tutto a rotoli), quindi a tematiche da commercialisti.
Ogni bimestre aveva la sua pena. Rimborsi, Inps, Irpef, AMA, intimazioni di chiarimenti, richieste di dichiarazioni. Ogni tanto, nella concitazione, fermava pettine e forbici per inseguire un pensiero, poi ricominciava, quindi, preso da un'ispirazione incontrollabile, abbandonava i ferri per prendere i faldoni burocratici e squadernarmeli davanti. Come a dire :”Non ci credi? Ecco qua!” e aggiungere, di soppiatto: “Vedi un po' cosa si può fare!”.
E io leggevo, ma, mi tocca ammetterlo, non capivo nulla. E non è un modo di dire: non capivo assolutamente nulla di quel gliuommero di citazioni e rimandi da leguleio psicopatico. Nonostante mi picchi di vantare un'intelligenza dei testi superiore alla media, a fronte a quell'intrico di “ex art” o “in seguito all'avvenuta approvazione …” mi sentivo sfiorare, per usare un'espressione di Baudelaire, dall'ala dell'imbecillità.
Di fronte a quel siciliano antico gettare la spugna era però difficile senza gettar via anche un po' d'onore. Quindi, spesso, tergiversavo, cambiavo discorso, o rimandavo al giudizio degli organismi competenti - quegli organismi, insomma, che, essendo competenti, avrebbero tagliato il nodo di Gordio dell'incomprensibilità.
E mentre mettevo in atto questa tattica dilatoria (facevo ammuina, insomma) mi veniva in mente un periodo della mia vita in cui avevo persino cercato di capire. Le procedure Equitalia, ad esempio; mi ero persino provveduto di un bel volume delle edizioni Simone: ero insomma deciso a fare chiarezza in quell’intrico di norme prassi e iter della burocrazia italiota; un tempo felice, in fondo: corrispondeva a un certo ingenuo illuminismo del mio animo teso ancora a credere in una buonafede delle istituzioni - buonafede macchiata (peccato!) solo dal consueto gergo fantozzian-impiegatizio … solo col tempo capii che l'essenza di quei mandala esattoriali risiedeva nella totale incomprensibilità ... ovviamente dolosa ... e passai dall'illuminismo a una sorta di odio permanente verso ogni formalismo ... (a puro titolo di cronaca: il volume della De Simone lo mollai a pagina 60).
Ma ritorniamo al nostro barbiere.

12 maggio 2017

L'ISIS, Mussolini e l'Italia profonda


Pubblicato su Pauperclass il 30 marzo 2015

Siamo nella provincia profonda, profondissima.
Mi fermo a parlare un po' con mio cugino, uno che conosco da quando è nato e con cui, in tempi felici, intrattenevo gare a chi pisciava più lontano. Ha sempre lavorato, da quando aveva quattordici, quindici anni. "Se viene l'Isis mi arruolo con tutte le scarpe. Subito". "Mmmm ... va bene ... ma così a tua moglie le tocca mettere il velo" gli dico. "E allora? Tanto i preti il lavoro loro non lo fanno più, meglio quello, no?". "Eh, se l'Isis esiste sul serio un pensiero ce lo faccio anch'io. Ci pigliano insieme" scherzo. Ma lui non scherza mica: "Almeno si crede a qualcosa. O no? Almeno credono a qualcosa. Ma questo ..."; e prende tempo agitando le mani, " ... questo ...", come a dire: questo spappolamento generale, quest'oggi, questo schifo di situazione, "questo che è? Che rappresenta? Questo che è?".

Ho visto morire un poveraccio


Pubblicato su Pauperclass il 10 marzo 2015

Una strada del quartiere. Sono abbastanza vecchio da ricordare i prati che c'erano qui.
Poi, in due anni, una serie di palazzine si mangiarono tutto; edilizia anni Settanta: né brutte né belle. O meglio: appena fatte, rispetto alle nostre, dall'intonaco scialbato, sembravano residenze di pregio. Viste adesso mostrano tutta la meschinità di chi le progettò: segnate dallo scolo delle piogge, senza vita, anonime; d'uno squallore che non riesce a farsi malinconia.
La via che scorre fra di esse è quella di sempre. Solo, m'appare più piccola. Allora era uno stradone di campagna, poco frequentato. Ora è un mezzo budello, con l'asfalto sbrecciato in più punti, i due sensi resi faticosi da una doppia fila ininterrotta di macchine in sosta.
La percorrevo qualche tempo fa, con la mente in automatico, come spesso accade con certi atti della vita quotidiana che siamo costretti a eseguire.
Improvvisamente un automobile davanti a me, d'una qualche decina di metri, cominciò a sbandare: dopo un breve zig zag tamponò un'altro auto in sosta, alla sua destra, e infine si ribaltò, al centro della strada.
Nessun altro fu coinvolto nell'incidente.
Successe tutto in pochissimi attimi, quasi irreali.
Il guidatore riuscì a cavarsi fuori dall'abitacolo, da solo. Un tipo comune, sui sessanta, sessantacinque, un po' male in arnese. Si teneva una spalla. Lo sguardo era allucinato. Qualcuno si fece da presso per accertare le sue condizioni. Lui rispondeva meccanico: "Sì, sì ...", come a dire: "Sto bene", senza nemmeno guardarci. Poi: "Aiutatemi a rimetterla su ...". Alle rimostranze che no, si dovevano chiamare i vigili e, forse, un'ambulanza, sembrò scuotersi: "No, no ... dai .. rimettiamola su ..."; e ancora: "Rimettiamola su", con un tono fra implorante e stizzito; e si mise a spingere, con un solo braccio, la sua automobile, capovolta come uno scarafaggio morto, che si mise a dondolare inutilmente.
Faceva scuro. Ci si limitava ad aspettare l'arrivo della municipale.
Il tizio diede altri due scrolloni, uno più deciso dell'altro, ma non ottenne risultati. Si girò, pallidissimo, e disse qualcosa a mezza bocca che non si capì; poi, come affaticato da quella sconfitta, col cielo che gli pesava addosso, si diresse verso il marciapiedi: si chinò, appoggiandovi la mano buona, come a sostenere il corpo nell'atto di sedersi; la mano, tuttavia, scivolò ed egli cadde bocconi, la testa sul marciapiede, le gambe fuori, rattrappite fra lo spazio di due macchine in sosta.
Credemmo fosse svenuto. Non si sapeva cosa fare; eravamo come inebetiti da quella manifestazione sincera di dolore, dalla troppa umanità. L'ambulanza arrivò quindici minuti dopo, la sirena che lentamente aumentava d'intensità, avanzando con cautela nella carreggiata ristretta, occupata dai curiosi smontati dalle macchine.
Gli infermieri armeggiarono per un po' attorno al corpo, intralciati dal poco spazio. S'intuiva il peggio.
Lo adagiarono di peso sulla lettiga. Stretto fra le coperte, ne vidi solo la nuca, il volto rivolto altrove, immobile.
Era morto.
Arrivarono, con molto agio, anche le gendarmerie locali. Dopo due ore di attesa, il relitto fu portato via, la circolazione riprese. S'era fatta notte.

Come distruggere l'economia locale


Pubblicato il 12 marzo 2015; ripubblicato su Pauperclass il 17 marzo 2015

Olio con sapiente arte spremuto
Dal puro frutto degli annosi olivi,
Che cantan -pace! -in lor linguaggio muto
Degli umbri colli pei solenti clivi,
Chiaro assai più liquido cristallo,
Fragrante quale oriental unguento,
Puro come la fè che nel metallo
Concavo t’arde sull’altar d’argento,
Le tue rare virtù non furo ignote
alle mense d’Orazio e di Varrone
che non sdegnàr cantarti in loro note ...

Una poesiaccia di Gabriele D'Annunzio sull'olio. L'olio d'oliva, quello spremuto dalle olive, i frutti che crescono sugli olivi, insomma. Ho voluto esser didascalico per tema d'un fraintendimento. Pochi sono avvezzi alla terra ormai; pochi oggi hanno visto dal vivo un pollo o un coniglio o un castagno (anche se li pappano regolarmente); la natura, anche la nostra, la mite natura mediterranea, entra in rapporto con l'uomo postmoderno solo traverso la mediazione del supermercato; o della boutique alimentare. Anzi, molte volte l'uomo di tal fatta crede la natura - quella vera - sia tale e quale come appare dagli involucri dei prodotti commerciali. Ha una fede inestinguibile in tale bric a brac di folclore disneyano: crede che le mucche ridano; i maiali si rotolino nel fango profumato agitando la coda a cavatappi per la contentezza; che le pecore sia come Shaun, quella del cartone animato; e che i villici siano uomini con appena un velo di barba incolta, sorridenti pure loro, al massimo con un cappello floscio alla Antonio Misseri; e che le campagnole siano o villiche in carne, fresche e sorridenti, o foresette col canestro appresso, pronte a far ingurgitare gelatine ai cavalli. Spesso, quando tale arcadia si infrange sulla verità, l'uomo postmoderno ha un moto di ripulsa: ad esempio quando scopre che le villiche sono omicide seriali di animali da cortile (cruente quanto indifferenti), che il contado bestemmia sovente e vanta una igiene, come dire, poco igienica; e via così. Conoscevo un tale che era ghiotto di zabaione; tutte le mattine si faceva preparare un bell'uovo fresco (davvero fresco: ancora caldo di gallina) con caffè e latte; ah, che goduria! Poi si rese conto che l'uovo (l'interno dell'uovo, quello che lui sorbiva) proveniva da un uovo (col guscio, tutto intero) e che quell'uovo (il secondo che ho detto) aveva tale guscio, come dire, tutto chiazzato dai recenti sforzi della gallina ovipara - sforzi volti a estromettere, in ultima analisi, lo stramaledetto uovo testé menzionato (nella seconda accezione). Lo shock di quell'uovo garbatamente smerdato fu una scena primaria così forte che il nostro per poco non cadde in deliquio; e mai e poi mai volle più assaggiare uova fresche che, lo seppi de relato poco tempo dopo, secondo lui "puzzavano". Questo per dire che il cittadino della società digitale vive in una landa tutta sua e mai esperisce la reale realtà che produce, volente e nolente, il cibo e le leccornie da lui gustate. Egli ha in mente Dulcinea del Toboso, bellissima e olente: mai si sognerebbe una solida massaia, colle maniche rimboccate e il culo basso; rischierebbe la pala del mulino sulla zucca.
E così per l'olio. Se lo chiede mai l'italianuzzo chi lo fa l'olietto? Chi lo produce? Chi lo materializza tutte le mattine presso il locale (super)mercato o boutique alimentare?

Reclamo dignità, voglio essere uno schiavo


Pubblicato il 2 ottobre 2014; ripubblicato su Pauperclass il 16 marzo 2015

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