03 dicembre 2019

Belle Époque


Roma, 3 dicembre 2019

Mi è capitato di assistere a una retrospettiva dei fratelli Lumière.
I signori Lumière, distillando il lavoro dei decenni precedenti, sgomentarono le platee parigine alla fine del 1895 (28 dicembre) proiettando, nel Salon Indien du Gran Café de Paris, L’uscita degli operai dalle Officine Lumière e il fatidico Arrivo del treno alla stazione de La Ciotat.
Da quella data ogni fotografo, curioso o artista anela la cinepresa.
Centinaia di operatori, più o meno improvvisati, si sguinzagliano per il mondo, ormai ridotto a sgabuzzino dell’essere umano, piazzando i nuovi occhi a registrare il quotidiano.
Mosca, Roma, Vancouver, New York saltano dalla realtà all’immagine divenendo fruizione: per il pubblico sempre meno scelto: alla fin fine per il mondo tout court.

Già nel 1896 abbiamo una vasta scelta di immagini. I Francesi conoscono in diretta le capitali d’Europa, gli Americani i sobborghi londinesi, i Canadesi il Ponte Ripetta a Roma; l’Occidente si fa stretto, l’Atlantico si prosciuga, l’Europa si rimpiccolisce a vista d’occhio. Decadono la meraviglia e l’arte, subentra la cronaca minuta.
A guardare, con occhio sincero e spaurito, quelle sequenze lattescenti, ci si rende conto che la globalizzazione era compiuta; già nel 1896: c’era solo da rifinire il delitto. 
La Terra, l’amabile Terra, si avviava a divenire una città singola, con regole eguali per tutti.
Il mondo si globalizza, allora, in piena Belle Époque: dal 1870, in effetti, viviamo la Belle Époque: pace, progresso tecnico e diritti civili.
Una vera bazza, insomma.
La demografia non perdona: dal 1850 (una miliardata di insetti) al 2020 (sette a crescere).
E le due guerre mondiali? Certo, vi furono due guerricciole. Fasi di assestamento. Problemi di crescita. La Prima, quella decisiva, spazzò via tre Imperi, la Seconda iniziò l’incontrastabile operazione Monarchia Universalis.
Due guerre. Venti, trenta milioni di morti? E allora? Cosa sono di fronte a sei miliardi di esseri umani in più?

Nelle more della dissoluzione vennero schiantate due Rome: Bisanzio (Costantinopoli) e Mosca (Czar Romanov, nientemeno). La prima Roma era caduta qualche decennio prima, fra risatine e trombette carbonare.
La libertà universale si sparse secondo il vento dell’ottimismo dei neofiti. La democrazia liberale (liberale poiché basata sulla libertà di metter croci) ebbe a costituirsi quale alternativa unica (un ossimoro presto trasformato in legge).
La Belle Époque è il nostro mondo, il mondo di oggi. Pace, invenzioni mirabolanti e democrazia.
In nemmeno mezzo secolo si sovverte la visione dell’umanità.
Un mondo antico viene liquidato.
Il rubinetto, l’elettricità, la camera d’aria (che consentì spostamenti individuali: bicicletta, moto, automobile), il fonografo; l’estensione della rete ferroviaria, l’aumento della popolazione grazie a scoperte che abbattono la mortalità infantile, dirigibili, aeroplani, la radioattività, la relatività, le rate, il turismo individuale, il lettino freudiano.

L’uomo si fa stregone dominatore degli elementi: il suo imperio si estende sulle acque (transatlantici, sottomarini), sull’aria (dirigibile, aereo), sul fuoco (elettricità) e sulla terra (automobile, treno, alluminio), persino sulla quintessenza eterea (telegrafo, telefono).
Egli è il Prospero invitto. La bacchetta magica rifulge nelle sue mani, Ariele è al suo servizio, Calibano, il freddo mostro del passato, un aborto della strega Sycorax, viene dileggiato e posto ai ferri.
Egli edifica, infine la Torre di Babele, la Tour Eiffel.
L’Esposizione Universale del 1889, a Parigi, è la glorificazione della vittoria sugli elementi naturali e contro la divinità.
Il Globo si dà convegno a Parigi, come lo era stato a Londra.

Londra e Parigi, i due epicentri della Nuova Civiltà, strepitano le buccine dell’Uomo di Vitruvio, opportunamente rimodulato quale misura di tutte le cose.
I due giganteschi corni del Postmoderno ebbero lì, Parigi e Londra, Londra e Parigi,  la scaturigine: spirituale e tecnica. I decollamenti del 1789 e la Spinning Jenny divengono l’emblema del Novus Ordo.
Libertà, un termine debitamente falsato e smerciato nelle orecchie dei nuovi sudditi, è la parola chiave.
Libertà. Cambiamento. Si ha da essere liberi, è ora di cambiare.
Da allora sino a oggi (un secolo e mezzo) ogni tentativo di resistenza è stato frantumato. Ridotto in pietrisco, letteralmente.
Le rovine fumanti dell’Italia e della Germania, di Vienna, Bisanzio, Pietroburgo, Kabul, Hiroshima, son lì a dimostrarlo.
Qualche ostinato culo di ferro, tenutosi a distanza, prudentemente, dalle fucine infernali, capitolò nel Secondo Dopoguerra (Spagna, Grecia, Portogallo).
Cosa resta oggi: movimenti di ostilità fuori tempo massimo, anacronistici; perdenti, inevitabilmente, e oramai rimpianti da nessuno, nonostante ci si agghindi ancora degli stemmini dell’ostilità e si giochi a fare l’ostile: con sommo divertimento dei vincitori: dai sovranisti ai fascisti ai veterocomunisti.

Le pietre d’intralcio (Hitler, Franco, Alceste, l’infido Mussolini, i colonnelli e i marescialli sparsi a perseguitare la libertà – la libertà! – in Europa, i divini imperatori, i nostalgici di Cecco Beppe) vennero polverizzate, a qualsiasi costo. A costo di olocausti, atomizzazioni, tradimenti.

La linea storica è definita, chiara, adamantina: la servitù in nome della libertà!

La libertà di votare!

Anche Céline s’impappinò sulla materia. Era troppo a ridosso degli avvenimenti. La sua tesi di laurea, deliziosa a leggersi, sul dottor Semmelweis inizia, con una reprimenda dura contro la Rivoluzione Francese e prosegue con la magnificazione dell’opera del suddetto Semmelweis, pioniere della profilassi nelle sale operatorie. La mortalità delle partorienti, grazie ai suoi accorgimenti, crolla; una nuova pietra nel nuovo edificio della modernità è posta saldamente. L’oscurantismo è sconfitto. Céline, però, non s’accorge che tali lumi derivano proprio dai Lumi del 1789. La contraddizione del sentire di destra è tutta qui.

In Italia Mussolini filosofeggia a uso dei micchi: il fascio littorio, l’Impero, la grandiosità classica, la Città Eterna; anche lui, però, tiene nel proprio seno gli opposti: il Futurismo esalta la benzina, la velocità, l’anticlassicismo; egli stesso s’imbeve di progressismo, colatogli giù dalle frequentazioni giovanili, assai positiviste: le esaltazioni dell’Impero e del vetrocemento hanno il retrogusto di quelle comuniste, fra Soviet e supertrattori siberiani.

Il mondo antico dilegua, sorge un
a nuova alba. Persino quel Matto di Nietzsche non comprende sino in fondo. Confonde la fine dell’età classica dell’umanità con il sorgere degli spiriti liberi. Scomoda la bestia bionda. Ma così non è. Gli spiriti liberi non sono liberi; sono liberi servi. Ominicchi. L’Ultimo Uomo, deforme e dal pensiero debole, diverrà la norma, non un ponte per transitare verso la Volontà di Potenza. L’ominicchio domina, in ogni dove; la grandezza, invece, residua; tutto ciò che è bello, grande, magnifico, eminente cade sotto l’imperio del disprezzo; da allora in poi sarà etichettato come illiberale, retrogrado, buio, freddo, malsano. Il SuperUomo è una invenzione fantascientifica, un pio desiderio.

Trasvalutazione di tutti i valori! Così ciancia il Nostro. Giusto. Il mondo è stato capovolto, a testa in giù. L’uomo di Vitruvio ha il sangue alla testa; o i coglioni al posto della testa. La razionalità ha abdicato all’emozionalità. Lo Spirito e l’Arte e la Sapienza alla tecnica. L’autentica libertà alla libertà da condominio: il voto. La sanità mentale all’insania, la voglia di grandezza alla piccineria, il materiale nobile alla plastica. Impossibile non vedere in ogni luogo le stimmate del Nulla.

La libertà è una cosa assai singolare. I mezzadri erano molto più liberi di noi. Ora la vita è più comoda, più confortevole, meno rischiosa, ma, a ben vedere (se si hanno occhi arditi per ben vedere), cos’ha a che fare il rischio e l’insicurezza dell’esistenza con la libertà? Nulla. D’altra parte, qual è la nostra libertà? Quando la esercitiamo davvero? Come scrisse Norman Mailer: per comprendere cos’è la libertà basta andare per linea retta mai ascoltando nessuno: prima o poi si verrà fermati. Qual è il raggio d’azione dell’uomo libero, oggi? La catena sembra assai corta. Appena si mette il muso fuori di casa si viene letteralmente assaliti dai divieti. Il mondo postmoderno si basa sul divieto. E tuttavia, poiché è, in realtà, un mondo al contrario, il divieto viene smerciato come libertà. Vietando, si consente a tutti i cittadini et cetera et cetera. Le solite manfrine. Vietando, invece, si vieta; e basta. Un pulviscolo di divieti ci investe come uno sciame di cavallette. Non è consentito, non si può, non oltrepassare; spesso il divieto è occultato dalla tecnica del collo di bottiglia: si è costretti a scegliere ciò che il potere vuole. In tal caso si è portati a pensare d’aver affermato la propria libera scelta in un mondo che ne contempla centinaia: e invece sono una e una sola. I micchi non muoiono mai.

Domanda capitale: l’uomo vuole essere libero o vuole vivere senza rischio?

Date a un uomo la libertà e quello ve la renderà schifato. Ecco perché la Monarchia Universale prosegue senza impacci. Voi, che mi leggete, e la moltitudine che gioca a fare il rivoluzionario … ognuno anela il comodo, non la libertà. La libertà coincide assai poco con la democrazia, la vita comoda e altri simili inganni.

Parodia dell’uomo che anela la vera libertà: Into the wild. Fuori della civiltà. Christopher McCandless crede di eluderla isolandosi, via, sempre più lontano, in Alaska, terra di ghiacci. Poi, di fronte alla morte, vergherà la fatidica frase: “La felicità è vera solo se condivisa”. L’individuo, infatti, non può sfuggire alla morsa della Monarchia; serve una comunità; la comunità e l’amore, però, sono impossibili poiché ci è stata resa impossibile la fruizione di ciò che fummo. Non abbiamo più i mezzi morali e spirituali per compiere una scelta o legarci gli uni agli altri per fronteggiare le conseguenze di una decisione irreversibile. Siamo spauriti, ignoranti, inermi e confusi. Slegati. Monadi che si illudono di far parte di una catena di libertà. Christopher ovvero Cristoforo, il portatore di Cristo, non ha mai avuto le spalle così leggere, liberato del suo dio e della responsabilità della fede; cerca di fuggire, ma in realtà è il suo cuore a essere prigioniero. Inoltrarsi nella wilderness, solo e nudo, privo di compagni, compagni impossibili in un mondo di egoismi, equivale a morire. La sua ribellione è ridicola seppur ammirevole.

La guerra è necessaria. La guerra dà valore alla pace. La guerra rende liberi. Attenzione! Non sto dicendo che voglio la guerra; sto affermando, con un certo grado di disperazione, che l’uomo, per essere davvero libero, necessita della guerra. Ciò che si vuole e ciò che è necessario non sono la stessa cosa.

Negli ultimi duecento anni siamo progrediti. Abbiamo sconfitto la fame, le malattie, la gravità, Dio. Bene, lo ammetto, è così. In ogni snodo della storia, tuttavia, occorre chiedersi: cosa abbiamo dato in cambio?

Il Grande Inquisitore di Dostoevskij, il Grande Monarca Universale, scaccia il Cristo che vuol rendere l’uomo libero. L’uomo invoca, invece, il servaggio: in cambio di un po’ di pane.
Gustavo Zagrebelski commenta: “La tecnologia e il laboratorio, alimentati dalla finanza, saranno forse la fucina dell’essere umano liberato dalla libertà e programmato per essere docile o aggressivo a seconda delle circostanze. I dodicimila per ogni generazione (cioè gli assistenti dell’Inquisitore) saranno forse questi diafani tecnici in camice bianco che maneggiano provette e denaro”.

Fedor Dostoevskij fu uno degli ultimi profeti. La relazione di Dostoevskij dall’Esposizione Universale a Londra, nel 1862 (Note invernali), individua, da subito, cosa c’è in ballo nell’epoca dei Lumi e del postmoderno. Egli è sgomento. Più che impressioni egli annota materiale da incubo. Il Palazzo di Cristallo dell’Esposizione diviene simbolo d’una catabasi infernale, apocalittica: “Sí, l’Esposizione è qualcosa di sbalorditivo. Vi percepite una forza tremenda che ha lì riunito in un unico gregge tutto quell’incalcolabile numero di persone giunte da ogni parte del mondo”. Esposizione Universale, Unico Gregge. Commenta ancora Zagrebelski: “Il Palazzo di Cristallo è rappresentato come un gigantesco crostaceo che stende le sue chele rapaci e, al tempo stesso, come un oggetto di fede, di fronte al quale si piega la ragione collettiva di una moltitudine omologata, razionalizzata, matematicizzata e pacificata dalla tecnica e dal commercio ... Una moltitudine, alla fin fine, resa concorde dal culto del denaro quale unica unità di misura della vita degli uomini, unica perché senza alternative e, soprattutto, glorificata come idolo da una nuova religione monoteista”.


Il Palazzo trasparente, cristallino, tornerà nella distopia di Zamjatin, Noi. L’umanità, resa gregge, deve essere privata dell’individualità sua propria; e il mondo reso un panopticon in cui essere eccitati, domesticati, fustigati in ogni momento della giornata, gli uni contro gli altri, il Potere sopra tutto. Si elimina, in tal modo, l’Ombra, il Segreto, quel residuo che consente la Vita; si elimina la comunità poiché immersi in una comunità talmente vasta da aver necessariamente eliminato le asperità delle differenze, la definizione che deriva dai linguaggi, dai gesti, dal retaggio degli antenati.
Si arriva, così, alla contraddizione massima: Individualismo nella Totalità. Essere egoisti, autoreferenziali e psicopatici in una società aperta, a tutti, talmente aperta da rendere ognuno anonimo, fungibile; armento indifferenziato, non individuo.

Molte persone hanno necessità di vedere ciò che è compiuto, altre intuiscono, dai geni, il corpo già formato. Dostoevskij anticipa Zamjatin; Zamjatin, di trent’anni,  Orwell. Orwell fu solo un tardo epigono: a favore del suo successo, svilito da riferimenti all’Unione Sovietica, oggi limitati e datatissimi, giocava la lingua universale, dei dominatori.

L’uomo del Novus Ordo, seriale e autistico al tempo stesso, è una contraddizione apparente: in un mondo al contrario, però, risulta altamente logico.
Altre contraddizioni: il tenore di vita cresce, si combatte la povertà; e però questo si paga, duramente. Il povero, organizzato come povero, e, perciò, resistente quale comunità, è ora allo sbando; il Russo riferisce: “A Haymarket ho visto madri che portavano le loro figlie minorenni a imparare il mestiere. Fanciulline di neanche dodici anni vi afferrano la mano e vi invitano ad andare con loro. Ricordo che una volta, per strada, vidi una bambina di non piú di sei anni, tutta stracciata, lurida, scalza, emaciata, e che era stata picchiata: il corpo che s’intravedeva tra gli stracci era coperto di lividi. Andava come dimentica di sé, senza affrettarsi in alcun luogo, e sa Dio per qual motivo gironzolasse tra quella folla: forse aveva fame. Nessuno le prestava attenzione. Ma quello che sopra ogni altra cosa mi colpí fu che camminasse con una tale aria di dolore, con una tale irrimediabile disperazione sul volto, che il vedere questa creaturina che già portava su di sé tanta maledizione e disperazione era persino in qualche modo innaturale e tremendamente doloroso. Continuava a far oscillare la testa arruffata da una parte all’altra, come se stesse discutendo di chissà cosa, allargava le braccine, gesticolando, e poi all’improvviso intrecciava le mani e le premeva sul petto nudo. Tornai indietro e le allungai un mezzo scellino. Ella afferrò la monetina d’argento e mi guardò negli occhi in modo selvaggio, con uno stupore timoroso, e all’improvviso si gettò in avanti correndo con tutte le forze, temendo che le riprendessi i denari. Storielle amene, insomma …”.

Sembra facile deridere tali resoconti: oggi non è più così! Invece è così. Non è cambiato nulla in termini di disperazione e follia. I rapporti son i medesimi, l’afflato del deraciné identico; non trovo differenze tra la bimbetta stracciata di Dostoevskij e lo sguardo perduto dei nostri figli, totalmente dimentichi di ciò che noi, pallidamente, fummo, ignari del passato, della cultura, dell’Italia, d’ogni cosa che dia identità e orgoglio. 7:2 = 21:6. Non deve fuorviarci quel 21 …

Durante la Belle Époque ciò che ha costruito le trincee sante dell’uomo viene incenerito. La Tecnica si impossessa dell’Arte e della Sapienza, rigettando il Sacro. La Scienza viene gradatamente sussunta nella Tecnica. L’Arte scade a imitazione. La fotografia genera il cinema: entrambe saranno lo sfiatatoio dell’iperrealismo che ancor oggi ci domina. In tal modo si perde la profondità, il simbolo, la sintesi allegorica. Gl’Impressionisti escono dalla bottega (non dalle Accademie, nonostante la vulgata da piagnisteo) disdegnando il mestiere. La loro tecnica è volutamente superficiale. Il colore, cioè, agisce per via orizzontale, tramite il contrasto; si perdono le velature, il grasso su magro e la prassi millenaria; del pari - è inevitabile - si perde la grandezza metafisica della visione. Spariscono i grandi temi per far posto all’oleografia, al resoconto, al giornalismo; si cerca di piacere a tutti (a chi non piacciono gli Impressionisti?); dilaga il fumetto, la caricatura, l’ammicco; al Salon gl’Impressionisti, dapprima dileggiati, celebrano il proprio trionfo (nel 1863, lo stesso anno di pubblicazione delle Note invernali di Dostoevskij). Il pubblico è ormai impressionato dalla biografia individuale, invece che dal magistero di bottega; più il pittore è pervertito, ambiguo, manipolatore, outré, maggiormente il pubblico facilone s’interessa a lui. Si abbandona la tradizione occidentale per far luogo all’esotico, all’africano, alla cineseria; il teatro si adegua con frivolezza; impazza il fonografo; café chantant e bettole hanno il loro bel da fare.

Si ricerca ancora il simbolo, nell’Avanguardia, ma dal punto di vista psicologista, freudiano. L’interiorità è ricca di mostri. D’altra parte tutto ciò che è simbolo, ciò che allude all’Altro, al Sacro, a ciò che è Superiore rispetto all’Umano, viene etichettato come decadente, putrido, malato. Il tema figurativo è irriso, l’astrazione diviene la regola; in seguito dominerà il capriccio individuale, svincolato da qualsivoglia logica tradizionale; l’artista, da artigiano sopraffino che era, diviene saltimbanco, creando, da guitto, una propria corte di cialtroni adoranti; infine, e siamo all’estremo grado di perdizione, l’artista Pagliaccio, che nemmeno sa più cosa sia una matita o un pennello o uno scalpello, condivide le parole d’ordine del Potere che, al solito, si occulta sotto la falsa maschera della libertà: ecco il Pagliaccio a inorridire o scioccare le platee con le scarpette rosse del femminicidio, le persecuzioni omossessuali, la tragedia del migrante: tutto filtrato da una sensibilità posticcia, da un sentimentalismo di maniera; cede, come detto, l’ultimo baluardo della classicità, pur degenerata - la statuaria, la tela -  a favore della performance o d’un gioco di suggestioni digitali e audiovisive. Lucette ebefreniche, refrain catacombali, distacchi schizofrenici diluiscono gli ultimi residui di senso in nome dell’ecumenismo da celebrare nel Palazzo di Cristallo: in effetti la morte di ogni cosa, l’abbruciamento compulsivo di ogni fonema o ansimo razionale, regala l’impressione di una libertà infinita.

Il Vecchio Regime arriva presto ai ferri corti con quello nuovo, democratico. Fra il 1914 e il 1945 si regolano i conti in via definitiva. Fra il 1945 e oggi son passati ottant’anni in un fiat: sono caduti, nell’ordine, gli Imperi Centrali, la Turchia, il Giappone, l’Italia, l’Iberia, la Grecia, la Russia, l’Afghanistan, l’Iraq. In piedi rimane la Persia, la Mesopotamia, che, presto, sarà invasa dalla libertà. La nuova Belle Époque è fra noi. Con tali differenze: ora, invece del consumo, si rende appetibile la frugalità (basta carne, basta proprietà, basta automobili) a tradimento: un consumismo diverso, a basso continuo, immateriale, verde, e gestito da un pugno di multinazionali che si sostituiscono allo Stato.

La novità degli ultimi decenni: lo Stato si dissolve, lentamente; i suoi organi costituzionali divengono la mano temporale della Monarchia Universale e, viceversa, quest’ultima, attraverso gli Imperi Commerciali, si occupa della vita del cittadino. Una forma di controllo più potente mai fu inventata. Banche e tribunali vivono in perfetta osmosi. Le banche prestano a usura, i tribunali si incaricano della libbra di carne da riscuotere: magari non una, ma due tre cinque libbre. Le banche, anzi, organismi privati d’un potere diffuso e inestirpabile, si atteggiano a buon padre di famiglia; i tribunali, una volta pallidi garanti della giustizia in nome del popolo, organizzano il banchetto finale. Bassanio deve una libbra di carne a Shylock, e va bene; ma qui non c’è nessun tribunale di Venezia a dissuadere l’usuraio, ma addirittura la concorrenza nel pretendere altro sangue, altra carne. Le banche moltiplicano gli avvocati come i tribunali le parcelle, per qualsiasi stramberia gli venga in mente, compresa la pubblicità. La ferita del debitore si allarga a fronte di pretese sfrontate, incredibili, folli. Come può ottenere giustizia? Ricorrendo, a sua volta, ad avvocati e tribunali: spesso i primi in combutta coi secondi: la ferita s’allarga, la banca prende il decuplo del debito, scremate le somme per il Baal pubblico, ora privato, che allatta faccendieri, cialtroni, psicopatici, furfanti d’ogni risma.
Poi, quando arriva la data fatidica, si fa una bella riunione con Mattarella vestiti da Pagliacci a reclamare una giustizia più giusta.

Ancora Dostoevskij: “Solo dopo aver calcato per qualche giorno il selciato delle strade principali, dopo esser penetrati con grande fatica nel brulicare umano … soltanto allora si rileva che questi londinesi hanno dovuto sacrificare la parte migliore della loro umanità per compiere tutti quei miracoli di civiltà di cui la loro città è piena; che centinaia di forze latenti in essi sono rimaste inattive e sono state soffocate affinché alcune poche potessero svilupparsi piú compiutamente e moltiplicarsi mediante l’unione con quelle di altri … La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale emerge in modo tanto piú ripugnante e offensivo, quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che si sono ammassati in uno spazio ristretto; e anche se sappiamo che questo isolamento del singolo, questo angusto egoismo è dappertutto il principio fondamentale della nostra odierna società, pure in nessun luogo esso si rivela in modo cosí sfrontato e aperto, in modo cosí consapevole come qui, nella calca della grande città. La decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare e uno scopo particolare, il mondo degli atomi, è stato portato qui alle sue estreme conseguenze … ogni sabato, di notte, mezzo milione di operai e di operaie coi loro bambini si riversano come un mare per l’intera città, raggruppandosi per lo piú in certi quartieri, e che per tutta la notte fino alle cinque del mattino festeggiano il riposo dal lavoro, cioè si ingozzano e si ubriacano come bestie, per tutta la settimana. Quest’intera moltitudine porta là le sue economie settimanali, tutto quello che ha faticosamente messo insieme a forza di duro lavoro e di maledizioni. Nelle botteghe di carne e di generi alimentari arde il gas in ampi fasci di luce, che illuminano a giorno le vie. Parrebbe un vero e proprio ballo, organizzato per questi negri bianchi. Il popolo s’affolla nelle taverne aperte e nelle strade. E qui si mangia e si beve. Le birrerie sono addobbate come palazzi. Questa moltitudine è ubriaca, ma senz’allegria, è cupa, opprimente e, in un certo suo modo, stranamente silenziosa. Solo di tanto in tanto le bestemmie e le risse sanguinose infrangono questo silenzio sospetto, che agisce tristemente su di voi. Tutti si sforzano di ubriacarsi quanto prima possibile, fino a perdere coscienza …”.

Il nepente, la perdita della coscienza, il cubicolo angusto, la cupezza di fondo … Le notazioni psicologiche di allora coincidono con le diagnosi di oggi.

Dostoevskij descrive la fine della civiltà; ogni fine, infatti, si assomiglia. Non diversa fu la fine di Navajos e Aztechi. Dapprima decadde l’umanità più prossima alla fonte dell’infezione e con meno corpo tradizionale; quindi, lentamente, cedettero le difese  immunitarie della nazioni forti, corrose con pazienza da ratti pestilenziali. Bastò, quindi, un raffreddore per uccidere l’Italia. Anche qui vale la metafora del tarlo e del mobile; un lavorìo costante, indefesso, pervicace, di chi ha un’utopia: l’utopia della Monarchia. Improvvisamente, lo schianto.

Cosa possiamo opporre a questo? L’ho ripetuto mille volte. Più di tutto conviene rigettare l’arma di legittimazione del Potere: il voto. Basti rilevare come ogni lobby, ogni potentato vogliano far votare o non far votare questo e quello; favorire, nella corsa al cambiamento (tutte le elezioni cambiano, inevitabilmente), o questo o quello; o dileggiando Tizio o minacciando Caio o esaltando Sempronio. Mai, e dico mai, questi satrapi delle coscienze hanno affermato: non si voti! Ci si astenga! Il gioco liberaldemocratico, base della finta democrazia, tiene in piedi la farsa.
Dire no, un “no” definitivo, in ciò consiste la condizione necessaria, ma non sufficiente alla ribellione …
Anche questo, però, l’ho detto mille volte.

I vecchi si ripetono, poi, stanchi di ripetere, farfugliano.

28 commenti :


  1. Sapessi come i tuoi farfugliamenti mi fanno compagnia…! Mica posso vivere sempre tra i boschi dell'Alaska (il mio Appennino). Che sia anch'io un animale sociale?
    Il, per me inedito, Russo in visita nel '62, il filo rosso che corre e ci ha raggiunto dalla Bastiglia, la libertà svenduta per la comodità...Preziosissimi farfugliamenti.

    Ma, se vuoi essere perfetto, come si diceva, parlaci, con comodo, di quella... condizione sufficiente! La felicità (e la conoscenza) va condivisa.
    Grazie, sempre.

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  2. Molto bello. Grazie.
    nachtigall

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  3. 10 e lode. Perfetto. Che altro aggiungere?
    Non siamo liberi di niente. Se penso al bollo dell'auto e del motorino, all'assicurazione, alla revisione, e poi imu, tasi, tari, condominio, bollette varie, multe improvvise ecc. ecc. non so se piangere o ridere. Se hai pure una seconda casa sono cazzi amari, perché spesso non vale nulla, ma ci devi pagare un sacco di soldi come fosse una reggia. Ci hanno fregato su tutta la linea. Dov'è la libertà? Libertà di pagare e subire fino alla morte, a meno che tu non sia un corrotto-ruffiano-leccaculo-raccomandato fino al midollo-pronto a inculare il tuo prossimo come se non ci fosse un domani.
    Se invece sei un povero cristo qualunque sei destinato ad essere uno schiavo del sistema senza speranza alcuna. Una guerra dice Alceste, ma se si dovesse morire solo noi e i veri figli di troia la facessero franca (perché quelli sono delle faine e sanno sempre come cavarsela a spese degli altri). Caro Alceste non ci sono bombe intelligenti che spazzano via la feccia umana e non senza distruggere quel poco che c'è rimasto di passabile. Una guerra, per come sono fatte oggi, rischia di buttare via il bambino , ma non l'acqua sporca.
    Ormai il mio misero lavoro mi costringe a fare orari sempre più infami, e a volte penso che uno schiavo di una piantagione di cotone dell'Alabama avesse una vita migliore della mia. Guardo i negri che spacciano eroina al parco di fronte con la massima spensieratezza (la polizia ne arresta uno al giorno, ma loro sono centinaia ed in ogni caso dopo mezza giornata sono di nuovo lì a spacciare), mentre io mi arrabatto per pochi euro l'ora, loro hanno solitamente vitto e alloggio gratis (sono tutti finti profughi) e possono delinquere impuniti da mattina a sera, ed a fine giornata si sono fatti il loro bel gruzzoletto. Prima facevo il volontario alla misericordia e andavo a raccattare i tossici in overdose per la strada, poi mi sono rotto i coglioni e ho smesso. Non dico che voglio andare a vendere la droga (io sono italiano e finirei in prigione subito), però invidio questi parassiti-delinquenti extracomunitari, loro sono liberi, senza divieti, senza doveri, fanno i loro comodi e basta: sembrano come i politici.

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  4. Tutto sommamente condivisibile.
    E fu cosi' che da allora si vive in un set cinematografico globale. Pura finzione, fiction...ma se la visione e' sovvertita, essa diviene realta'.
    Vogliamo la liberta' o vivere senza rischio? Basta pensare ai rischi che implica il non avere mai piu' liberta'...
    Saluti,
    Ise

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  5. Io comincerei a riflettere sull'opportunita' di tenere Come Don Chisciotte nella colonna dei "Siti da Seguire”! Certi articoli sono semplici, diretti, insulti. Pero' Come Don Chisciotte e' Come Don Chisciotte e io non sono nessuno.
    Ise

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  6. Gentile Alceste, gira che ti rigira torniamo sempre al solito punto: "..Una moltitudine, alla fin fine, resa concorde dal culto del denaro quale unica unità di misura della vita degli uomini..."; in questo suo scritto percepisco un afflato mistico, quasi una nostalgia della fede quale unica e autentica medicina per l'uomo; riecheggia potente il grido di Cristo in croce "eloì, eloì, lemà sabactàni", monito potente per l'umanità tanto arrogante da pensare di poter fare a meno del numinoso e del sacro.
    Molto meglio per l'uomo moderno rimanere nella nebbia che ammanta tutto, illudendosi che basti la croce su una scheda per cambiare l'ordine delle cose.
    Giusto ieri mi son dovuto mordere due volte la lingua, quando due conoscenti volevano trascinarmi in una tenzone su Zaia e sardine, per fortuna questo blog mi sta insegnando l'arte del silenzio e con un paio di finte sono riuscito a dileguarmi.
    Mi rendo conto di quanto sia difficile mantenere uno sguardo "alto" e "altro", ovvero seguire quella fantomatica linea retta, tracciata da buone letture, buoni ascolti e buon cibo (quando si ha la fortuna di trovarlo).
    Confesso che non nutro alcuna speranza sul risveglio dei dormienti, sul valore pedagogico di questo o altri blog, tutto intorno osservo soggetti mediamente capaci ormai irreversibilmente contagiati dal virus, suggestionati dalla modernità che tutto può e nulla nega, così vedo vecchi sbracati rendersi ridicoli senza alcun pudore, pur di ritagliarsi qualche minuto di celebrità e qualche tallero in tasca, immersi nel brago festival delle vanità che è il nostro tempo.

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  7. Passi presi dal “diario di uno scrittore” (anno 1877, fascicolo di Aprile) di Dostoevskij. Scritti allo scoppio della guerra con l’impero ottomano. Da notare la venatura antiliberale ed anticapitalista di Dostoevskij, che fa intravedere il suo passato da socialista. Come si fa a non essere d’accordo con Fëdor Michajlovič?
    Noi stessi abbiamo bisogno di questa guerra; noi non ci solleviamo soltanto per i nostri “fratelli slavi”, estenuati dai tormenti dei turchi, ma per la nostra stessa salvezza: la guerra rinfrescherà l’aria che noi respiriamo e nella quale soffocavamo, sedendo nell’impotenza del nostro esaurimento e nell’angustia spirituale.
    (…)
    Sì, abbiamo bisogno della guerra e della vittoria! Con la guerra e con la vittoria verrà la parola nuova, e comincerà la vita viva e non soltanto l’agghiacciante cicaleccio che c’era prima; prima, e fino ad ora, signori!
    (…)
    Ma i nostri saggi si sono attaccati anche ad un altro lato della questione: essi predicano l’amore del prossimo, l’umanità, soffrono per il sangue versato e per il fatto che noi ci imbestialiremo ancora di più nella guerra e così ancor più ci allontaneremo da un perfezionamento interiore, dalla giusta via, dalla scienza. Sì, la guerra è, naturalmente, una sventura, ma ci sono qui, in questi ragionamenti, molti errori, ma soprattutto basta per noi con questi sermoni morali borghesi! L’eroismo del sacrificio di se stessi col proprio sangue per tutto ciò che noi consideriamo sacro è, naturalmente, più morale di tutto il catechismo borghese. Lo slancio dello spirito di una nazione per un’idea generosa è una spinta innanzi, non un imbestialimento. Certo, possiamo sbagliarci in ciò che consideriamo idea generosa, ma se ciò che consideriamo sacro è vergognoso e peccaminoso, non sfuggiremo alla punizione della stessa natura; ciò che è vergognoso e peccaminoso porta in se la morte e prima o dopo si punisce da sé.
    (…)
    Hanno palpitato i cuori dei nostri tradizionali nemici e odiatori, per i quali noi già da due secoli siamo come una spina nell'occhio, hanno palpitato i cuori delle molte migliaia di ebrei europei e dei milioni di “cristiani” giudaizzanti; ha palpitato il cuore di Beaconsfield: gli è stato detto che la Russia sopporterà tutto, tutto fino all'ultimo vergognoso affronto. Ma Dio ci ha salvati, accecandoli tutti : troppo hanno creduto nella rovina e nella nullità della Russia, ma soprattutto non hanno voluto vedere. Non hanno infatti visto il popolo russo come un'unica forza viva, non hanno visto un fatto colossale: l’unione dello Zar col suo popolo.
    (…)
    SÌ, si può in generale dire che se la società è malata e contagiata, perfino un dono così benefico come una lunga pace si trasforma, invece che in utilità, in danno per la società. Ciò può applicarsi in generale anche a tutta l'Europa. Non invano nessuna generazione nella storia europea, da quando noi ce la ricordiamo, è passata senza guerra. Si vede dunque che la guerra serve a qualcosa, è salubre, dà sollievo all'umanità. È rivoltante se vi si riflette in astratto, ma in pratica, a quanto pare è così, ed è appunto per questo che per un organismo contagiato anche un bene prezioso come la pace si muta in danno. E tuttavia risulta utile soltanto quella guerra che è intrapresa per un’idea, per un principio superiore e generoso, e non per un interesse materiale, non per avida conquista, non per superba sopraffazione. Simili guerre hanno portato sempre le nazioni sopra una falsa strada e alla rovina. Non noi ma i nostri figli vedranno come finirà l’Inghilterra. Adesso per tutti nel mondo « l’ora è vicina ». Ed era tempo.

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  8. (…)
    Al contrario, è la pace, una lunga pace, quella che imbestialisce e incrudelisce l’uomo, e non la guerra. Una lunga pace genera crudeltà, vigliaccheria, crasso e grossolano egoismo e soprattutto ristagno intellettuale. In una lunga pace ingrassano soltanto gli sfruttatori dei popoli. Le cose stanno così, che la pace genera ricchezza, ma solo per una decima parte della gente e questa decima parte, contagiata dalle malattie della ricchezza, trasmette il contagio anche agli altri nove decimi, sebbene questi non abbiano la ricchezza. Il suo contagio si manifesta con depravazione e cinismo. Dal superfluo accumulamento di ricchezza nelle mani di singoli nasce nei possessori della ricchezza la grossolanità dei sentimenti. Il sentimento del bello si trasforma in sete di capricciose superfluità e anormalità. Si sviluppa terribilmente la sensualità. La sensualità genera crudeltà e viltà. L'anima triste e grossolana del sensuale è più crudele di ogni altra, perfino di quella viziosa. Qualche sensuale, che sviene alla vista del sangue che esce da un dito tagliato, non perdona a un poverello e lo fa andare in prigione per il più meschino debito. La crudeltà genera una preoccupazione esagerata è addirittura vile della propria sicurezza materiale. Questa preoccupazione vile della propria sicurezza in un lungo periodo di pace finisce sempre col trasformarsi in un certo panico per se stessi, si comunica a tutti gli strati della società, genera una terribile avidità di acquisto e accumulamento di denaro. Si perde la fede nella solidarietà degli uomini, nella loro fratellanza, nell’aiuto della società, viene enunciata a gran voce la tesi: “ognuno per sé”, il povero vede anche troppo che cos’è un riccone, e che razza di fratello è per lui e così tutti si estraniano reciprocamente e si isolano. L'egoismo uccide la generosità. Soltanto l’arte sostiene ancora nella società una Vita superiore e risveglia le anime che si addormentano nei lunghi periodi di pace. Ecco perché si è inventato che l’arte può fiorire soltanto nei periodi di pace duratura, e invece c'è qui un'enorme inesattezza; l’arte, cioè la vera arte, si sviluppa appunto nei lunghi periodi di pace perché contrasta il triste e vizioso addormentarsi delle anime e, al contrario, con le sue creazioni, sempre, anche in questi periodi spinge verso l'ideale, genera protesta e irritazione, agita la società e non di rado costringe a soffrire gli uomini ansiosi di svegliarsi e di uscire dalla fossa puzzolente. Il risultato di tutto ciò è che la lunga pace borghese, alla fine, genera quasi sempre essa stessa l'esigenza della guerra, la porta in sé come una sua trista conseguenza, ma non già per uno scopo elevato e giusto, degno di una grande nazione, ma per dei miseri interessi borsistici, per conquistare nuovi mercati, necessari agli sfruttatori, per l’acquisto di nuovi schiavi, necessari ai possessori di sacchi di oro, in una parola, per cause non giustificate neppure dalla necessità dell’autoconservazione, ma testimonianti, al contrario, lo stato capriccioso e morboso dell’organismo nazionale. Questi interessi e le guerre che per essi vengono intraprese, corrompono e perfino annientano del tutto i popoli, mentre la guerra, per uno Scopo generoso, per la liberazione degli oppressi, grazie ad un'idea sacra e disinteressata, una tale guerra purifica soltanto l’aria contagiata dai miasmi che vi si sono accumulati, cura l’anima, caccia via la vergognosa viltà e pigrizia, annunzia e pone uno scopo fermo, dà e chiarisce un'idea, alla cui realizzazione è chiamata questa o quella nazione. Una tale guerra rafforza ogni animo con la coscienza dell'abnegazione e lo spirito di tutta la nazione con la coscienza della reciproca solidarietà e unione di tutti i membri che formano la nazione. Ma soprattutto con la coscienza del dovere compiuto e della realizzata giusta azione.

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    1. Non conoscevo questi passi di Dostohevskji. Ti ringrazio molto per averli condivisi...non c'è niente da fare...vedeva fino in fondo all'animo umano tutta la verità, anche la più scomoda. E poi era russo, lessi un libretto di Tolstoj sulla battaglia di Sebastopoli...bellissimo. Si evince una fierezza che non riscontro in nessun altro popolo, non già patriottismo, fierezza intima.

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    2. Posso chiederti da dove sono tratti questi passi?

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    3. Quello di Dostoevskij in effetti non era patriottismo, ma piuttosto una convinzione messianica. Credeva che la Russia , in quanto stato e popolo con una cultura imperniata sulla religione ortodossa, avesse una missione redentrice verso le altre nazioni europee. Vedendo nell’ortodossia la vera religione cristiana (al contrario, a parer suo, del cattolicesimo, che considerava l’erede diretto dell’impero romano e non di Cristo; contro il cattolicesimo ne disse di cotte e di crude, avendone forse una considerazione peggiore pure di quella che aveva sull’ebraismo), credeva che la missione della Russia era quella di convertire e salvare l’Europa. Questa idea di Dostoevskij della Russia, come stato che salva l’Europa e la civiltà europea ristabilendo la giustizia, venne accettata anche dalla cultura comunista, poiché vi vedeva un parallelo con la sua missione di liberazione del proletariato. Non bisogna però credere che Dostoevskij considerasse l’Europa come un nemico, al contrario, considerava la cultura e la civiltà europea strettamente legate con la civiltà russa.
      I passi citati, comunque, li ho presi dal “diario di uno scrittore”. Scritti durante la guerra russa contro l’impero ottomano del ‘77. Proprio con Tolstoj, Dostoevskij, accese una piccola discussione in merito alla sua opinione sulla guerra. Tolstoj era un pacifista da quando fece la sua prima esperienza bellica, nella guerra di Crimea del ‘53. In merito al fenomeno di forte senso patriottico diffuso nella popolazione russa all’inizio della guerra del ‘77, prese una posizione di distacco e vi avanzò alcune critiche in un passo del suo romanzo Anna Karenina. Dostoevskij, che al contrario era totalmente preso da questo furore nazionale, lo criticò a sua volta, pur apprezzando infinitamente la sua opera.

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  9. Che dire, prendere coscienza che il conflitto é parte dell'essere umano é la grande verità negata...purtroppo anche ad alti livelli, complice la storia, senza dubbio. Ho letto da qualche parte una riflessione interessante: che la Generosità ha la sua radice nella parola Generare, come un contadino che semina, ovvero dare modo di nascere....laddove la Creatività si realizza appunto, e finisce,in una creazione, creazione che può essere grandiosa intendiamoci. La riflessione sugli impressionisti mi ci ha fatto ripensare. Mettevano forse poca generosita nella loro arte? E anche il discorso sulla comunita...e pensare che l'Italia era costituita da comunità familiari tenute a bada spesso solo da un prete e un carabiniere...

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  10. È notevole infatti che la migliore letteratura novecentesca sia opera di reduci delle due guerre' in particolare della prima

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  11. Dostoevskij resta sempre insuperabile. 

    Come disse qualcuno: la pace e' solo una pausa tra due guerre? 
    Tuttavia, vorrei far notare come, nel mondo odierno, la vera arte non esista piu' da tempo, segno che forse non abbiamo vissuto un "lungo periodo di pace".  
    Ci si potrebbe spingere oltre e affermare che la guerra col silenziatore degli ultimi decenni stia giungendo al capolinea (ci stiamo avviando, sconfitti e vittoriosi, verso la pace), e che essa abbia gia' avuto tutti i suoi martiri della generosita' e del sacrificio di se. Costoro hanno combattutto SOLI, contro "lo slancio dello spirito", corrotto, "della nazione", ottenendo come risultato, per chi ha occhi per vedere, proprio la perdita della "fede nella solidarietà degli uomini, nella loro fratellanza, nell’aiuto della società". 
    Il mondo purtroppo e' cambiato irrimediabilmente dai tempi di Dostoevskij, egli stesso ne osservava i prodromi. 

    Infine va notato che se, come egli giustamente evidenzia, la ricchezza accumulata e' la causa delle empieta' e poverta' di spirito che descrive, ne deriva che il rimedio, la cura per "le malattie della ricchezza", dovrebbe essere la poverta'; non la miseria che invidia e anela all'abbondanza altrui, ma la poverta' intesa in senso…cristiano? Decidete voi: vivere con il giusto, il quanto basta per…vivere. Se poi, per raggiungere tale risultato, sia necessaria, inevitabile, una guerra, non so.   

    L'ultima fiaccola di speranza viene comunque dalle stesse perle di verita' che Dostoevskij ci regala:
    "Certo, possiamo sbagliarci in ciò che consideriamo idea generosa, ma se ciò che consideriamo sacro è vergognoso e peccaminoso, non sfuggiremo alla punizione della stessa natura; ciò che è vergognoso e peccaminoso porta in se la morte e prima o dopo si punisce da sé."

    Saluti,
    Ise

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  12. Alceste, citi il passo di Dostoewskij come se fosse la descrizione della fine della civiltà inglese, in realtà fu l'unico periodo in cui ne ebbero una e sono andati avanti alla grande per 150 anni e, ancora oggi, contano molto più della loro effettiva consistenza. Se analizziamo la società russa in quei 150 anni, con tutta la bellezza e la profondità della loro morale cristiana ... Londra, compresa di bambine cenciose, sembrerebbe l'isola di Utopia. (Puskin)

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    1. Non sono d'accordo. Il passo del Russo descrive la fine della civiltà inglese (pre-scespiriana) e il suo ingresso in una bolla d'aria anonima, ecumenica, impersonale. Come scrissi, la civiltà ha i suoi alti e bassi, ma è svincolata dalla ricchezza materiale. I Navajos vivevano in capanne puzzolenti ed erano Navajos; ora gestiscono casinò e nessuno sa come definirli ... forse post-americani. Lo stesso vale per ogni tipo di civiltà o concrezione umana, anche ridicola. Lo stesso vale per noi. Basti guardare a cosa abbiamo rinunciato, a "quanto" abbiamo distrutto ... L'Inghilterra ha edificato le basi del primo Impero anomico e totalizzante ... l'Italia è una colonia inglese (commerciale e non solo) eppure ciò che ci hanno soprattutto insegnato è dimenticare noi stessi, non altro: dal dopoguerra a oggi sono state devastate intere porzioni di territorio. Per devastazione intendo: de-italianizzazione. Certo, rispetto a mio nonno conduco una vita più comoda, i miei fratelli non sono morti in guerra, sicuramente io non morirò in guerra e in qualche comune accidente del secolo scorso (tetano, tisi, poliomielite): sono altro, però, assolutamente diverso. L'Italia mi è, in parte, aliena poiché, in parte, non sono più Italiano: scrive con un computer ecumenico, grazie a un programma ecumenico, su una piattaforma ecumenica, comune a tutti, comune ai Navajos, ai russi, agli apolidi di tutto il mondo. Essere qualcosa significa rinunciare; avere il sedere al caldo implica, necessariamente, la perdita di qualcosa ... occorre sempre chiedersi a cosa si rinuncia, in realtà.

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    2. Ma nell'arco di quei 150 anni i londinesi, di fatto, sono stati meglio di qualsiasi altra parte del mondo, partendo da uno scoglio piovoso di mrd. I russi negli stessi 150 anni, pur possedendo mezzo pianeta terra, hanno conosciuto anche il cannibalismo da fame.
      Per il resto si, capisco cosa vuoi dire Alceste, conosco il tuo grido di dolore e ne piango insieme a te, del resto sono un tuo appassionato lettore da tempo, la tua terra, Tuscia e dintorni, la sua storia, la sua cultura, è talmente bella, da rasentare la perfezione, uno ovviamente non può accettare alcun tipo di cambiamento. Ma il mondo funziona così, sono spariti gli egiziani, i greci, gli etruschi, i romani, spariranno anche i globalisti.

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    3. Ragazzi, ma non vi sembra di prendere gli spini per le punte nel tentativo, lodevole di per sé, di abbracciare l'Universo? Un po' difficilino…
      Con risultati talvolta comici, tipo quello di definire il Grande Russo un "socialista"!
      Eppoi, quando si parla di italiani, inglesi, russi, a quali ci si riferisce? di quale secolo o decennio? Qual è l'archetipo, quello immutabile? Ma credete veramente che esista, dentro o fuori la caverna? E chi lo decide?
      Altro è dispiacersi che un modello culturale, quello angloamericano del XIX° e XX°, abbia fagocitato e appiattito il mondo, altro invece pensare che le singole "vere"civiltà siano immutabili, si come noi preferiamo concepirle per pura preferenza individuale e temporale. Noi forse conosciamo la grandi civiltà del passato come monoliti perché condensate in un capitolo di un libro di storia…
      O perché i "reperti", ancora per poco osservabili, essendo essi immoti, ci trasmettono un senso di sicurezza, di solidità, di essenzialità (vero Alceste?) che ci solleva dal transeunte, dal precario, forsanche dall'entropia.
      Sono spiacente ma anch'esse all'entropia appartengono o verso essa si dirigono, oggi come sempre.
      Difettiamo, come uomini moderni, di ancoraggi sicuri, certo. Causa la velocità estrema delle trasformazioni odierne: un sessantenne oggi ha vissuto almeno in tre epoche storiche diverse e con valori mutati e contraddittori. Mutamenti improvvisi. Ma provate a pensare alla girandola di zebedei che afflisse Incas e Maya all'apparire della civiltà di Cortez e Pizzarro...
      Che convenga estinguerci?
      PS: qualcuno (con qualche neurone soprannumerario rispetto a Salvini) prima o poi mi spiegherà bene cosa siano gli "italiani",ora estinti, e mi specifichi l'epoca nella quale si suppone siano vissuti...

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    4. Te lo spiego subito: quando Enea arrivò sulle coste del Lazio cominciarono gli Italiani ... gli Italianuzzi belli ... una data improbabile, irricevibile, ma noi siamo così ... sbarazzini, e ci piacciono i simboli ...
      Enea mi assomigliava? Forse no, ma Latino forse sì. In ogni caso è indubitabile che il girino non assomigli al rospo, ma faccia schifo lo stesso, sempre lì, brutto, ingrugnato e infognato nella melma; sta a casa sua, però, dove mangia beve dorme e si riproduce, da almeno tremila anni; possiede abilità e una certa destrezza: come possiamo volergli male?

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    5. Certo, sul piano simbolico, mitico-poetico non fa una grinza. Capisco cosa vuoi dire. Credevo parlassimo di Storia…
      Tu collochi ogni cosa a un livello diverso, immateriale. Forse un rigetto del materialismo storico di giovanile memoria; ma mica voglio psicoanalizzare nessuno!
      Per conto mio allora sarò libero di pensare primo italiano quello che sulla luna cercava di recuperare il senno di Orlando…
      Astolfo mi è congeniale.

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  13. Data la mia ventennale passione per Dostoevskij, e considerando che proprio di recente tornavo a spulciare le sue Note, non posso che apprezzare. Detto ciò, la mia attenzione è stata carpita qualche attimo fa da un post su FB, inerente un'iniziativa del governo norvegese, che mi ha riportato ad altri scritti alcestiani. Tale post, di una senatrice radicale, a quanto leggo, è stato condiviso da un mio contatto, una brava donna, istruita, progressista, ovviamente Pol.Cor., con l'invito a smetterla di porre la testa sotto la sabbia. Ora, io non so se anche Alceste si trovi talvolta a scorrere la homepage di detto social network, ma, siccome credo si tratti di una pagina in chiaro (la senatrice anela a diffondere il più possibile il proprio verbo), consiglio la visione e la breve lettura. Chissà non ne venga fuori un nuovo scritto ad hoc, cosa che francamente auspico.
    https://www.facebook.com/antonella.soldo.1?__tn__=%2CdCH-R-R&eid=ARALOimtQgU3Q8dmdTPRe-lwEdf61H8fZU1bSdYsSrlTqbRFqUubqL4q1ZfDp1IuMwMa5P4au8_NMTTw&hc_ref=ARS8UupuHZXbmg4NCC44bwX8JhupCrlAPmLmQa4x1K2IPfggLjcCKXOtjEnInU3f-Z4&fref=nf

    Yaroslav

    P.S.: un tardivo ringraziamento a Stika per il dichiarato apprezzamento di un mio commento ad uno scritto di Alceste dove, guarda un po', compariva in "copertina" il volto della Bonino.

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    1. Questa tizia ama i posti non gentrificati, ma auspica lo spinello ecumenico. La contraddizion che nol consente ... questi elementi vanno e vengono ... al massimo mi sono occupato del Salmone Massimo: Marco Pannella, che aveva una sua dirittura morale. Era un vero nemico, era l'Arcinemico in un certo senso. I calibri minori e le mezze cartucce servono per i post d'evasione.

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    2. Ovviamente il punto non era la senatrice che ha condiviso con entusiasmo la notizia, del tutto trascurabile, ma la notizia stessa, la quale mi pare un ennesimo fatterello di cronaca emblematico della luciferina ansia dissolutrice dei sedicenti progressisti del tempo presente (con Scandinavia, Canada e USA in testa). Capirai che quando si promuove una campagna che allude ad un uso responsabile dell'eroina, siamo un tantino oltre lo spinello libero.

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  14. "Dire no, un “no” definitivo, in ciò consiste la condizione necessaria, ma non sufficiente alla ribellione …
    Anche questo, però, l’ho detto mille volte.
    I vecchi si ripetono, poi, stanchi di ripetere, farfugliano."
    Dipende da che vecchi hai davanti, caro Alceste :-) Certi "no" risuoneranno per sempre. Saranno poco utili, non sufficienti? Ecchissenefrega dai! Tanto tutto inevitabilmente ed esistenzialmente punta alla rovina, personale e cosmica. E allora, vivvaddio, esalitamoli questi no.
    https://www.youtube.com/watch?v=qnHbjIAILtY

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  15. Bisogna essere preparati per leggere Alceste. Potrebbe produrre grosse crisi di coscienza, o acuti sensi di impotenza e frustrazione.
    È vero, il Grande Strappo ci fu con la rivoluzione francese. Eppure, come riconoscono in pochi, ebbe un impatto ancora più grande il salto tecnologico successivo. Onestamente, bisogna ricordare che il sovvertimento operò in un Mondo Vecchio in crisi, pallido simulacro delle grandezze passate. Non vi vedo tutto questo complotto, la tecnologia ha nella sua costituzione l'abbattimento di barriere, la costruzione di ponti, anche se sono ponti che disgregano l'essere, lo nullificano. I potenti la usano come mezzo, presto diventerà l'unico fine. È la Tecnica che fa tendere tutto in automatico alla Monarchia Universale. Il mito del Progresso ha sostituito Dio, il denaro è diventato l'unico metro di valore, queste sono le grandi fedi del Positivismo.
    Chiediamoci però se questa Tecnica, in mano a certi personaggi o gruppi di potere del passato, non sarebbero stati usati nello stesso, odioso, modo, non penso ci si sarebbe messi molti scrupoli.
    Personalmente in questi articoli ci leggo Evola, Guenon, Pasolini, in salsa popolare ma ricercata, per certi versi celiniana. Il merito è che lo stile in tanto allenamento si è reso personale, riconoscibile, amato da pochi, dileggiato da molti e ignorato dalla massa, e forse va bene così. Certo, non si può negare che nel complesso ci sia molto di nostalgico, e per me non c'è nulla di male, solo si scade facilmente nell'idealizzazione. A rigor del vero occorrerebbe più sobrietà, distacco, ma forse così si perderebbe gran parte della poetica alcestiana.
    A me va benissimo così.

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    1. Concordo in linea di massima con quel che dici.
      La tecnologia purtroppo e' gia' il fine. E' sempre piu' evidente che la natura stia diventando una vecchia tecnologia obsoleta da dismettere per far posto alla nuova. Un tempo si dipendeva dalla prima per la sopravvivenza, ora si dipende dalla seconda. Il denaro ha fatto da tramite per la transizione e ora sta scomparendo, esaurita la sua funzione. I ponti e le barriere abbattute sono finti, sono illusioni...nella realta', nulla e' cambiato della condizione dell'uomo, a mio parere. Ora come allora la "malattia" potrebbe essere curata con le stesse ricette: il rafforzamento e l'applicazione della morale e di una visione piu' grande che superi il qui e ora e il mero ambito materiale pseudoscientifico, la sacralita' della vita, l'unione d'intenti, ecc. 
      Il cinematografo doveva essere un'invenzione senza futuro, e cosi' fu, ci ha proiettati in un futuro fittizio e crediamo nell'illusione del movimento che la tecnica dona, scambiato per progresso (incluso lo spettacolo del movimento che secondo i fratelli Lumiere ci sarebbe dovuto presto venire a noia), senza piu' renderci conto dell'immobilismo in cui voluttuosamente sostiamo (quell'eterno presente qui spesso deprecato).  
      Quando la tecnologia raggiungera' l'autocoscienza che aspira all'eternita', si mettera' in cerca del suo creatore (l'uomo), che in quanto l'unico col potere di crearla e quindi distruggerla, sara' visto come una minaccia da debellare. Come l'uomo che ha voluto uccidere Dio, siamo in un giogo ciclico...ma sono dell'idea che non siamo impotenti e non possiamo restare con lo sguardo rivolto solo al passato che non tornera' piu' uguale, questo deve invece generare in noi la visione chiara della volonta' con cui produrre piccoli movimenti virtuosi anziche' viziosi.
      Saluti,
      Ise

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    2. Grazie per lo scambio. Il discorso sulla tecnologia è fondamentale, ne parla estesamente Emanuele Severino. Questo rimanda a un punto fondamentale, il rapporto dell'uomo con la natura e le sue leggi. L'uomo come hai detto in origine si adattava alla natura, ma appena ne ha avuto la possibilità, ha dettato le sue leggi artificiali, piegandola ai suoi bisogni e capricci.
      Mi chiedo se non sia sempre stato così, cioè che l'uomo non abbia mai, sotto sotto, accettato le regole del "gioco", e non appena possibile, se ne sia emancipato, portando la lotta sino all'ultima frontiera (e qual è l'ultima frontiera, l'aspetto più terribile della natura, se non la nera Signora con la falce)?
      Certo, delle rotture ci sono state, lo strappo del cristianesimo col mondo dei "gentili", creò una corrente carsica che oggi è un fiume in piena - parte tutto da come si avverte il tempo...ciclico prima, progressivo e lineare poi...da qui l'idea di Progresso, e il rifiuto di una fondamentale legge naturale. (Karl Loewith)
      Sempre più, la riflessione mi porta a vedere l'uomo come corpo "alieno" alla natura, (errore evolutivo? recuperati le poche righe di Zappfe che si trovano) rispetto a tutti gli altri viventi di questo mondo, nella sua testa c'è qualcosa che si ribella, non tollera la caducità della vita, la sua fondamentale insensatezza, e quindi ne avade, illudendosi, e cominciando una lotta senza quartiere, ora più che mai nella fase viva. Inutile dire che sarà velleitaria. La "malattia" come la chiami ,non saremo noi a cambiarla, gli argini si sono rotti, non è buttando tre sassi nel fiume che lo si arresta. Forse deve essere così, deve fare il suo corso fino in fondo, e paradossalmente conviene più accelerarne la corsa che tentare di fermarla. Basta guardarsi intorno per riconoscere quanto al di là ci si è spinti, indietro non si può tornare, non ne saremmo capaci, visto che anche noi siamo infetti, anzi forse siamo il rigurgito, oltretutto sarebbe farsesco.
      Meglio allora cercare di essere coerenti con noi stessi, cercare di stare alla larga più che si può, cercando l'aria delle altitudini, fresca e pura, come a lunghi tratti si respira in questo cantuccio del web; riuscire ad arrivare all'ultimo momento senza vergognarsi, senza troppi rimpianti, essendo scesi solo ai compromessi più necessari. Non c'è più spazio per la comunità come la vorremmo e come a tratti è stata, siamo costretti a realizzarci dentro il nostro guscio, per quanto possibile.
      Oggi forse la più alta forma di dissenso è appunto accettare il gioco di cui prima, anche se questo, per il moralismo asfissiante di oggi, ci fa dei mostri.

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    3. Caro Dennis,

      grazie per la risposta e gli interessanti autori citati per me da approfondire.
      Sono del tuo parere sul fatto che la piu' alta forma di dissenso sia accettare "il gioco" e osservarlo nel suo sviluppo augurandosi una veloce "happy" end, se potessi ne accelererei il decorso (della malattia).
      Tuttavia, nonostante siamo tutti infetti, non credo nell' insensatezza della vita. Mi viene naturale credere che tutto abbia un senso e un perche' e sia perfetto cosi' com' e', non faccio sforzi nel pensarlo e non penso di mentire a me stessa, e' quel che sento. Secondo me poi la realta' attuale e' piu' che mai ri-velata, coperta cioe' di ulteriori veli di Maya, che la fanno apparire totalmente artefatta, e questo devia il sentire comune e l'importanza della propria presenza ed essenza. Esiste ancora bellezza e ne trovo esempi ogni giorno, come anche del suo contrario. Certo, quest'ultimo oggi domina, ma non ho fiducia nella democrazia; anche se la maggioranza delle persone non riconosce piu' la bellezza, non vuol dire che essa debba scomparire per tutti e che non sia uno dei motori principali dell'esistenza.
      Cari saluti,
      Ise

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Siate gentili ...